LO STATO COME LA SCUOLA: DEVONO REIMPARARE A GOVERNARSI

IL NODO POLITICO CENTRALE OGGI IN ITALIA È LA RICOSTRUZIONE DEI MECCANISMI DECISIONALI IN UNA DEMOCRAZIA, MA ANCHE IN UNA AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, CHE SI SONO RIDOTTE A NON SAPER PIÙ DECIDERE E A NON RISPONDERE PIÙ DELL’ASSENZA DI DECISIONE

Editoriale di Giovanni Orsina pubblicato su La Stampa del 15 marzo 2015

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Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della decisione. Il potere decisionale d’un preside che scelga i docenti per la sua scuola. Ma anche quello di un premier che goda di una maggioranza stabile e coesa in Parlamento. Sono questioni assai diverse, d’accordo. Però non manca una logica comune nel modo in cui il governo le sta affrontando: è la logica di chi tenta di ricostruire una catena di comando e responsabilità. E non è affatto un caso che per la «buona scuola» così come per la riforma delle istituzioni pubbliche sia stata utilizzata la stessa metafora, quella del sindaco: il «sindaco d’Italia» a Palazzo Chigi; il preside che guida la comunità scolastica come un sindaco.
Il problema della decisione non è soltanto italiano. È da qualche anno ormai che gli studiosi parlano di «fine del potere» (Moisés Naím), o della trasformazione delle democrazie in «contro-democrazie» fatte soltanto di veti e opposizioni (Pierre Rosanvallon).
Per quel che riguarda l’Italia, poi, non si tratta certo d’una questione che si presenta solo adesso: è almeno mezzo secolo che qui da noi si dura gran fatica a decidere. C’entra qualcosa l’ondata culturale del Sessantotto, con la sua carica anti-istituzionale? Con ogni probabilità c’entra parecchio. Ma non è impossibile che c’entri ancor di più la fragilità antica d’un Paese senza verità: vuoto di valori e criteri condivisi, diffidente del potere e delle istituzioni, segmentato in clan convinti che le regole siano fatte per essere applicate ai nemici ma interpretate per gli amici.
Con buona pace degli antiberlusconiani diventati renziani, è difficile negare che lo sforzo di ricostruzione delle catene di comando al quale si sta applicando oggi il governo, nella scuola così come nelle istituzioni, trovi degli antecedenti negli analoghi tentativi dei gabinetti Berlusconi. Quei tentativi sono falliti, o riusciti solo in parte, sia perché maldestri, sia perché si sono scontrati con un’opposizione ideologica durissima, a tratti apocalittica – dietro la quale, per altro, si nascondevano spesso le corporazioni. A voler continuare con la parafrasi semiseria del Manifesto di Marx ed Engels che apre quest’articolo, si potrebbe dire che per anni tutte le potenze della vecchia Italia si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro lo spettro della decisione: giudici e presidenti, accademici e letterati, studenti e girotondini. Fino a quando il conflitto sulla capacità decisionale della politica è arrivato a un punto tale che la politica non ha retto più, e ha collassato. E dal suo cortocircuito è nato il governo tecnico di Monti. Perché le decisioni, in fin dei conti, qualcuno deve pur prenderle.
Sono pericolosi, i tentativi del governo Renzi di ricostruire le catene di comando all’interno della politica e nei luoghi, come la scuola pubblica, che dalla politica dipendono? Altroché se lo sono. Che un potere concentrato si presti al rischio d’abuso – al livello al quale si concentra, s’intende: un preside è cosa ben diversa da un premier – è a tal punto ovvio che non c’è nemmeno bisogno di sottolinearlo. Sono maldestri, quei tentativi, superficiali, approssimativi? Anche in questo caso la risposta, purtroppo, dev’essere troppo spesso affermativa: basti pensare che la proposta cruciale di dar più potere ai dirigenti scolastici è stata un colpo di scena dell’ultima ora. Chiedere al governo più pensiero e meno improvvisazione, vagliarne con cura le proposte, pretendere dei contrappesi là dove i poteri si stiano concentrando troppo – come ha fatto ottimamente ieri su questo giornale Andrea Gavosto proprio a proposito dei presidi di scuola –: tutto questo è non soltanto opportuno, ma obbligatorio. Detto ciò, tuttavia, a me sembra pure indiscutibile che l’Italia non potrà mai risollevarsi se le catene di comando, che ovviamente sono anche catene di responsabilità, non vengono ricostruite. È troppo tempo che in questo Paese si ha l’impressione che nessuno decida più nulla; che chi è in posizione di comando abbia paura di decidere; che qualsiasi decisione sia destinata fatalmente a smarrirsi e annegare in paludi sconfinate di veti e distinguo; che si esorcizza la discrezionalità del potere circondandola di vincoli formali  criteri «oggettivi» – con l’ottimo risultato di massimizzare al contempo la paralisi, il disimpegno e la corruzione. È deprimente, per tornare all’esempio della scuola, sentir venire da un preside al quale si sta chiedendo conto d’un disservizio soltanto parole depresse d’impotenza – anche perché sono parole di irresponsabilità, parole pilatesche buone a scaricare le inefficienze nelle nebbie d’un «sistema» senza volto.
Se Renzi sta trovando il consenso del Paese, è soprattutto perché cerca di sciogliere il nodo pluridecennale della decisione. I molti che gli si oppongono dovrebbero badare di meno a come impedirgli di scioglierlo, e di più a come scioglierlo meglio. Anche perché il vero contrappeso a un potere concentrato – e qui non parliamo più di presidi, ma di premier – può fornirlo soltanto un’opposizione robusta, vitale e propositiva. Un’opposizione che non sappia soltanto dir di no.

 

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