PERCHÉ DOVREBBE ESSERE IL CENTROSINISTRA A VOLERE E PROPORRE IL VINCOLO DEL PAREGGIO DI BILANCIO

LA MODIFICA COSTITUZIONALE È INDISPENSABILE PER PROTEGGERE UNA MINORANZA SENZA DIRITTO DI VOTO (QUELLA DEI NOSTRI FIGLI E NIPOTI) CONTRO L’EGOISMO DELLA MAGGIORANZA AL POTERE; E PER PROTEGGERE IL SISTEMA CONTRO IL RISCHIO DI INSTABILITÀ, AGGRAVATO DALLA GLOBALIZZAZIONE

Editoriale di Nicola Rossi e Pietro Ichino per la Newsletter n. 164, dell’8 agosto 2011

     Perché inserire il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico nella Costituzione? Innanzitutto per una ragione di equità: per proteggere una minoranza priva del diritto di voto, la generazione futura, alla quale altrimenti genitori e nonni possono accollare un debito senza alcun limite. Come è accaduto in Italia nell’ultimo quarto di secolo. Inoltre per rendere credibili gli obiettivi delle nostre politiche di bilancio e così proteggere più efficacemente oggi e domani il Paese contro il rischio dell’instabilità finanziaria, che nell’era della globalizzazione è notevolmente aumentato a causa della maggiore mobilità dei capitali.
     Insomma, per restituire la politica al suo ruolo più autentico: quello di scegliere prendendo su di sé la responsabilità della scelta (e non già quello di accedere a ogni richiesta addossandone il costo a chi verrà dopo).
     A questa proposta la vecchia sinistra oppone la vecchia obiezione keynesiana: il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico strangola l’economia, perché gli attriti nei mercati e in particolare l’anelasticità dei salari nominali possono produrre capacità produttiva inutilizzata e disoccupazione, richiedendo investimenti pubblici (finanziati coll’indebitamento o, indirettamente, coll’inflazione) per aumentare la domanda di beni, servizi e lavoro. Quegli attriti e anelasticità ci sono e possono produrre un malfunzionamento dei mercati; ma la soluzione keynesiana, sia essa tradotta nell’inflazione o in un indebitamento senza controllo, può essere relativamente costosa ed inefficace e può produrre effetti indesiderati, che la globalizzazione contribuisce ad aggravare.
     Un vincolo di pareggio del bilancio pubblico – che tenga conto dell’andamento del ciclo, che sia dotato di margini di flessibilità ragionevoli e chiaramente definiti e che preveda regole di comportamento nel caso di circostanze eccezionali – è il presupposto dell’affidabilità di un sistema economico; è dunque – a ben vedere – il presupposto stesso della possibilità di indebitarsi senza costi eccessivi, se e quando ciò diventasse realmente necessario.
     È il presupposto di una fiducia diffusa, senza la quale il meccanismo della crescita economica e sociale è condannato ad incepparsi. D’altra parte, la vecchia soluzione keynesiana dell’inflazione – una soluzione non per caso negata in radice dallo statuto stesso della Banca Centrale Europea e semplicemente ormai non più disponibile a livello del singolo Stato membro – equivale a un “taglio lineare” cieco e indifferenziato su tutti i redditi da lavoro e pensione, che colpisce invece molto meno i redditi immobiliari, di impresa e di lavoro autonomo: una cura rozza e socialmente iniqua contro l’anelasticità dei salari nominali verso il basso nella congiuntura negativa. Molto meglio l’elasticità prodotta da un allargamento degli spazi dell’autonomia collettiva al livello aziendale, come quello disposto dall’accordo interconfederale del 28 giugno scorso. Un’elasticità, dunque, gestita da un sindacato che sappia essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di valutare le circostanze e il piano industriale proposto dall’imprenditore, quindi di adattare gli standard di trattamento alle esigenze contingenti. E se – come è possibile, ma non inevitabile – questa maggiore fluidità del mercato del lavoro porterà a un aumento della distanza tra i redditi più alti e quelli più bassi, che sia lo strumento fiscale a operare il riequilibrio necessario.

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