PROFESSIONE FORENSE: RITORNO AL PASSATO

NEL MIO INTERVENTO IN AULA NELLA DISCUSSIONE SUL DDL PER LA RIFORMA DELLA DISCIPLINA DELL’ATTIVITA’ DEGLI AVVOCATI, SOTTOLINEO LA NECESSITA’ CHE IL CETO FORENSE SI LIBERI DI TRE IMMAGINI CHE NE PREGIUDICANO IL PRESTIGIO: QUELLA DELL’AZZECCAGARBUGLI, QUELLA DEL PROFESSIONISTA RAPACE E QUELLA DELLA CASTA CHIUSA

Testo tratto dal resoconto stenografico della seduta antimeridiana del Senato del 15 aprile 2010 – Sullo stesso tema v.  anche l’editoriale di Alessandro De Nicola sul Sole24 Ore del 17 aprile

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Ichino. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD) – Signora Presidente, colleghi, non ho partecipato all’elaborazione del testo di questo disegno di legge, né al lavoro del Comitato ristretto; quindi, intervengo su questa materia dall’esterno rispetto al lavoro parlamentare già svolto; ma intervengo “dall’interno” rispetto al ceto forense, cui appartengo ormai da oltre 30 anni. E lo faccio per manifestare la preoccupazione principale, per quel che mi riguarda: la preoccupazione per il prestigio di questo ceto, di questa professione. Un prestigio che io vedo insidiato pesantemente, anzi – direi di più – compromesso ormai da molto tempo da alcune figure, se vogliamo stereotipi, che purtroppo corrispondono a una parte non irrilevante della realtà di questa professione e che certamente non giovano, anzi pregiudicano gravemente la sua credibilità.
Vi è innanzitutto lo stereotipo dell’azzeccagarbugli, dell’avvocato causidico che si esprime con formule verbose, abile nel produrre ipertrofie testuali e normative; poi c’è la figura del professionista rapace, del rapporto professionale come trappola economica pericolosa per il cittadino e per l’utente. Questa è un’immagine dell’avvocato molto presente nella visione del cittadino comune, dell’uomo della strada; dobbiamo starci molto attenti e predisporre misure che tolgano spazio a questa figura. Dobbiamo considerare attentamente, infine, l’immagine del ceto forense come casta, come gruppo chiuso, privilegiato, gerontocratico e impermeabile al nuovo, inaccessibile alle nuove generazioni.
Mi chiedo e vi chiedo: questo disegno di legge, di cui tutti sanno che è espressione del ceto forense, che è stato scritto da avvocati, quale immagine dà degli avvocati stessi e della loro professione? Quale immagine dà in rapporto a quei tre stereotipi che nuocciono gravemente al prestigio della professione? La mia impressione è che questo disegno di legge nuoccia gravemente sotto tutti e tre i profili, dal punto di vista di tutti e tre quegli stereotipi.
Cominciamo dalla verbosità e dall’ipertrofia normativa. Se c’è un compito che dovrebbe caratterizzare il buon giurista, quel compito dal «Corpus iuris» di Giustiniano in poi dovrebbe essere quello di rendere il più possibile chiaro e leggibile il diritto, la formulazione della norma, di sfrondare la legge di tutto ciò che è superfluo e che, in quanto tale, genera incertezza ed è «sabbia negli ingranaggi». Questo significa, innanzitutto, che nella legge non si deve dare alcuno spazio a espressioni retoriche e prive di contenuto pratico. Questo ci insegnano i maestri del diritto. Allora, io chiedo ai colleghi senatori, ma anche ai colleghi avvocati che hanno contribuito a stendere questo testo: che significa dire – come leggiamo all’articolo 1 – che l’ordinamento forense «valorizza la rilevanza sociale ed economica della professione forense al fine di garantire in ogni sede, in attuazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione, la tutela dei diritti, delle libertà e della dignità delle persone»? Questa è una frase che, nel caso migliore, è priva di senso e, nel caso peggiore, dice invece qualcosa di profondamente sbagliato e cioè che l’ordinamento e il suo organo, che è l’Ordine degli avvocati, è lì per promuovere gli interessi economici della professione. Ma questo è compito di un sindacato o di un’associazione professionale; e da 60 anni a questa parte di sindacati unici imposti dalla legge in Italia non dovrebbero più essercene. Dal 1943 l’ordinamento corporativo è stato abolito e la Costituzione non consente allo Stato di imporre a un intero ceto professionale un’associazione per la promozione degli interessi economici di una categoria.
Guardiamo anche ad altre norme, come, ad esempio, l’articolo 5, sul segreto professionale. Colleghi, c’è una norma chiarissima, distillato di secoli di cultura giuridica penale e civile, l’articolo 622 del codice penale, che definisce tutti gli aspetti del segreto professionale: il campo di applicazione soggettivo; le persone che vi sono soggette, tra cui, ovviamente, per primi, gli avvocati; l’ambito oggettivo delle norme protette dal segreto professionale, che non sono tutte le informazioni che possono essere conosciute in occasione di un rapporto professionale, ma quelle su cui c’è un interesse meritevole di tutela al riserbo, alla non diffusione; la giusta causa di rivelazione, che è il cuore della norma, ovvero il principio del necessario contemperamento bilanciamento fra interesse generale alla conoscibilità  delle informazioni e interesse del singolo soggetto al segreto. L’articolo 5 interviene su questa materia, in modo grossolano, creando dei pasticci normativi che non ho qui il tempo di illustrare – ne discuteremo quando lo esamineremo – ma che sono, vi assicuro, inestricabili. Innanzitutto – mi chiedo – che bisogno c’è di aggiungere cinque commi su questa materia, dal momento che l’articolo 622 del codice penale la disciplina già perfettamente? Viceversa, non rischiamo, sovrapponendovi una norma scritta oltretutto malissimo, che non fa onore alla competenza giuridica degli avvocati, di far sorgere gravi problemi di interpretazione? Anche in questo caso si sovrabbonda di espressioni vacue, retoriche e inutili, come quella che vincola l’avvocato a una osservanza «rigorosa» del segreto professionale. L’obbligo giuridico, o si adempie o non si adempie. È ovvio che l’adempimento debba sempre essere rigoroso. C’è un caso analogo di verbosità inutile e retorica anche nell’articolo 7 dove, nella formula del giuramento, si dice: «mi impegno solennemente ad osservare con lealtà…». Perché se invece fosse un impegno non solenne, l’impegno varrebbe di meno, avrebbe un minore contenuto giuridico? Questo è fumo negli occhi. Questo è un modo di parlare da azzeccagarbugli, non da giurista. Il giurista è chiaro, semplice. Il suo linguaggio è «sì, sì; no, no»; il «rigorosamente» e «solennemente» non sono termini che appartengono al suo lessico tecnico.
Poi, sempre per rimanere sul tema specifico dell’obbligo di segreto, l’avvocato e i suoi collaboratori, dice il quarto comma dell’articolo 5, «non possono essere obbligati a deporre nei giudizi di qualunque specie – questa idea della “specie” dei giudizi è nuova – su ciò di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio della professione». Ma nell’esercizio della professione si può anche venire a conoscenza del fatto che un gatto attraversa la strada o di altre notizie del tutto irrilevanti dal punto di vista dell’interesse al segreto. L’articolo 622 del codice penale definisce con una tecnica normativa adeguata le notizie su cui l’avvocato può e deve rifiutare di deporre, ed è perciò esentato dall’obbligo di rendere testimonianza in giudizio, dalle altre, sulle quali questa esenzione non si dà. La disposizione così come è formulata, autorizza l’avvocato a rifiutare di deporre su qualsiasi notizia, allargando a dismisura un’esenzione che non c’è alcun motivo di allargare, se non quello di allentare i doveri civili dell’avvocato rispetto a quelli degli altri cittadini, di creare un privilegio processuale al di là di ciò che è ragionevolmente proponibile.
Veniamo al problema – forse il più rilevante dal punto di vista della tutela del prestigio della professione – di cancellare l’immagine del professionista rapace, del rapporto professionale come trappola economica pericolosa per il cittadino. Oggi la situazione è questa: il cittadino che si rivolge all’avvocato entra in un sistema di rapporti economico-professionali che per il cittadino stesso presenta un aspetto indebito di pericolosità. Infatti, in caso di contrasto di interessi o di controversia su quanto sia dovuto all’avvocato come compenso per la sua opera, a giudicare di quel conflitto, di quella controversia sono, attraverso il loro Ordine, gli avvocati stessi, vale a dire una delle parti in causa. Questo è il dato attuale e questo è il dato da correggere, non da confermare o addirittura da consolidare, come viene confermato e consolidato nel disegno di legge al nostro esame.
Occorre dar vita a un Ordine degli avvocati che sia posto prioritariamente non a tutela e promozione degli interessi economici della categoria – questa non può, non deve essere la funzione dell’Ordine professionale – ma a tutela e promozione dell’affidamento della collettività sulla qualità e correttezza della prestazione forense. Questa è la sua funzione: quella che, sia detto per inciso, occorre mettere al primo posto nell’articolo 1, e non al quarto posto, lettera d), dove attualmente è collocata. Se questa è la funzione dell’Ordine, ed è giusto che sia così, allora l’organo che decide sull’eventuale conflitto tra l’avvocato e il suo cliente non può essere un organo composto soltanto da avvocati. È evidente che deve essere un organismo quantomeno composto pariteticamente da avvocati, magistrati e rappresentanti delle associazioni degli utenti, dei consumatori, dei cittadini. Questo è il minimo che come avvocati dobbiamo chiedere all’ordinamento, e oggi al Parlamento. Perché qui sto parlando da avvocato, prima che da senatore. Dobbiamo chiedere ed esigere questo per recuperare prestigio, per spogliarci di quella brutta maschera, costruitasi nel tempo, di professionisti preoccupati di tutelare il proprio interesse prima che l’interesse economico del cliente. Se vogliamo liberarci di questa immagine ingiusta, che non corrisponde al modo di essere reale della stragrande maggioranza degli avvocati, dobbiamo dotarci di organismi preposti a dirimere le controversie strutturati in modo da rispettare il principio di terzietà tra avvocato e cliente.
La terza immagine negativa che grava sul nostro prestigio e della quale dobbiamo liberarci è quella del ceto forense come casta privilegiata, come categoria chiusa, gerontocratica. Onorevoli colleghi, in questo caso i problemi non sono pochi: sono molto numerosi. C’è innanzi tutto il problema di distinguere ciò che è riservato alla categoria degli avvocati e ciò che non è vietato fare a chi non è iscritto all’albo. È evidente – anche se magari opinabile nei dettagli – il motivo per cui l’assistenza in giudizio, con tutto ciò che comporta (accesso alle cancellerie, ai fascicoli giudiziali), deve essere riservata, a soggetti preventivamente selezionati per la loro capacità professionale e sottoposti a un vincolo deontologico, di trasparenza, di correttezza e ad un controllo permanente; nulla quaestio su questo punto. Ma mi spiegate un solo motivo per cui la consulenza stragiudiziale, l’assistenza giuridica che non comporta accesso alle aule giudiziarie, questa attività debba essere riservata soltanto a chi è iscritto all’albo degli avvocati? Mi dite un solo motivo per cui il quivis de populo non possa esprimere un proprio parere su una qualsiasi questione giuridica e non possa farlo anche se è esperto in quel settore non perché avvocato, ma perché se ne è occupato comunque in modo continuativo e professionale?
Se mi rispondete che bisogna che il cittadino possa fare affidamento sulla competenza del consulente, sulla competenza giuridica, vi dico che allora l’intero assetto della disciplina va completamente riscritto, perché oggi noi abilitiamo a dare pareri su dieci materie giuridiche diverse avvocati che sono competenti soltanto su una undicesima materia e sanno poco o niente di quelle altre dieci. Lo dico in riferimento a me per primo. Se mi chiedessero un parere in materia penalistica, tributaria o di diritto canonico, e se avessi l’ardire di accettare l’incarico e di fornire quel parere, commetterei un atto scorretto e irresponsabile; ma sarei «abilitato» a farlo dall’essere iscritto all’albo. Su questo terreno, quello dell’assistenza e consulenza stragiudiziale, lasciamo che siano i cittadini liberamente a scegliere di chi fidarsi; e anche a chi vuole svolgere questa attività in modo professionale lasciamo che la possa svolgere: saranno i risultati di questa attività a dire se il suo consiglio è affidabile o non lo è.
Questo è ciò che accade, in linea generale, in tutti i campi del sapere umano; e deve poter avvenire anche sul terreno del sapere giuridico. Ciò è tanto vero, che questo stesso disegno di legge consente di svolgere professionalmente questo mestiere, cioè dare pareri giuridici, nella forma del rapporto di lavoro subordinato. Il «giurista d’impresa» è pacificamente ammesso a svolgere questa attività per il proprio datore di lavoro. Se questo è consentito nella forma del lavoro subordinato anche al non iscritto all’albo, perché mai non dovrebbe essere consentito di farlo in forma, che so, di consulenza coordinata e continuativa, piuttosto che libero-professionale? Abbiamo una grande ricchezza di dirigenti esperti in materia di diritto industriale, diritto dei brevetti, di diritto commerciale, di diritto internazionale, che hanno passato una vita a studiare e applicare questi rami dell’ordinamento giuridico, arrivando a saperne, spesso, molto di più degli avvocati. Perché mai dovremmo inibire la valorizzazione di questa ricchezza? Perché mai non deve essere loro consentito di smettere di farlo in forma di dipendenti e cominciare a farlo aprendo uno studio di consulenza in materia di diritto internazionale, piuttosto che industriale o dei brevetti? Non c’è un solo motivo al mondo perché questo venga vietato, tranne un malinteso interesse economico della categoria degli avvocati.
Tra le altre chiusure contenute in questo provvedimento vi è l’aggiunta di cavalli di Frisia contro l’accesso dei giovani. Addirittura è previsto l’esame di accesso al tirocinio. Vi è un incremento degli ostacoli che fa dell’accesso alla professione una gimcana difficile e costosa anche sul piano burocratico; ostacoli formali prima ancora che sostanziali. Anche questo è profondamente sbagliato. Vogliamo rendere più selettivo l’esame di accesso slls professione, cioè l’esame di Stato per l’iscrizione all’albo? Facciamolo, stabilendo criteri più esigenti. Ma concentriamoci su quel passaggio, evitando di porre un insieme di ostacoli intesi soltanto a rendere più difficile ai nostri figli di fare ciò che noi abbiamo potuto fare accedendo alla professione in modo molto più facile.
In conclusione, chiedo che questo impianto venga profondamente riveduto non tanto e soltanto – seppure dovrebbe essere la nostra preoccupazione prevalente – nell’interesse della collettività, di una società aperta, ma anche e prima ancora nell’interesse dello stesso ceto degli avvocati: di quelli di oggi e di quelli che verranno. (Applausi dal Gruppo PD).

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