PERCHÉ E COME LA MANOVRA SULLE PENSIONI VA APPOGGIATA

SE VOGLIAMO TORNARE A CRESCERE, DEVE CAMBIARE LA NOSTRA CULTURA DEL LAVORO: PRIMA DEI 65 ANNI NESSUNO DEVE PIÙ CONSIDERARSI INCOLLOCABILE, DOBBIAMO RADDOPPIARE IL NOSTRO TASSO DI OCCUPAZIONE NELLE FASCE TRA I 50 E I 65 ANNI E TRA I 18 E I 35; TRA I 35 E I 50 DOBBIAMO AUMENTARE LA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO

 Editoriale per la Newsletter n. 179, 12 dicembre 2011 – Lo stesso articolo è contemporaneamente on line, in una versione ridotta, nella rubrica “Lavorare cambia”, sul sito Tuttosullavoro

Ci sono due motivi per cui un aumento brusco dell’età media di pensionamento degli italiani – per quanto socialmente costoso ‑ è oggi indispensabile. E nessuno dei due motivi attiene a un’esigenza di “fare cassa”, cioè di alleggerire il nostro deficit di bilancio pubblico a breve termine.
            Uno degli ostacoli alla crescita economica dell’Italia sta nel fatto che per mezzo secolo abbiamo continuato a pagare i cinquantenni, con le pensioni di anzianità e i prepensionamenti, affinché uscissero dal tessuto produttivo, cioè smettessero di lavorare. Nel 2010 l’età media del pensionamento nel nostro Paese è stata di 58 anni e 3 mesi (parlo di una media, che implica una metà circa di pensionati in età più bassa), di molto inferiore rispetto agli altri grandi Paesi del centro e nord-Europa. Il risultato è che in Italia il tasso di occupazione nella fascia di età tra i 55 e i 65 anni è di uno su tre, mentre nei Paesi del nord-Europa è di due su tre. Come ho cercato di mostrare nel mio ultimo libro, Inchiesta sul lavoro, abbiamo tardato troppo a correggere questa stortura (e ancor più abbiamo sbagliato nel 2007, tornando indietro rispetto allo “scalone” della riforma Maroni del 2005: chi commise quell’errore non ha alcun titolo per protestare oggi contro la “brutalità” dell’introduzione del nuovo regime). Il risultato è che ora ci tocca farlo molto in fretta. Innanzitutto perché abbiamo un maledetto bisogno di convincere subito la Germania a farsi carico anche della garanzia del nostro debito pubblico; e gli elettori tedeschi – comprensibilmente – non vogliono saperne, finché noi ci concediamo questi lussi pensionistici che loro non si concedono. In secondo luogo perché dobbiamo mostrare agli operatori finanziari di tutto il mondo che l’Italia ha capito di aver commesso per questo aspetto un grave errore, aggiungendo un ostacolo alla propria crescita economica; e che essa è ora determinatissima non solo a recuperare rapidamente il ritardo accumulato, ma anche a cambiare per questo aspetto la propria cultura del lavoro.
            La riforma Dini del 1995 e i suoi aggiustamenti successivi hanno imposto ai nostri figli e nipoti di andare in pensione dopo i 67 anni e con assegni molto inferiori ai nostri. Ora, la gravissima crisi economico-finanziaria impone che anche una parte della mia generazione, quella dei sessantenni, accetti l’applicazione parziale delle regole pensionistiche dettate per i nostri figli e nipoti. Per qualche decina di migliaia di noi questo significherà dover lavorare da uno ai cinque anni più di quanto sarebbe stato prevedibile fino a poche settimane fa. Il problema sociale maggiore riguarda due categorie. Innanzitutto i lavoratori manuali, gli operai, per i quali la pesantezza fisica del lavoro si aggrava con l’età: per questi, che sono circa un quinto del totale, occorre una disciplina speciale della materia. La seconda categoria più duramente colpita da queste misure è quella dei quasi-sessantenni che hanno perso il lavoro di recente e contavano di poter avere l’agognata pensione già l’anno prossimo: per questi può non essere facile ritrovare un lavoro che consenta loro di mantenersi durante questi anni di maggiore attesa.
            Per questa seconda categoria in parte provvedono alcune eccezioni disposte dal decreto-legge. Per coloro che non rientrano in queste eccezioni la soluzione, a mio avviso, deve consistere nell’istituzione transitoria di un trattamento di disoccupazione speciale, con affidamento a società di outplacement (che potrebbero essere pagate con i contributi del Fondo Sociale Europeo) e di un forte incentivo fiscale e/o contributivo per le imprese interessate ad assumerli; con l’onere per la persona interessata di rendersi disponibile per la ricerca di una occupazione ragionevolmente conforme alle sue capacità. Forse per lo Stato il costo sarebbe analogo a quello di un pensionamento anticipato, perché non si riuscirà ad attivare in breve tempo i servizi efficienti di outplacement per tutti; ma questa opzione marcherebbe il mutamento culturale che dobbiamo imporci: prima dei 65 anni, nessuno deve considerarsi a priori “incollocabile”.
            Resta il fatto che, se vogliamo uscire indenni da questa gravissima crisi, dobbiamo anche raddoppiare il nostro tasso di occupazione nella fascia di età tra i 18 e i 30 anni (anche qui: uno su tre in Italia, due su tre nel nord-Europa): per questo l’incentivo fiscale istituito dal decreto-legge è utile, ma ancor più utile sarà il miglioramento del sistema scolastico e di quello della formazione professionale; e l’istituzione di un servizio decente e capillare di orientamento scolastico e professionale.
            Ma soprattutto dobbiamo tutti, anche nella fascia fra i 30 e i 55 anni, lavorare meglio. Questo significa garantire una migliore allocazione delle risorse umane, consentire e stimolare l’aggiornamento professionale, eliminare le piccole e grandi rendite che si annidano nel tessuto produttivo anche a causa della sua vischiosità, imparare a licenziare i manager che falliscono gli obiettivi (senza compensarli per questo con liquidazioni principesche: ottimo il prelievo Irpef al 43 per cento sulle liquidazioni d’oro, previsto nella manovra). Questa è la parte dell’itinerario di riforma che verrà avviata dal Governo Monti nelle prossime settimane, appena sarà stato completato l’iter di questo suo primo decreto-legge.

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