LA MIA REPLICA FINALE SUL DECRETO POLETTI

NEL DECRETO MANCANO MOLTE COSE, MA ESSO AMBISCE A SEGNARE, SUL PIANO DELLA CULTURA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI IL PASSAGGIO DEL NOSTRO ORDINAMENTO DEL LAVORO DAL XX AL XXI SECOLO

Testo della replica del Relatore, conclusiva della discussione generale sul  disegno di legge n. 1464/2014, di conversione in legge del d.-l. n. 34/2014, svolta nella seduta antimeridiana del Senato del 7 maggio 2014 – In argomento v. anche la relazione introduttiva svolta il giorno prima – Inoltre Perché quel “preambolo è importante, editoriale telegrafico del 5 maggio,  e gli emendamenti al decreto-legge n. 34/2014 concordati tra i partiti di maggioranza e presentati venerdì dal Governo in Commissione Lavoro del Senato

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Signor Presidente, Colleghi, diversi tra gli interventi nella discussione generale sul decreto – in particolare quelli di DE PETRIS, BUCCARELLA, BAROZZINO, DE PIN, PUGLIA E PAGLINI – hanno denunciato una pretesa incostituzionalità di questo decreto, per violazione dei principi della Carta in materia di lavoro; nessuno di essi, però, ha indicato quale sarebbe la norma costituzionale violata. Né avrebbero potuto farlo. Perché in realtà la nostra Costituzione non contiene alcuna norma né in materia di stabilità del rapporto di lavoro in generale, né più specificamente in materia di apposizione del termine al rapporto stesso; e neppure in materia di apprendistato. La tesi dell’incostituzionalità non può trovare sostegno neanche nella giurisprudenza della Corte costituzionale, dal momento che questa ha sempre affermato che rientra interamente nella discrezionalità del legislatore ordinario la scelta non solo del quomodo, ma anche del quantum della protezione della stabilità dei posti di lavoro. Quanto alla materia specifica del contratto a termine, ricordo che la sentenza della Corte del 2000 – citata se non ricordo male nell’intervento del senatore PUGLIA – si è limitata a dichiarare costituzionalmente illegittimo un quesito referendario che mirava alla abrogazione integrale della disciplina del contratto a termine. Ma anche in quell’occasione la Corte ha chiarito che rientra, invece, nella discrezionalità del legislatore ordinario anche il quantum e il quomodo della regolazione di questa materia, fermo restando il rispetto di principi e regole sovranazionali.

La collega DE PETRIS ha parlato di intrinseca irragionevolezza della nuova disciplina del contratto a termine. Ora, considerato che – come ho rilevato nella relazione introduttiva – con questa nuova disciplina l’Italia si allinea sostanzialmente, nella materia del contratto a termine, a ordinamenti di Paesi europei civilissimi, quali la Germania, la Svizzera, l’Olanda, la Gran Bretagna, o la Svezia, la tesi della collega De Petris equivarrebbe a sostenere che tutti questi Paesi praticano da decenni su questo terreno scelte legislative irragionevoli. E addirittura che sarebbe irragionevole l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale in quasi cento anni di esistenza non ha ritenuto di individuare alcun requisito universalmente dovuto dagli ordinamenti nazionali in questo campo specifico. E quasi altrettanto irragionevole sarebbe l’Unione Europea, che tollera ordinamenti così liberali su questa materia con la propria direttiva n. 1999/70. Sì, perché – come ieri ha osservato la collega GHEDINI – quella direttiva consente a ciascuno degli Stati membri di scegliere una fra le tre misure di limitazione in materia di contratto a termine: l’obbligo di motivazione, il limite massimo di durata complessiva e il limite massimo di contratti a termine rispetto all’organico aziendale. Di queste misure il decreto in esame ne adotta ben due, pur essendo consentito dall’ordinamento europeo adottarne anche una sola.

Già sento arrivare l’obiezione consueta: “non possiamo paragonarci con Germania, Olanda, Svezia e Gran Bretagna, perché in Italia non si possono fare le cose che si fanno in quei Paesi”. Perché non si possono fare? “Perché nel nostro Paese il mercato del lavoro funziona malissimo”. Nessuno mai, tra chi condivide questa obiezione, che si chieda se per caso non sia che il nostro mercato del lavoro funziona malissimo proprio perché non proviamo a fare come in Germania, in Olanda o in Gran Bretagna. Proprio perché noi avviluppiamo il rapporto di lavoro di una fitta tela di divieti, restrizioni, adempimenti burocratici, complicazioni, controlli e costi impropri, che costituiscono altrettanti ostacoli alla crescita della domanda di lavoro e al suo incontro con l’offerta.

Il presidente del Gruppo Cinque Stelle BUCCARELLA ha poi parlato di “disarmonia” di questa nuova normativa “rispetto all’insieme del corpus normativo”. Se il collega intende, con ciò, dire che questo decreto segna una tappa significativa nell’evoluzione del nostro ordinamento giuslavoristico, non posso che dargli ragione: tornerò su questo punto tra poco. Ma se intende dire che questa nuova normativa si pone in contrasto sistematico con i principi del nostro ordinamento, non riesco proprio a seguirlo. Se si riferisce all’ordinamento civile, gli ricordo che nel nostro diritto civile, dal Codice Napoleone in poi, quello della temporaneità dei vincoli contrattuali tra soggetti privati costituisce principio generale. Se invece si riferisce più specificamente all’ordinamento lavoristico, gli ricordo – ma lo ricordo soprattutto ai troppi entusiasti del ruolo del giudice nelle relazioni industriali – che la Corte costituzionale non perde occasione per affermare il principio della insindacabilità delle scelte di gestione dell’impresa. Se dunque una volta tanto il legislatore sceglie la tecnica di protezione consistente nella fissazione di un “limite esterno” ai poteri dell’imprenditore (quale è il limite di durata massima complessiva del rapporto a termine, oppure il limite di contingentamento rispetto all’organico aziendale), invece che la tecnica consistente nell’assoggettamento al controllo del giudice dei “motivi” dell’attività gestionale dell’imprenditore, a me sembra che questa scelta legislativa sia, fra le due, quella che si pone meglio “in armonia” con il principio generale affermato dalla Corte costituzionale.

La collega PAGLINI si duole del fatto che un emendamento approvato dalla Commissione Lavoro abbia limitato alle imprese con più di 50 dipendenti l’obbligo di convertire in rapporto di lavoro ordinario una quota del 20 per cento dei rapporti di apprendistato, sostenendo che, poiché due terzi degli apprendisti dipendono da imprese che si collocano sotto quella soglia dimensionale, in questo modo noi priveremmo due terzi degli apprendisti italiani di ogni speranza di accesso al lavoro stabile. Non si chiede, la collega Paglini, se nel mondo delle imprese con meno di 50 dipendenti siano più gli apprendisti cui una norma di questo genere garantisce effettivamente la stabilizzazione, o siano più i rapporti di apprendistato cui una norma di questo genere inibisce di nascere? Ricordo alla collega Paglini che le norme non hanno il potere di creare domanda di lavoro; mentre hanno, purtroppo, il potere di inibirla.

Dobbiamo abbandonare – e questo decreto compie un passo importante in questa direzione – l’idea che la libertà, la dignità e la sicurezza del lavoratore siano tanto più tutelate quanto più il rapporto di lavoro è ingessato da norme, assistito da avvocati, soggetto all’intervento di ispettori e giudici. Dobbiamo incominciare a riconoscere che non c’è avvocato, ispettore o giudice che possa garantire la libertà, la dignità e la sicurezza del lavoratore, meglio di quanto esse non siano garantite dalla possibilità effettiva che quel lavoratore ha di andarsene sbattendo la porta dall’azienda dove è trattato male, perché c’è un’altra azienda che gli offre condizioni di lavoro migliori. E dunque – tanto per incominciare – la nostra priorità dovrebbe essere costituita non dalla conservazione di vecchie ingessature di contratti di lavoro che ormai le nuove generazioni vedono sempre più di lontano, bensì

–          dalla predisposizione di servizi nel mercato che consentano a chi cerca lavoro di conoscere le decine di migliaia di posti che in ogni regione italiana restano permanentemente scoperti per mancanza di persone adatte; e consentano di attivare i percorsi necessari per accedere a quei posti;

–          dalle misure di allineamento del nostro ordinamento ai migliori standard internazionali, per rendere il sistema Italia più capace di attrarre il meglio dell’imprenditoria mondiale.

Certo, per attrarre gli investimenti stranieri occorre anche ridurre i differenziali di pressione fiscale e di costo dell’energia che penalizzano il nostro Paese; ma smettiamola con il “benaltrismo”: occorre anche semplificare la nostra legislazione del lavoro e darci un mercato del lavoro in cui domanda e offerta si incontrino più facilmente e con costi di transazione minori. Non bastano né le sole prime misure, né le sole seconde: occorrono tanto le prime quanto le seconde. E il Governo sta operando su tutti questi terreni.

Proprio la vicenda di questo decreto, per altro verso, mi sembra abbia messo in evidenza come il dualismo fra stabili e precari di cui parlava ieri il collega LEPRI nel suo intervento sia figlio proprio del muro che nei decenni passati è stato eretto in difesa dell’intangibilità della disciplina del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato. Senza quel muro, sarebbe stato possibile intervenire in modo più bilanciato, in riferimento ai nuovi rapporti di lavoro, sul versante del lavoro a tempo indeterminato come su quello del lavoro a termine. E però, proprio a questo proposito, è molto significativo di quanto i tempi stiano cambiando rapidamente il fatto che ieri in quest’Aula tanti interventi – oltre a quello di Lepri quelli delle senatrici FAVERO e PUPPATO, e quelli dei senatori DALLA ZUANNA e SANTINI, per questo aspetto in sintonia con quello del Presidente della Commissione Lavoro SACCONI – abbiano fatto riferimento al tema del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente come a un capitolo fondamentale della riforma organica di cui abbiamo aperto nelle settimane scorse il cantiere. Come ha detto DALLA ZUANNA, sia pure in ritardo di una quindicina d’anni, anche il nostro diritto del lavoro sta entrando nel XXI secolo.

Certo, questo decreto costituisce soltanto un intervento molto parziale: non ha affatto la pretesa di anticipare la riforma in tutta la sua ampiezza. Ha ragione la senatrice FUCHSIA: qui manca quasi del tutto il tema della scuola. Quasi del tutto, perché il senatore BERGER ha il merito di aver promosso l’emendamento che valorizza l’esperienza dell’“apprendistato duale”, fondato sull’alternanza scuola-lavoro, di cui sono capaci le Province di Bolzano e Trento, sollecitando tutte le altre Regioni a imitare questa esperienza. Ma manca anche, e non avrebbe potuto essere inserito in questo decreto d’urgenza, tutto il capitolo dei servizi nel mercato del lavoro e della sperimentazione del contratto di ricollocazione, di cui ieri ha parlato il senatore SANTINI. Così come manca il capitolo degli ammortizzatori sociali; sul quale, però, e in particolare sul tema del reddito minimo di inserimento, nella lunga giornata di lunedì si è sviluppato in Commissione un dialogo interessante tra la maggioranza e il Movimento 5 Stelle, che può preludere a un confronto assai produttivo in sede di discussione sulla legge-delega.

In questo decreto, dunque, sono molte le cose che mancano. Si tranquillizzi la senatrice De Petris: esso non corrisponde affatto ai miei sogni. Ma esso costituisce nondimeno un passaggio molto importante, segna uno spartiacque tra due stagioni, o se si preferisce due culture molto diverse tra loro in materia di lavoro. Gli interventi svolti ieri in quella parte dell’emiciclo dai colleghi PEZZOPANE, LEPRI, RICCHIUTI, FAVERO, SANTINI, PUPPATO e GHEDINI, e quelli svolti in altri settori dell’emiciclo rispettivamente da DALLA ZUANNA, da DI BIAGIO, da PAGANI e dal Presidente della Commissione Lavoro SACCONI, testimoniano il maturare di una convinzione comune a un largo ventaglio di forze politiche: cioè che sulla nuova frontiera della protezione del lavoro, nel XXI secolo, gli attrezzi principali non sono più né la Gazzetta Ufficiale, né le carte bollate, né le sentenze. Le nuove parole d’ordine sono quelle indicate dall’Unione Europea: employability, flexsecurity, mercato del lavoro sicuro, innervato da servizi efficaci, garanzia di sicurezza economica e professionale delle persone in quel mercato basata su informazione, formazione e assistenza intensiva alla mobilità.

Arriviamo tardi su questa frontiera. Ma godiamo del vantaggio di poter sfruttare le esperienze positive dei Paesi che su questo terreno ci hanno preceduto talvolta di dieci anni, talaltra anche di un quarto di secolo. La strategia di integrazione dell’Italia in Europa è fatta anche di questo. E non è poco.

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