IL CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE: CHE COS’È E COME FUNZIONA

UNO STRUMENTO NUOVO PER LA CONIUGAZIONE TRA POLITICHE ATTIVE E PASSIVE DEL LAVORO,  PER RILANCIARE LA FUNZIONE DEL COLLOCAMENTO CONSENTENDO LA COOPERAZIONE TRA SERVIZI PUBBLICI E PRIVATI, PER RAFFORZARE LA POSIZIONE DEI LAVORATORI NEL MERCATO

Intervista a cura di Lidia Baratta, pubblicata sul sito Linkiesta il 24 settembre 2014

Era il 1996 quando Pietro Ichino, nel suo libro Il lavoro e il mercato, indicava la strada della flexsecurity nordeuropea, un mix tra flessibilità e sicurezza della ricollocazione, come via per superare il dualismo del mercato del lavoro italiano. Ora, in piena discussione sul Jobs Act, mentre tuona nei palazzi e sui giornali il sempreverde dibattito “articolo 18 sì articolo 18 no”, rischia di passare quasi in sordina il suo emendamento all’articolo 2 del disegno di legge delega approvato in Commissione Lavoro del Senato, che ha introdotto proprio il contratto di ricollocazione tra gli strumenti di politica attiva per il lavoro. Una formula, presa in prestito dall’Olanda e dalla Gran Bretagna, che prevede la cooperazione tra Centro per l’impiego, agenzia specializzata, impresa che licenzia e lavoratore disoccupato alla ricerca di una nuova occupazione.

Senatore Ichino, mentre il dibattito pubblico si è concentrato sull’articolo 18, la Commissione Lavoro del Senato ha approvato l’emendamento all’articolo 2 del disegno di legge delega sul lavoro che prevede l’inserimento del contratto di ricollocazione. In che cosa consiste?
In sostanza si tratta di questo: la persona che ha perso il posto si reca al Centro per l’impiego, dove viene individuato il suo grado di collocabilità e sulla base di questo le viene attribuito un voucher, proporzionato alla difficoltà del collocamento, per la remunerazione dei servizi di assistenza intensiva resi dalle agenzie specializzate. La persona sceglie l’agenzia tra quelle accreditate presso la Regione, stipula con essa e con il Centro per l’impiego il contratto, viene quindi affiancata da un tutor che la consiglia sugli itinerari da seguire e la segue continuativamente, eventualmente denunciando la sua non disponibilità effettiva per la ricerca o per le iniziative di riqualificazione necessarie. L’incentivo a farlo per davvero nasce dal fatto che la maggior parte del voucher sarà pagabile solo a risultato ottenuto. E se il disoccupato non è davvero disponibile per la ricerca, il risultato non può essere ottenuto. Questo meccanismo attiva gli incentivi giusti per far funzionare davvero la “condizionalità” necessaria del sostegno del reddito.

Un anno fa un altro suo emendamento aveva aggiunto nella legge di stabilità 2014 la previsione di una prima fase di sperimentazione regionale di questo strumento, con uno stanziamento di 50 milioni. Ha funzionato?
Per ora c’è soltanto la Regione Lazio che si è attrezzata per la sperimentazione prevista dalla legge di stabilità del dicembre scorso. Senonché questa sperimentazione non è ancora potuta partire, perché il regolamento ministeriale del Fondo istituito dalla stessa legge per il relativo finanziamento non è ancora stato emanato. Il termine per l’emanazione è scaduto il 27 marzo scorso: sono sei mesi di ritardo! Ho presentato ben tre interrogazioni su questo punto al ministro del Lavoro, in aprile, in giugno e la settimana scorsa, ottenendo per ora soltanto assicurazioni di imminente emanazione del regolamento.

Quindi per la crisi occupazionale di Alitalia, che doveva essere il campo di prova per il nuovo strumento, è ancora tutto fermo?
Sì, non si è ancora mosso nulla. Finché non incomincerà a saltare qualche incarico dirigenziale al vertice del ministero per vicende scandalose come questa – che non costituisce affatto un’eccezione – le amministrazioni potranno continuare ad “abrogare di fatto” le norme legislative senza risponderne in alcun modo.

Chi può avere interesse a ostacolare o ritardare l’avvio di questo progetto?
Chi non apprezza l’idea che i servizi nel mercato del lavoro siano gestiti mediante una cooperazione tra struttura pubblica e operatori privati, in un regime di vera contendibilità della funzione. Inoltre i nostalgici del vecchio metodo con cui abbiamo sempre affrontato le crisi occupazionali, nascondendo la disoccupazione sotto la Cassa integrazione e mettendo i cassintegrati in freezer per anni. Proprio per Alitalia facemmo così nel 2008, stanziando a priori sette anni di ammortizzatore sociale, dando per scontato che nessuno degli assistiti potesse essere ricollocato. Sono in molti quelli che preferirebbero che si andasse avanti così.

Di quali altri strumenti di politica attiva necessita il mercato del lavoro italiano?
Manca l’orientamento scolastico e professionale per gli adolescenti: parlo di un servizio al livello di quelli del Centro e Nord-Europa, capaci di raggiungere capillarmente ogni ragazzo all’uscita da ciascun ciclo scolastico e di informarlo compiutamente su tutto ciò che gli offre il mercato, in termini di occupazione immediata e/o di strumenti per accedervi. E mancano strutture di servizio per la formazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivi: quindi molto mobile e mutevole nei contenuti.

I nostri centri per l’impiego non funzionano. Che tipo di riforma immagina?
Lo schema del contratto di ricollocazione attribuisce ai Centri per l’impiego la funzione che essi possono svolgere efficacemente: quella cioè di “cerniera” tra l’utente e le agenzie specializzate disponibili e accreditate. Quello che negli Usa chiamano lo One-stop-shop, il luogo dove chiunque cerca un lavoro può andare per avere tutte le informazioni necessarie sugli strumenti di cui dispone, e per accedervi. Poi la funzione di “sportello reclami” contro abusi e inefficienze delle agenzie accreditate, e di rilevazione dei dati sull’efficacia dei servizi resi da queste: tassi di ricollocazione effettiva, qualità della ricollocazione, durata dei periodi di disoccupazione, ecc.

Davanti a queste mancanze, a suo parere è davvero l’articolo 18 il principale problema del nostro mercato del lavoro? Secondo i consulenti del lavoro, ad esempio, servirebbe invece tanta semplificazione e meno oneri sul lavoro.
Mettiamola così: il problema principale non è “solo” l’articolo 18, ma un intero sistema sostanzialmente fondato su un regime di job property (il diritto di proprietà del posto di lavoro, ndr). Quando parlo di sistema, non parlo solo di una norma, ma anche di tutto quello che le sta intorno: la cultura dei giudici, il comportamento di imprenditori e sindacati, il sistema degli ammortizzatori sociali e dei servizi per l’impiego, la visione del mercato del lavoro dominante nell’opinione pubblica, e dunque anche il comportamento dei lavoratori.

E tutto questo si può cambiare solo riscrivendo una norma?
Certo che no: proprio per questo abbiamo collocato la riscrittura di quella specifica norma nel contesto della riscrittura di tutta la legislazione del lavoro, con il Codice semplificato del lavoro; e insieme alla disciplina dei licenziamenti cambiamo anche il sistema degli ammortizzatori per renderlo davvero universale, e il sistema dei servizi per l’impiego offrendo a tutti i lavoratori la possibilità di accedere ai servizi delle agenzie specializzate: quelle che conoscono davvero i flussi delle assunzioni nel mercato del lavoro, sanno ciò che cercano le imprese.

Come si potrebbe combinare il contratto a tutele crescenti di cui si parla in questi giorni con il contratto di ricollocazione? Si prevede anche una assistenza del lavoratore di tipo crescente e modulabile sulla anzianità?
Nella terza edizione del Codice semplificato io propongo che il contratto di ricollocazione diventi un vero e proprio diritto per il lavoratore licenziato a partire dal terzo anno di servizio in azienda, e che da quel momento esso preveda un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa pari al 15 per cento dell’ultima retribuzione, per un numero di mesi crescente anch’esso con l’anzianità di servizio.

Come si combinano le politiche passive di sostegno al reddito con il contratto di ricollocazione?
Il contratto di ricollocazione costituisce lo strumento essenziale proprio per combinare il sostegno del reddito dei disoccupati con le misure volte al loro reinserimento, cioè con le politiche attive.
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