DISOCCUPAZIONE, RIVOLTE E IMMIGRAZIONE

LA DEBOLEZZA DEGLI STATI NORDAFRICANI A STRUTTURA MILITARE-CLANISTICA, FONDATI SULLA REPRESSIONE, EMERGE IN QUESTO TEMPO DI CRISI ECONOMICA MONDIALE: LA REPRESSIONE HA COSTI ALTISSIMI, ORA NON PIU’ SOSTENIBILI – AUMENTERANNO LE ONDATE MIGRATORIE VERSO UN’EUROPA INCAPACE DI INTEGRARE LA NUOVA MANODOPERA, GIOVANISSIMA, CULTURALMENTE QUALIFICATA, NAZIONALISTA

Articolo di Giulio Sapelli pubblicato sul Corriere della Sera del 19 febbraio 2011

Sono convinto da molto tempo che i moti tunisini, egiziani, giordani, libici, siano l’avvisaglia di profonde scosse sociali che attraverseranno l’Europa, a partire dal Sud del nostro continente. Sull’altra sponda del Mediterraneo, un lungo ciclo viene a compimento. È un ciclo politico-economico e di riproduzione delle forze costitutive di Stati che non sono ciò che appaiono a prima vista: ossia Stati forti. Questi Stati, invece — e mi riferisco ad Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Siria, Irak e agli Emirati del Golfo (il Libano è un caso a sé) —, sono molto deboli: incapaci di reggersi sul consenso, debbono riprodursi solo grazie alla repressione. Ma la repressione si esercita pagando un caro prezzo ed essi non sono più in grado di sostenere i costi altissimi che il terrore porta con sé. Di qui la loro intrinseca debolezza che, non a caso, appare evidente proprio ora, in tempo di crisi economica mondiale. È una crisi ancora attiva e operante nonostante le timide altalenanti riprese a singhiozzo. È questa la verità che i generosi, intensi e differenti uno dall’altro, moti giovanili che trascinano con sé tutta la società civile hanno reso e renderanno manifesto.

 L’Egitto ne è la prova lampante, con la Tunisia e la Giordania: il monopolio della forza non può riprodursi sino a impedire l’emergere del conflitto e il ristabilimento di un nuovo ordine. Ma di questo nuovo ordine i militari, non a caso, saranno ancora l’asse portante. Perché? Perché essi costituiscono la spina dorsale di questi Stati altrimenti invertebrati, ectoplasmatici, fondati sulla spartizione del sovrappiù economico prodotto per via delle rendite naturali (ecco il petrolio, per esempio) da parte di clan, di famiglie allargate. I militari danno a questa radice storico-tribale la possibilità di intercettare la storia globale che corre attorno a loro, sospinta dall’Occidente. Infatti consentono a strutture antichissime di accedere alla modernità di patrimoni tecnologici altrimenti irraggiungibili. Inoltre sono l’unica forma di vera e propria mobilità sociale verso l’alto delle masse, una volta integrate nelle truppe. Ma ne costituiscono, nel contempo, il fattore di dominazione e di repressione. E anche questo emerge con chiarezza.

 Ancora: tutti questi Stati sono oggi classificabili secondo il più o meno accentuato grado di occidentalizzazione delle loro élite militari. E il discrimine non è più, adesso, la fedeltà o l’infedeltà a Mosca, ma l’alleanza militare o l’appoggio operativo a Israele. Risultato in gran parte raggiunto, se non fosse per il pericolo sciita che l’Iran diffonde controllando il Libano e assicurandosi la neutralità operosa della Siria rispetto al dominio che la Persia esercita sul «Paese dei cedri».

Vi è tuttavia un’altra caratteristica recentemente sotto gli occhi di tutti e fondamentale di questi Stati militari-clanistici a forte influenza islamici: hanno favorito coscientemente la diffusione dell’istruzione superiore a livello di massa per disperdere le tensioni sociali che possono prodursi per via della disoccupazione a fronte dell’esplosione demografica ininterrotta. Essa dilaga continuamente nell’intero Mediterraneo del Sud ed è alla radice di ogni rivolta recente e di quelle future. Questo serbatoio di ribellione, pericoloso per la stabilità sociale degli stati militar-clanistici, è altrettanto pericoloso per l’Europa intera. Per due motivi: l’ondata migratoria che aumenterà sempre più per via della debolezza repressiva di lungo periodo di codesti Stati; l’incapacità dell’Europa di oggi di continuare ad assorbire immigrazione in presenza di una crisi economica non ancora superata e che si supererà, in ogni caso, aumentando la produttività, contenendo la produzione e quindi dando vita a una disoccupazione strutturale cronica. Immaginiamo cosa potrà accadere, quindi, con l’arrivo in Europa, e in primis nell’Europa del Sud, di mano d’opera potenziale assai diversa da quella che era disponibile sino alla metà degli anni Settanta. Quella odierna è qualificata, culturalmente non deferente, giovanissima, fiera del proprio nazionalismo. Però neppure nelle terre europee troverà lavoro: lo choc distruttivo che ciò provocherà sarà fortissimo, come già dimostrano le rivolte francesi che infiammano le notti delle periferie.

È in questa luce che occorre affrontare e comprendere il rifiuto del cosiddetto multiculturalismo ora dilagante in Europa. Ha iniziato Cameron nel Regno Unito, ha proseguito in Germania la Merkel, con la gioia di Sarkozy che mai ha creduto da buon francese post-illuminista che si potesse permettere la creazione di nuclei autoriferiti, chiusi, di popolazione, sul sacro suolo repubblicano. Per coloro che sono contrari a ogni ipotesi di convivenza multiculturale distinta di più appartenenze nazionali sotto il tetto di uno stesso Stato, la sola cittadinanza attiva e operante permessa è quella che si costituisce aderendo all’ethos dello Stato di accoglienza. Ma aderire all’ethos nazionale dello Stato in cui l’immigrato s’insedia è possibile solo con un radicamento occupazionale e con un’integrazione culturale attivamente ricercata. Già oggi non siamo di fronte né all’una né all’altra. Immaginiamoci, quindi, cosa potrà succedere in futuro con altre ondate immigratorie.

 

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