PERCHÉ DRAGHI CI RACCOMANDA DI CONSENTIRE LA NEGOZIAZIONE DEI SALARI AL LIVELLO DI IMPRESA

ORA CHE NON DISPONIAMO PIÙ DELLA LEVA MONETARIA, PER CONTRASTARE LA DISOCCUPAZIONE CONGIUNTURALE È INDISPENSABILE IL POTENZIAMENTO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE ANCHE SULLA MATERIA SALARIALE

Intervista a cura di Roberto Giovannini, pubblicata su La Stampa il 23 maggio 2015, a seguito del discorso nel quale il Governatore della BCE Mario Draghi, al vertice delle Banche Centrali di Sintra,  ha raccomandato a tutti i Paesi dell’area Euro di adottare sistemi di contrattazione collettiva che favoriscano la negoziazione dei livelli retributivi al livello aziendale, per conferire al mercato del lavoro la flessibilità necessaria a contrastare l’aumento della disoccupazione nei periodi di congiuntura negativa – È l’idea sostenuta nel mio libro A che cosa serve il sindacato (2005), cui si ispira la riforma del diritto sindacale proposta nei miei disegni di legge n. S-986/2013 sulla parte del Codice semplificato relativa ai rapporti di lavoro collettivi e n. S-993/2013 contenente una versione ulteriormente semplificata della nuova disciplina delle rappresentanze sindacali

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«C’è una logica stringente nel ragionamento di Draghi. Le strategie neokeynesiane che piacciono alla nostra vecchia sinistra, in una situazione di salari nominali rigidi – rigidità dovuta proprio alla inderogabilità dei contratti nazionali – puntano a ridurre i salari reali per mezzo dell’inflazione, per evitare in questo modo la disoccupazione. Ma noi oggi non disponiamo della leva monetaria; dunque abbiamo bisogno di una flessibilità di fonte contrattuale, che ci permetta di  far fronte alla crisi congiunturale evitando la contrazione dell’occupazione. La flessibilità salariale derivante dalla contrattazione aziendale consente di assorbire l’impatto  della congiuntura negativa. La possibilità di contrattare la retribuzione al livello aziendale permette di raggiungere lo stesso risultato di contrasto alla disoccupazione in modo più esplicito e al tempo stesso più puntuale, meglio commisurato alle esigenze specifiche».

Dunque, Draghi ha ragione. In che modo si potrebbe adattare questa riflessione al sistema italiano, concretamente?
«Con un nuovo assetto della contrattazione collettiva che preveda la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale di lavoro non soltanto sulla parte normativa ma anche sulla parte salariale, cioè sui minimi tabellari».

Senatore, ma già c’è la norma dell’articolo 8 voluto a suo tempo da Maurizio Sacconi: già si può fare!
«C’è però un problema: è vero che l’articolo 8 dà questa possibilità in linea generale, pur senza esplicitare che essa si estende anche alla materia retributiva; ma i giudici continuano a interpretare i minimi tabellari come parametri per l’applicazione dell’art.36 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto del lavoratore alla “giusta retribuzione”».

Dunque neanche ci hanno provato?
«Nessuno ci ha neanche provato. Anche perché l’accordo interconfederale del 2011 esclude la retribuzione dalle materie su cui si può derogare al livello aziendale. E in più c’era il rischio che il giudice dicesse che non si può andare sotto il minimo tabellare indicato dal contratto nazionale, perché significherebbe andare sotto il parametro della “giusta retribuzione”».

E quindi? Cosa bisogna fare per seguire l’indicazione del Governatore Draghi?
«Occorre una legge che espliciti questo punto, cioè dica esplicitamente che il contratto collettivo più vicino al luogo di lavoro prevale sul contratto di livello superiore, anche sulla materia della retribuzione. Poi occorre completare il quadro con l’introduzione del salario orario minimo,  che a questo punto diventa il vero “minimo dei minimi”, anche per la giustizia del lavoro».

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