INTERVISTA SUL LAVORO NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

Mentre in molti altri Paesi il risultato di una vera contendibilità del posto vacante è prodotto dagli incentivi giusti, senza bisogno di vincoli formali, da noi vincoli procedurali rigidi senza gli incentivi giusti vengono sistematicamente aggirati, producendo il risultato di una non contendibilità reale dei posti messi a concorso

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Intervista/discussione a cura di Francesca Di Gioia pubblicata sul
Bollettino Adapt l’11 marzo 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dal mio libro I nullafacenti. Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica  – Su questo sito sono disponibili anche le cinque interviste precedenti della stessa serie, rispettivamente sul tema del del rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro, dell’autonomia negoziale individuale, del mercato del tempo di lavoro, della partecipazione dei lavoratori nell’azienda e della malattia e assenteismo nel rapporto di lavoro

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La riflessione sviluppata nel tuo libro (I nullafacenti.Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica, Mondadori, 2006), sottolineava l’esigenza di recupero di efficienza delle pubbliche amministrazioni, cui il legislatore avrebbe cercato di dare risposta qualche anno dopo, a partire dalla c.d. riforma Brunetta (decreto legislativo n. 150/2009, emanato in attuazione della legge-delega n. 15/2009), finalizzata all’introduzione, tra l’altro, di nuove regole in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance. Da studioso e protagonista del dibattito pubblico di quel tempo, per essere stato tra i primi a denunciare le inefficienze del sistema, oltre che da osservatore privilegiato delle vicende politiche di allora, avendo ricoperto la carica di componente della Commissione Lavoro del Senato durante la XVI e la XVII legislatura, quali ritieni siano stati, in un bilancio complessivo dell’intervento, il principale merito e il maggior limite di quella riforma?
La legge-delega n. 15 del 1969 nacque da un confronto serrato tra maggioranza e opposizione sui rispettivi disegni di legge: quello del Governo n. 847/2008, a prima firma del ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, che aveva fatto seguito a quello del Partito Democratico n. 746/2008, a prima firma Ichino-Treu-Finocchiaro, presentato poco dopo l’inizio della legislatura. Al d.d.l. n. 746 avevo lavorato da tempo, con l’aiuto di Bernardo Mattarella, di Andrea Tardiola e di Pietro Micheli che all’epoca insegnava all’università di Warwick. Il ministro aveva manifestato una ampia disponibilità al dialogo con l’opposizione sui punti essenziali della riforma, col risultato che numerosi contenuti qualificanti della nostra proposta vennero accolti nel disegno di legge: in particolare il principio della full disclosure, ovvero della trasparenza totale, il principio della responsabilizzazione dei dirigenti in relazione agli obiettivi prefissati, anche mediante una parte della retribuzione di entità rilevante destinata a variare in relazione al raggiungimento degli obiettivi stessi; e l’istituzione di un’autorità indipendente per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni, che avrebbe preso il nome di Civit. I risultati a dir poco deludenti di quella riforma vanno imputati principalmente al modo in cui è stata attuata.

Il ministro della Funzione Pubblica dell’ultimo Governo Berlusconi Renato Brunetta

A che cosa ti riferisci?
Al fatto che già nell’estate del 2010 il ministro dell’Economia Tremonti, in urto esplicito col collega Brunetta, cancellò lo stanziamento previsto per i premi ai dipendenti pubblici più efficienti; e nel febbraio 2011 lo stesso Brunetta fece un accordo con i sindacati per cancellare la possibile penalizzazione retributiva dei dipendenti più inefficienti. Col risultato di azzerare una parte essenziale della riforma. Ma, fin dall’inizio, nella neo-costituita autorità indipendente erano stati piazzati quasi esclusivamente dei giuristi e non degli esperti di gestione, organizzazione e valutazione, come sarebbe stato necessario. L’unico esperto di queste materie, il professor Pietro Micheli, “importato” dalla Gran Bretagna su designazione del Pd, venne subito isolato e messo in condizione di… non nuocere. A capo della commissione venne nominato Antonio Martone, un magistrato che era troppo profondamente legato al vecchio establishment amministrativo per poter promuovere e guidare un’azione incisiva di riforma dello stesso. Fin dal primo anno, poi, lo stesso Presidente dimostrò nei fatti la sua non indipendenza dal Governo e la sua non disponibilità ad attuare i principi di valutazione e di trasparenza all’interno stesso della sua struttura. Al punto che già dopo un anno Pietro Micheli ritenne doveroso dimettersi, denunciando il malfunzionamento disastroso della Civit.

Dopo il tentativo del centrodestra del 2009-2011, ci ha provato il centrosinistra nel 2014-16 con il Jobs Act. Come giudichi quella stagione e quel tentativo?
Anche l’esperienza del Governo Renzi nella XVII legislatura, come quella del Governo Berlusconi nella XVI, è emblematica della difficoltà politico-istituzionale di una riforma incisiva del lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Il 24 dicembre 2014 il Governo aveva approvato il testo di quello che sarebbe divenuto il decreto attuativo del Jobs Act sulla disciplina dei licenziamenti (quello che poi si sarebbe chiamato d. lgs. n. 23 del 2015), deliberatamente sopprimendo il comma che era stato inserito nel draft elaborato dagli uffici per escludere il settore pubblico dal campo di applicazione della nuova disciplina. La scelta del Governo fu dunque inizialmente nel senso di confermare la scelta compiuta quindici anni prima con la riforma Cassese (d.lgs. n. 165/2001), che aveva disposto la (quasi) piena applicazione della disciplina del lavoro privato anche al lavoro pubblico. Senonché la reazione degli apparati amministrativi fu così forte – nonostante che la nuova norma fosse destinata ad applicarsi soltanto ai nuovi assunti – che già pochi giorni dopo i ministri del Lavoro e della Funzione Pubblica si affrettarono a rinnegare la scelta compiuta, sostenendo che la nuova norma non potesse applicarsi nel settore pubblico. Poi, messi di fronte all’insostenibilità di questa tesi, si adoperarono per ribaltare la norma: già in sede di attuazione della legge-delega n. 124 del 2015 sull’impiego pubblico venne varato un emendamento del Testo Unico che ripristinava per tutto il settore pubblico l’applicabilità dell’articolo 18 St. lav. nella sua vecchia formulazione, con la sola introduzione del limite di 24 mensilità di retribuzione per il risarcimento del danno. Si è scelto, in sostanza, di ribadire per il settore pubblico il regime tradizionale di job property, proprio mentre si avviava il superamento di questo regime per il settore privato. E si è abbandonata clamorosamente la scelta compiuta con la riforma Cassese.

Il ministro della Funzione pubblica del Governo Renzi Marianna Madia

Poi, però c’è stata la riforma della dirigenza pubblica varata dalla ministra Marianna Madia.
Su questo punto le cose sono andate in modo diverso, ma ancora una volta con esito negativo dal punto di vista dell’innovazione perseguita. L’art. 11 della legge-delega (n. 124/2015) prevedeva – molto opportunamente – la durata massima quadriennale di ogni incarico dirigenziale nel settore pubblico. Su questa materia la reazione dell’apparato contro l’innovazione è stata meno aperta, tutta per linee interne; ma è stata altrettanto efficace, culminando nella sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016. La quale, su ricorso della Regione Veneto, ha abrogato la norma non perché in sé incostituzionale, ma perché formulata in modo da investire anche le amministrazioni regionali, senza previa intesta Stato-Regioni. La Corte avrebbe ben potuto limitarsi a sancire l’inapplicabilità della norma in riferimento alle amministrazioni regionali; invece ha abrogato drasticamente una norma che avrebbe potuto svolgere un ruolo importantissimo per la responsabilizzazione della dirigenza pubblica, almeno nelle amministrazioni statali. Così, come sul versante degli impiegati, anche su quello dei dirigenti ha prevalso la conservazione del regime di inamovibilità.

Qualcun commentò questo esito favorevolmente, ritenendo che in questo modo fosse venisse tutelata meglio la dignità della funzione pubblica e la sua imparzialità.

Ma la dignità del lavoratore non dipende certo dall’inamovibilità: al contrario, proprio l’inamovibilità, con la conseguente non contendibilità della funzione, può talvolta diventare un fattore di deterioramento del prestigio della funzione, nella misura in cui si trasforma in irresponsabilità.

Nel 2006 avevi individuato nell’irresponsabilità e inerzia della dirigenza una delle cause dello stato di inefficienza delle pubbliche amministrazioni. Sostenevi che, invece, occorreva responsabilizzare i dirigenti ancorando parte della loro retribuzione ai risultati ottenuti dalle strutture a essi affidate. A questo proposito, ferma la previsione dell’art. 21 del decreto legislativo n. 165/2001, cui rimandavi già nella tua riflessione, le riforme succedutesi nel tempo, hanno previsto, tra l’altro, meccanismi di collegamento del trattamento economico accessorio del dirigente – oggi pari almeno al 30% della retribuzione complessiva – alle funzioni a questo attribuite, nonché alle responsabilità e ai risultati conseguiti (art. 24). Può dirsi oggi soddisfatta, a tuo avviso, quell’esigenza di responsabilizzazione della dirigenza cui facevi riferimento?
Di fatto questo incentivo economico non funziona, perché quasi dappertutto si consente ai dirigenti pubblici di stabilire da sé i propri obiettivi, oppure questi vengono stabiliti dal vertice dell’amministrazione in modo da… non creare problemi. Vengono, comunque, quasi sempre stabiliti obiettivi riferiti al volume o alla qualità dell’attività svolta, ma quasi mai alla sua efficacia, cioè ai risultati conseguiti. Così il vertice stesso dell’amministrazione, al momento del consuntivo, può assegnare a tutti una valutazione d’eccellenza e confermare l’erogazione a tutti del premio intero. Nei rarissimi casi in cui il vertice non si adegua a questo andazzo fioccano i ricorsi giudiziali. Il risultato è che anche in quella gran parte delle amministrazioni pubbliche la cui efficienza lascia molto a desiderare tutti i dirigenti hanno la valutazione di eccellenza e ricevono conseguentemente per intero la parte variabile della retribuzione.

Come dovrebbe funzionare, invece, il meccanismo di valutazione e di incentivazione?
La riforma che avevo immaginato e descritto nel libro del 2006 prevedeva innanzitutto una autoriforma della politica nazionale e locale, centrata sulla responsabilizzazione dei candidati fin dalla campagna elettorale: l’idea era che questi sostituissero le promesse generiche o puramente “qualitative” con programmi espressi soprattutto in termini essenzialmente quantitativi. Per esempio: “se verrò eletto sindaco di Palermo, mi impegno a realizzare entro tre anni un riequilibrio nel bilancio municipale che porti la spesa per investimento almeno al 40 per cento del totale”, o “il tot per cento di raccolta differenziata dei rifiuti”; oppure: “se il nostro partito vince le elezioni, ci impegniamo a realizzare su tutto il territorio nazionale tot posti negli asili-nido ogni 100.000 abitanti”. E così via. Poi, una volta eletti, i politici dovrebbero tradurre questi programmi in obiettivi ben definiti, misurabili, legati a scadenze temporali precise, sui quali impegnare i dirigenti delle amministrazioni; e questi ultimi, a cascata, dovrebbero tradurre gli obiettivi generali in obiettivi specifici per ciascun ufficio o reparto posto alle loro dipendenze. E la parte variabile delle retribuzioni dovrebbe essere collegata strettamente al raggiungimento degli obiettivi così fissati.

Si obietta che è difficile misurare l’efficienza degli impiegati che lavorano agli sportelli di una anagrafe municipale, o della motorizzazione civile.
Ma non impossibile: un criterio di misurazione potrebbe essere costituito, per esempio, dal gradimento per il servizio ricevuto dagli utenti, espresso dagli stessi mediante un “voto” al termine della pratica.

Le “faccine” di cui aveva parlato il ministro Brunetta?
Perché no? A ogni utente dovrebbe essere data la possibilità di esprimere almeno in modo sintetico e rapido la propria valutazione sulla capacità e disponibilità degli addetti per fare il necessario al fine di ridurre le code, di evitare al cittadino di dover tornare un’altra volta, di reperire per linee interne i documenti necessari di cui l’amministrazione già dispone e non imporne la ricerca alla persona interessata, e così via. E se alla valutazione fosse legata anche una parte marginale della retribuzione degli addetti, probabilmente la loro prestazione migliorerebbe notevolmente. Certo, per questo occorrerebbe superare incrostazioni culturali secolari e un’ostilità sindacale molto radicata. Siamo ancora al punto che nella maggior parte delle amministrazioni tutti gli addetti hanno, immancabilmente e invariabilmente, la valutazione massima, e il dirigente che si azzardi a ridurla anche di poco viene messo in croce.

Il professor Sabino Cassese, ministro della Funzione Pubblica del Governo Ciampi

Tu dunque non vedi alcun miglioramento nel funzionamento delle amministrazioni pubbliche, a quasi un quarto di secolo dalla riforma Cassese e quindici dalla riforma Brunetta?
Le generalizzazioni sono sempre sbagliate: in diverse amministrazioni qualche passo avanti importante è stato fatto; e in quasi tutte, comunque, c’è chi sopperisce in qualche modo con il proprio impegno ai difetti generali di organizzazione e/o di risorse materiali. Resta il fatto, però, che il settore pubblico nel suo complesso – se si eccettua il settore sanitario e quello della pubblica sicurezza – si caratterizza rispetto a quello privato innanzitutto per la propria tendenza ad anteporre l’interesse degli addetti a quello degli utenti; inoltre per la propria irresponsabilità riguardo al risultato in termini di soddisfazione degli utenti stessi. Da questo punto di vista è emblematico il modo in cui durante la pandemia del 2020-2021 è stato attuato il lock-down negli uffici pubblici. Mentre i dipendenti privati erano in Cassa integrazione, interi enormi comparti delle amministrazioni statali, regionali e comunali si sono bloccati per molti mesi, senza che il loro personale perdesse un euro di stipendio: si è finto che lavorassero tutti in regime di smart working, nonostante che mancasse del tutto la possibilità di accesso da remoto ai dati delle amministrazioni e addirittura senza che il ministero della Funzione Pubblica si peritasse di valutare quanta parte dei dipendenti fosse dotata di un pc presso la propria abitazione. Poi, mentre le imprese private si arrabattavano per riaprire il prima possibile, per mesi e mesi sui siti e sulle porte degli uffici pubblici ha continuato a campeggiare la scritta “Ufficio chiuso fino a data da stabilirsi”. Lì si è proprio toccato con mano che cosa significa, per una struttura, mettere al primo posto l’interesse dei propri addetti anche al costo di ignorare del tutto quello dei propri utenti.

Al di là dei limiti del sistema di misurazione e valutazione della performance, costruito a partire dal decreto legislativo n. 150/2009, l’attuale stagione del lavoro pubblico sembra caratterizzarsi per una rinnovata attenzione verso il capitale umano, individuato quale leva per il miglioramento della macchina amministrativa. Possiamo sperare che qualche cosa si muova davvero in questa direzione?
La valorizzazione delle risorse umane presuppone che si volti pagina rispetto al regime oggi di fatto vigente in troppe amministrazioni, di appiattimento totale verso il basso, conseguente all’abdicazione della dirigenza alle proprie prerogative manageriali. L’appiattimento fa sì che le amministrazioni pubbliche molto raramente siano attrattive per le persone più preparate e più brillanti.

Perché lo fossero che cosa occorrerebbe?
Per prima cosa incominciare ad attuare in modo molto più rigoroso principi e regole, che sono già diritto vigente, in materia di determinazione di obiettivi misurabili e verificabili, di valutazione e – almeno per i dirigenti – di erogazione del premio correlato al conseguimento degli obiettivi stessi. E occorrerebbe che si incominciasse ad applicare in modo molto più rigoroso il potere disciplinare delle amministrazioni: è molto diffuso il fenomeno del dipendente pubblico che disattende platealmente la disposizione impartitagli da chi ne ha la funzione, qualche volta in modo ostentato, oppure rifiuta un compito ritenuto eccessivo, con la serena certezza che nessuno gliene chiederà conto. Nelle amministrazioni pubbliche si osservano diffusamente comportamenti che in qualsiasi azienda privata porterebbero al licenziamento in tronco del dipendente, e che invece restano impuniti: basti considerare le poche decine di licenziamenti che si registrano ogni anno, su tre milioni di rapporti di lavoro pubblico; oppure accade che i dipendenti decidano unilateralmente i periodi di godimento di ferie o permessi, collocandoli anche in giorni nei quali la loro presenza al lavoro sarebbe indispensabile; o che un intero ufficio o  reparto resti del tutto inattivo per mesi e persino anni, senza che ad alcun dirigente venga imputato il danno erariale conseguente al non aver provveduto alla sua chiusura e al trasferimento degli addetti. L’istituto della mobilità d’ufficio, pur previsto dalla legge, non viene attivato quasi mai. La riattivazione delle prerogative manageriali nella gestione dei rapporti di lavoro è comunque soltanto il presupposto di base; per un recupero dell’attrattività dell’impiego pubblico occorrerebbe poi anche un processo generale di riqualificazione del personale e un contemporaneo ammodernamento dell’attrezzatura.

A questo proposito, il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto il 10 marzo 2021 dal Governo e con Cgil Cisl e Uil, si propone di investire su percorsi di crescita e aggiornamento professionale dei lavoratori (cd. reskilling), nonché sulla valorizzazione delle professionalità esistenti. In questo contesto si colloca anche la rivisitazione dei sistemi di classificazione del personale, prevista nei rinnovi contrattuali per il triennio 2019-2021, volta a offrire ai dipendenti un percorso più agevole e incentivante di sviluppo professionale. Alla luce dello scenario esistente e delle recenti evoluzioni, cosa ritieni si debba fare ancora per valorizzare le risorse umane, anche al fine di rendere la pubblica amministrazione una realtà più attrattiva?
Il programma delineato nel Patto del marzo 2021 attende ancora di essere concretamente attuato. Ma in generale la leva per mettere in moto i processi virtuosi consiste nell’attivazione degli incentivi giusti. Faccio un esempio: fino a oggi in Italia la c.d. “condizionalità” dell’erogazione dei trattamenti di disoccupazione non ha mai funzionato; in altre parole, il vincolo per cui il godimento del sussidio presuppone la disponibilità effettiva per la ricerca della nuova occupazione e per i percorsi di riqualificazione necessari di fatto non viene applicato. Questo accade perché i Centri per l’Impiego non hanno alcun incentivo a faticare per attivare i percorsi di formazione o riqualificazione mirati ai posti scoperti e a far sì che i disoccupati se ne avvalgano, né a denunciare coloro che in realtà non sono disponibili. Ora, immaginiamo che la funzione oggi attribuita ai Centri per l’Impiego venga accorpata con quella di erogazione del sostegno del reddito, di competenza dell’Inps; e che si preveda un congruo premio per i dipendenti di ciascuna unità operativa, in relazione a ciascun percorso di rioccupazione attivato efficacemente: stante la difficoltà che le imprese oggi incontrano a reperire il personale che cercano, questo meccanismo potrebbe consentire a molti disoccupati veri di reinserirsi nel tessuto produttivo, all’Inps di risparmiare sui sussidi erogati e agli addetti a queste unità operative di beneficiare di premi tanto maggiori quanto più efficace è stato il loro lavoro. Finché le due funzioni saranno separate, questo meccanismo virtuoso non si attiverà mai.

Con riferimento alle modalità di accesso al pubblico impiego, nel tuo libro del 2006 e nel tuo intervento al convegno della Fondazione A. J. Zaninoni dello stesso anno (Nullafacenti: luogo comune o grave ingiustizia nella pubblica amministrazione?) sostenevi la necessità di riformare radicalmente il metodo del reclutamento in tutti i comparti che fossero assoggettabili a un controllo di produttività ed efficienza. Le riforme susseguitesi negli anni, pur non eliminando mai di fatto lo strumento del concorso, sono intervenute sui processi di selezione, semplificando le procedure e ridefinendo spesso le competenze richieste agli aspiranti dipendenti pubblici (sempre meno nozionistiche e più improntate alla verifica delle competenze applicative e trasversali). Dopo una lunga stagione di blocco delle assunzioni, oggi lo strumento concorsuale sembra aver trovato rinnovato vigore, complici anche le ingenti risorse messe in campo con il PNRR e i tempi ristretti per l’attuazione dei relativi obiettivi.  Quanto pensi sia rimasto di ancora attuale nella tua riflessione di allora e quali possono essere, a tuo avviso, le prospettive future dell’accesso al pubblico impiego?
Su questo punto propongo un confronto che a me pare molto significativo tra due realtà di cui ho conoscenza diretta: i sistemi di reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari in Italia e in Gran Bretagna. Da noi vigono procedure concorsuali rigidissime, mentre oltremanica i responsabili dei dipartimenti universitari godono di una grande libertà procedurale e sostanziale. Però, di fatto, là per ogni chiamata si svolge un concorso vero, realmente aperto a chiunque abbia le competenze necessarie; senza formalità procedurali, ma con un processo di valutazione molto trasparente e al tempo stesso penetrante ed efficace: perché il dipartimento che bandisce il posto sa che dalla bontà della scelta dipenderanno il suo rating, la sua capacità di attrarre finanziamenti, nonché il numero e la qualità degli studenti che si iscriveranno. Qui da noi, invece, quasi sempre si sa già prima “per chi è stato bandito” il posto o la cattedra; e difatti in gran parte dei casi al concorso partecipa una sola persona; se vi partecipa qualcun altro, si fa tutto il possibile per indurlo a ritirare la domanda, talvolta prospettandogli il bando successivo di un altro posto, in ogni caso facendogli capire che non ha speranze. Questo fa sì che l’Università italiana sia di fatto chiusa: vincono sempre i candidati interni o comunque predeterminati. Ne traggo questa morale: oltremanica gli incentivi giusti, senza bisogno di vincoli formali, producono il risultato di una vera contendibilità del posto vacante; da noi, vincoli procedurali rigidi senza gli incentivi giusti vengono sistematicamente aggirati, producendo il risultato di una non contendibilità reale dei posti messi a concorso.

Questo vale per l’Università; ma per un posto di insegnante, o di impiegato in una qualsiasi amministrazione?
Per la scuola elementare e media vedrei bene un meccanismo generale di abilitazione, che però poi consenta la scelta dell’insegnante tra gli abilitati, da parte di ciascun istituto senza formalità procedurali rigide, nel contesto di un sistema che, per altro verso, consentisse la valutazione oggettiva dei risultati dell’insegnamento impartito dall’istituto, secondo criteri simili a quelli applicati dall’agenzia Ofsted britannica: una combinazione di test a tappeto, valutazione delle famiglie ed esiti scolastici o lavorativi dei diplomati dell’istituto. Però occorrerebbe che, come accade realmente nel Regno Unito, anche da noi l’istituto il cui livello scenda sotto uno standard minimo potesse essere chiuso, con trasferimento di tutti gli insegnanti e il personale amministrativo ad altri istituti di miglior livello. Un discorso in qualche modo analogo potrebbe valere per tutti gli uffici amministrativi.

Nel processo di riforma che immaginavi nel 2006 avrebbe dovuto essere coinvolto anche il sindacato, cui chiedevi di farsi voce della parte migliore del pubblico impiego, senza difendere prioritariamente la parte peggiore. Rispetto a diciassette anni fa, come pensi siano cambiate le politiche rivendicative sindacali?
Nel 2009 i sindacati del settore pubblico adottarono una strategia difensiva assai abile: puntarono sulle debolezze e le contraddizioni interne alla maggioranza di governo – che, beninteso, si sarebbero manifestate in modo molto simile anche se fosse stata una maggioranza di centro-sinistra –, aspettando che esse avessero la meglio sulle velleità di riforma iniziali, per poi dopo un anno, come abbiamo visto all’inizio di questa intervista, aspettare al varco un ministro della Funzione Pubblica azzoppato dallo scontro con il ministro dell’Economia e imporgli l’accordo del febbraio 2011, con cui l’idea stessa della valutazione e degli incentivi economici legati ad essa venne mandata in soffitta. Non ho ragione di ritenere che i sindacati del settore pubblico si comporterebbero oggi in un modo diverso. Un esito migliore potrebbe prodursi non per effetto di un sindacato diverso, ma per effetto di un Governo sorretto da una maggioranza che non soffrisse di quelle contraddizioni interne e dotato di un ministro della Funzione Pubblica con le idee molto chiare e la capacità di attuarle in modo coerente.

Anche alla luce della rilevanza che la contrattazione integrativa assume nella definizione dei trattamenti economici legati alla performance organizzativa e individuale, quale ruolo ritieni debba giocare oggi il sindacato per il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione?
Vagheggio un sindacato che si proponga di rappresentare la parte migliore dei dipendenti di una amministrazione pubblica, facendo loro questo discorso: “Dobbiamo recuperare il nostro prestigio agli occhi della collettività; per questo dobbiamo essere noi a esigere un sistema di valutazione affidabile, basato anche sulla misurazione dei risultati prodotti e sul giudizio degli utenti, in base al quale venga determinata una parte rilevante della nostra retribuzione; dobbiamo rompere il circolo vizioso tra bassa retribuzione e basso rendimento!”. Ma per ora, nel settore pubblico, non vedo traccia di un sindacato di questo genere da nessuna parte.

Nel tuo articolo-provocazione sul lavoratore nullafacente (Il lavoratore nullafacente. Diario minimo del lavoro 4 – Una modesta proposta per ridurre la spesa e combattere il precariato nel settore pubblico), pubblicato sul Corriere della Sera del 24 agosto 2006 fotografavi lo stato delle pubbliche amministrazioni, distinguendo i dipendenti al loro interno in tre sottocategorie: la maggioranza che lavora con dedizione, supplendo ove necessario alle carenze sistemiche; la parte che si impegna nei limiti dell’indispensabile e la minoranza dei lavoratori nullafacenti. Le testimonianze raccolte allora confermavano la tua ricostruzione. Quali sarebbero, a tuo avviso, i risultati di un simile operazione, se fosse riprodotta oggi?
Per ogni amministrazione occorrerebbe fare un discorso a sé. Nella scuola e nell’università mi sembra che la situazione corrisponda bene a quella tripartizione. Lo stesso può dirsi di alcune altre amministrazioni, ma non di altre: alcune aziende sanitarie locali funzionano in modo eccellente nonostante la scarsezza delle risorse; nel settore parastatale ci sono alcune strutture, come quelle dell’Inps e dell’Inail, delle quali va apprezzata l’efficienza complessiva, e un buon livello di organizzazione interna. Poi c’è l’inefficienza strutturale causata dall’affollamento degli organici al sud e dalla carenza al nord, in conseguenza dell’impossibilità di modulare le retribuzioni tenendo conto delle differenze di costo della vita. Ma, soprattutto, nel settore pubblico ci sono anche intere strutture che non servono a nulla, che dovrebbero essere semplicemente chiuse, con trasferimento e addestramento del personale per fare qualche cosa di utile. A questo proposito, ci terrei a concludere questa intervista con una precisazione lessicale.

Ti è concesso.
Nel mio libro del 2006 e in tutti i miei scritti successivi su questo argomento ho sempre usato il termine “nullafacenti” e non il termine “fannulloni” per un motivo preciso. L’essere del tutto improduttivi può derivare da carenza totale di impegno personale, di diligenza: in questo caso può essere appropriato l’uso del termine “fannulloni”, con la sua forte connotazione negativa sul piano etico; ma può derivare anche da carenza totale di organizzazione e di attrezzatura adeguata: in questo caso il termine “nullafacenti” è più appropriato, dal momento che si può essere costretti al “non fare” perché inseriti in un’organizzazione del tutto inefficiente e/o carente degli strumenti necessari. In questo secondo caso, la sola colpa dei nullafacenti è di prestare acquiescenza al difetto grave dell’amministrazione invece di denunciare lo scandalo con tutte le proprie forze.

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