L’ITALIA ALLA RICERCA DI UNA NUOVA “AUTORITÀ SALARIALE”

Le sentenze della Cassazione che attribuiscono al giudice il compito di controllare le retribuzioni previste da tutti i contratti collettivi, anche stipulati dai sindacati maggiori, rimedia ad alcuni gravi ritardi del sistema, ma al prezzo dell’incertezza circa lo standard applicabile – Il Governo riconsideri la necessità di un intervento sul minimum wage

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Articolo tratto dalla relazione introduttiva al convegno del Centro Nazionale Studi Domenico Napoletano su La questione salariale in Italia, che si terrà nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Torino nei giorni 14 e 15 giugno 2024, pubblicato sul mensile Eco il 10 giugno 2024 – In argomento v. anche il mio articolo pubblicato su lavoce.info il 6 ottobre 2023, Se è il giudice a stabilire il minimum wage 

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La contrattazione collettiva non fornisce più un parametro affidabile

Fino al settembre scorso l’orientamento prevalente tra i giudici del lavoro e gli studiosi era nel senso che anche chi non fosse iscritto ad alcun sindacato avesse diritto a una retribuzione pari quanto meno ai minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale di settore stipulato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative, tenendo ovviamente conto della produttività effettiva del lavoro in ciascun settore e a ciascun livello. La Corte di Cassazione riconosceva la possibilità che il giudice, nello stabilire la “giusta retribuzione” a norma dell’articolo 36 della Costituzione, si discostasse dallo standard stabilito dal contratto collettivo solo in via eccezionale e in considerazione di circostanze del tutto particolari allegate dal lavoratore ricorrente: in via generale valeva la presunzione che il “giusto salario” corrispondesse agli standard contrattati dai sindacati più rappresentativi. Ultimamente questo orientamento giurisprudenziale è andato in tilt, anche in conseguenza di una grave crisi del sistema della contrattazione collettiva, che – soprattutto nei settori dei servizi labour intensive – si è mostrata incapace di mantenere il ritmo regolare del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, e comunque di assicurare una dinamica salariale adeguata.

Una udienza della Corte di Cassazione

Fatto sta che con le sentenze n. 27711 e 27769 depositate il 2 ottobre dello scorso anno la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione – richiamando la direttiva UE dell’anno precedente, n. 2041, sulla determinazione dei minimi retributivi – ha stabilito che il giudice chiamato a decidere una controversia in materia salariale non può limitarsi a presumere che lo standard contrattato dai sindacati maggiori sia sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, come prescrive l’articolo 36 della Costituzione, ma deve controllare questa corrispondenza in concreto, in relazione alle circostanze, caso per caso. E indica i nuovi parametri che devono essere considerati dal giudice: tra questi parametri ci sono la soglia di povertà individuata dall’Istat, il salario medio o mediano individuabile attraverso i dati Uniemens sulle retribuzioni correnti censite dall’Inps, ma anche altri, come il costo della vita nella zona, o gli standard retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva per altri settori. La Corte, richiamando la direttiva UE, ha peraltro attribuito al giudice il compito di controllare che la retribuzione non soltanto protegga dalla povertà, ma assicuri un’esistenza “libera e dignitosa”; ciò che implica qualche cosa di più del rispetto della soglia di povertà, secondo i parametri forniti da Istat e Inps: la retribuzione minima – avverte la Corte – deve soddisfare anche, tra le altre esigenze, quella di poter partecipare alla vita sociale della collettività, assistere a spettacoli o a iniziative diverse di carattere culturale. Manca però del tutto, tra i criteri indicati dalla Corte, il riferimento alla produttività marginale del lavoro, che non può invece essere ignorato nella negoziazione dei minimi tabellari dei contratti collettivi.

Il lavoro povero

Il caso cui si riferiscono le due sentenze della Cassazione dell’ottobre scorso riguarda il settore dei “servizi fiduciari” (vigilanza privata, trasporto di valori, reception e custodia), per il quale fino al maggio 2023 un contratto collettivo da tempo scaduto prevedeva una paga minima mensile molto bassa – 930 euro, corrispondenti a una paga oraria complessiva di circa 6,13 euro –, di poco superiore agli 834,66 euro che all’epoca erano indicati come soglia di povertà relativa. Sulla base dei criteri di cui si è detto la Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice di merito debba fare riferimento, anche con effetto retroattivo, a un altro contratto collettivo nazionale, anche se stipulato per un settore produttivo diverso, che preveda uno standard retributivo ritenuto più adeguato.

Considerato il livello delle retribuzioni di cui si discuteva in quel caso, la decisione di aumentarle autoritativamente è ben comprensibile. La Cassazione avrebbe, però, potuto compiere L’operazione anche nell’ambito del vecchio orientamento giurisprudenziale, giustificandola con l’eccezionalità della situazione che era venuta a determinarsi nel settore; ha invece preferito prendere spunto dal caso specifico per compiere la svolta di cui si è detto, scardinando la presunzione generale di corrispondenza dello standard contrattato dai sindacati maggiormente rappresentativi con il precetto costituzionale. In questo modo, perdurando l’astensione del legislatore italiano dal dettare uno standard retributivo minimo universale, lo scettro dell’“autorità salariale” passa evidentemente dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative ai giudici del lavoro. E qui si pone un problema: i giudici sono molti, ciascuno con la propria idea del parametro della vita “libera e dignitosa” prevista dall’articolo 36 della Costituzione. Ciascun giudice dispone, nell’esercizio di questa funzione, di “una ampia discrezionalità” (questo è più volte ribadito in entrambe le sentenze della Cassazione che hanno inaugurato il nuovo orientamento giurisprudenziale): può dunque determinarsi un contrasto anche assai rilevante tra gli standard retributivi minimi sanciti non solo da tribunali diversi, ma anche da giudici diversi nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario. Per esempio, in un capoluogo di provincia di dimensioni medie nel quale operino dieci giudici del lavoro, ben può determinarsi una divergenza tra i modi in cui ciascuno di essi coniuga i molti criteri indicati dalla Cassazione; cosicché – salvo che tra i giudici stessi venga praticata una sorta di coordinamento informale – potrebbe accadere che venissero fissati, per lo stesso tipo di lavoro e nella stessa zona, più standard retributivi minimi diversi in altrettante sentenze.

Fino all’estate dell’anno scorso, un imprenditore intenzionato a compiere un investimento in Italia poteva formulare un piano industriale fondato sullo standard retributivo previsto dal contratto collettivo applicabile nel settore, stipulato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative, nonché sulla sua dinamica prevedibile nel tempo; oggi la possibilità di fare affidamento su quello standard viene meno, soprattutto nei settori produttivi caratterizzati da una produttività del lavoro più bassa, perché qualsiasi giudice potrà ritenerlo – sulla base di un’applicazione largamente discrezionale dei criteri indicati dalla Corte di Cassazione – insufficiente rispetto a quanto previsto dall’articolo 36 della Costituzione.

La retroattività del nuovo standard stabilito dal giudice

L’assetto del sistema delle relazioni industriali conseguente al nuovo orientamento della Cassazione presenta un altro profilo di criticità che non può essere sottovalutato. A differenza di uno standard retributivo fissato dalla legge o dal contratto collettivo, che si applica soltanto dal momento in cui la legge viene emanata o il contratto viene stipulato, la sentenza del giudice del lavoro può applicarsi anche retroattivamente. Ipotizziamo che dieci dipendenti di un’azienda ricorrano al giudice sostenendo che la propria retribuzione mensile di 1.200 euro (corrispondente a una paga oraria complessiva di circa 7,9 euro) non rispetti il precetto costituzionale e non lo abbia rispettato anche negli ultimi dieci anni; e ipotizziamo che il giudice ritenga effettivamente dovuti, per il lavoro da esse svolto, 1.500 euro al mese (che portano la paga oraria complessiva a circa 9,9 euro); questa decisione non si applicherà soltanto al lavoro svolto dal momento del deposito della sentenza in poi, ma anche al lavoro svolto in precedenza. Una differenza di 300 euro al mese riferita, per esempio, ai dieci anni di lavoro precedenti (ma potrebbero essere anche venti o trenta), maggiorata del relativo onere contributivo, più le sanzioni per i contributi omessi, può generare un debito riferito al lavoro fin qui svolto dalle dieci persone interessate di oltre un milione di euro.

Mentre per il futuro l’impresa può cercare di coprire il maggior costo del lavoro determinato dalla sentenza negoziando in modo diverso il prezzo dei beni o dei servizi offerti ai propri committenti da oggi in poi, altrettanto essa non può fare per beni o servizi che sono stati oggetto di contratti stipulati ed eseguiti in passato. Col risultato che l’improvviso aumento dello standard retributivo deciso dal giudice del lavoro con effetti retroattivi può determinare uno squilibrio nel bilancio aziendale tanto più grave, quanto maggiore è il peso del costo del lavoro nella produzione del bene o del servizio che è oggetto dell’attività imprenditoriale.

Non è un’ipotesi teorica: casi di crisi aziendali gravi causate dall’applicazione retroattiva dei nuovi standard fissati dai giudici già incominciano a verificarsi.

L’intervento legislativo che a questo punto appare indispensabile

Che non possa essere questo il modo ordinario in cui vengono stabiliti gli standard retributivi nel nostro Paese sembra evidente. Ciò dovrebbe indurre il Governo a rivedere la decisione presa l’anno passato di mantenere il regime di abstention of law su questa materia che ha caratterizzato il sistema italiano delle relazioni industriali negli ultimi ottant’anni, rifiutando di porre mano a una legge che stabilisca la retribuzione oraria minima universalmente applicabile.

Quella decisione – presa in risposta alla direttiva UE sopra citata, n. 2041 del 2022, che richiede l’esistenza in ciascuno Stato membro di uno standard retributivo minimo, sia esso di fonte legislativa o contrattuale collettiva – era motivata col fatto che in Italia lo standard retributivo minimo era fornito dalla contrattazione collettiva nazionale di settore. Senonché quel regime funzionava sul presupposto dell’estensione di fatto a tutti i rapporti di lavoro dello standard stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria stipulato dai sindacati maggiori: in applicazione dell’articolo 36 della Costituzione, il giudice lo applicava a tutte le persone impiegate nel settore, indipendentemente dalla loro iscrizione ai sindacati stipulanti. Dal momento in cui il contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiori perde il valore di parametro cui fare riferimento per applicare il principio costituzionale della “giusta retribuzione”, quel regime di abstention of law non può più funzionare. Per altro verso, come si è  visto, il ruolo di autorità salariale, non più svolto dalle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiori, non può essere assunto dai giudici del lavoro perché essi sono molte centinaia e ciascuno di loro può applicare i criteri indicati dalla Corte di Cassazione a modo proprio, oltretutto anche con effetti retroattivi.

Nell’ottobre scorso il CNEL ha supportato la scelta astensionista del Governo con un documento nel quale ha indicato come preferibile il mantenimento del sistema tradizionale fondato sul riferimento agli standard fissati dalla contrattazione collettiva, puntando semmai a rafforzare quest’ultima. Ma nel momento in cui la giurisprudenza della Cassazione, imprimendo una svolta al cosiddetto “diritto vivente”, depotenzia drasticamente la tradizionale presunzione di adeguatezza degli standard retributivi fissati dalla contrattazione collettiva, il Governo non può chiudere gli occhi sulla situazione di grave incertezza che viene a determinarsi circa lo standard applicabile e dall’adottare l’iniziativa legislativa necessaria per porvi rimedio.

Certo, un intervento legislativo su questa materia presuppone che in qualche modo si risolva il problema della rilevantissima differenza del costo della vita tra le diverse realtà del Paese. Si può pensare, per esempio, alla fissazione di un salario minimo orario nazionale che in ciascuna regione o provincia possa essere corretto mediante un’addizionale in relazione all’indice Istat del costo della vita. Ma a questo punto è comunque necessario che il legislatore intervenga su questa materia, perché solo un parametro minimo fissato dalla legge consentirà ai soggetti della contrattazione collettiva di riposizionarsi recuperando il ruolo di “autorità salariale”, che dovrebbe appartenere loro ma che rischia di andare perduto.

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