PERCHÉ PROFESSORI E RICERCATORI DOVREBBERO ANDARE IN PENSIONE PRIMA?

L’EMENDAMENTO PASSATO ALLA CAMERA RISPONDE ANCORA UNA VOLTA ALL’IDEA SBAGLIATA CHE SIA UTILE PER FAR POSTO AI GIOVANI ABBASSARE L’ETÀ DELLA QUIESCENZA PER GLI ANZIANI

Articolo di Gianpiero Dalla Zuanna e Pietro Ichino, pubblicato sul quotidiano Europa il 1° agosto 2014

Le nuove disposizioni inserite dalla Camera dei Deputati nel decreto sulla Pubblica Amministrazione che riducono l’età del pensionamento nel settore dell’impiego pubblico rispetto al settore privato nascono da un’idea sbagliata: quella secondo cui il modo migliore per “far spazio ai giovani” consista nel mandare in pensione prima i sessantenni (quando non addirittura i cinquantenni). Tutti gli studi mostrano come i Paesi nei quali è più alto il tasso di occupazione dei sessantenni siano quelli nei quali è anche più alto quello dei ventenni. La realtà è che, per un verso, nella maggior parte dei casi non c’è piena fungibilità tra il lavoratore anziano e il giovane; per altro verso, le risorse destinate ai pensionamenti anticipati vengono sottratte proprio alla possibilità di attivazione di nuovi servizi nei quali verrebbero occupati soprattutto i più giovani. Queste disposizioni, oltretutto, vanno in controtendenza rispetto all’aumento generale dell’età pensionabile, conseguenza inevitabile dell’allungamento della vita media (la quale – giova ricordarlo – dal 1974 a oggi è passata da 76 a 85 anni per le donne, da 70 a 80 anni per gli uomini).

L’inopportunità di queste disposizioni ci sembra ancor più marcata nella parte in cui esse consentono alle Università di collocare d’ufficio a riposo i ricercatori universitari con più di 62 anni, e i professori con più di 68 anni, così abbassando le soglie che oggi sono di 65 e 70. Innanzitutto, non si comprende la ratio della differenziazione tra professori e ricercatori, dal momento che questi ultimi sono quasi sempre anche docenti a tutti gli effetti, pur se talvolta con carico didattico un po’ inferiore. Osserviamo poi che, in Italia come in tutto il mondo, la vita media delle persone più istruite è più elevata di 3-4 anni rispetto a quella delle persone meno istruite; e che la carriera di ricercatori e professori universitari incomincia solitamente in un’età più avanzata rispetto alle altre carriere nel mondo produttivo. Non si comprende dunque il senso del mandare in pensione gli operai maschi di imprese private a 67 anni (con un’aspettativa di vita residua di 10) e i ricercatori universitari a 62 anni (con 20 anni di vita davanti a sé).

In terzo luogo, i risparmi consentiti da questa norma sono di entità trascurabile, perché i docenti collocati a riposo – anche se escono dal bilancio delle università – passano a carico dell’INPS, restando in ultima analisi a carico dello Stato; e per gran parte di loro le pensioni saranno vicine agli attuali stipendi, perché calcolate per lo più con il metodo retributivo. L’assunzione di giovani ricercatori o giovani docenti non è dunque facilitata sul piano finanziario dal pensionamento anticipato di chi li ha preceduti in queste funzioni. Semplicemente, così facendo si aumenta la spesa pubblica, scaricando i costi sul sistema pensionistico, come si è fatto dagli anni ’60 fino alla riforma Fornero, contribuendo in modo sostanziale ad accumulare gli oltre 2.000 miliardi di debito pubblico che ci affliggono. Noi riteniamo giusto assumere nuovi ricercatori e nuovi professori, perché investendo sulla ricerca di qualità si investe sul futuro, ma bisogna farlo razionalizzando la spesa, non attraverso “partite di giro”.

Quanto, infine, all’esigenza di ringiovanire le strutture di governance degli atenei, la legge 240 sull’università già impedisce di eleggere come Direttore di Dipartimento o come Rettore un docente che andrebbe in pensione durante il mandato. Per diminuire l’influenza dei docenti più anziani, sarebbe sufficiente estendere questa norma alle commissioni di concorso (sia nazionali sia locali), escludendo dall’elettorato passivo i docenti ordinari con più di 65 anni.

Per tornare al discorso generale su queste disposizioni, osserviamo che esse eludono il vero problema: quello di adattare il sistema pensionistico all’invecchiamento progressivo della popolazione. Da più parti sono stati proposti – e non solo per il settore universitario e neppure solo per il settore delle amministrazioni pubbliche – meccanismi di uscita “dolce” dal lavoro, in particolare forme di combinazione di lavoro a tempo parziale e pensione. Ma la sede per l’introduzione di una innovazione di questa natura, se si vuole fare le cose bene, non è il decreto-legge, bensì semmai i disegni di legge-delega sulle amministrazioni pubbliche e sul lavoro privato, contenenti la nuova disciplina organica della materia.

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