IL PROGETTO PER LA TRANSIZIONE A UN REGIME DI FLEXSECURITY

IL CONTENUTO DELLA PROPOSTA – LE OBIEZIONI PIU’ RECENTI E LE RISPOSTE

Pubblicato sul Quaderno n. 3/2009 della rivista ItalianiEuropei, settembre 2009

I. Contenuto della proposta

1. Il cammino di un progetto ‑ Nel numero 4 di ItalianiEuropei dello scorso anno ho dato conto, a grandi linee, del progetto a cui avevo lavorato negli anni immediatamente precedenti con l’aiuto di alcuni colleghi del Dipartimento di Studi del Lavoro dell’Università di Milano. Da allora quel progetto è venuto affinandosi attraverso più di cento incontri pubblici in ogni parte di Italia, promossi dalle organizzazioni più diverse: università, confederazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e sindacati di categoria di livello centrale o periferico, associazioni imprenditoriali di tutti i settori, circoli e federazioni del P.D., circoli del P.D.L. (sì: a Milano e a Mantova anche il maggior partito del centro-destra ha manifestato in questo modo un qualche interesse per questa iniziativa), associazioni religiose, centri culturali, e altre ancora. Il progetto è venuto affinandosi, soprattutto, attraverso una sorta di “negoziato” informale tra parlamentari P.D. provenienti dal mondo delle imprese e provenienti dalle confederazioni sindacali maggiori. Col risultato che i termini dello scambio politico, nel quale il progetto si concreta, hanno subìto un progressivo aggiustamento, giungendo a esprimersi in parametri in parte diversi rispetto a quelli iniziali.

Neppure questi ultimi parametri, comunque, ambiscono a costituire l’equilibrio ideale: l’ulteriore sviluppo del confronto tra le parti interessate potrà portare a modifiche e perfezionamenti ulteriori. Quel che conta ‑ e che a mio avviso non deve mutare ‑ è il metodo per così dire “contrattuale” dell’elaborazione di questo progetto di riforma: questa non può e non deve configurarsi né come una riforma “pro-labour” a spese del business, né come una rivincita del business contro il labour, bensì come la soluzione di un problema che riguarda tutti: il passaggio da un equilibrio arretrato del mercato del lavoro a un equilibrio più avanzato, che consente a tutti gli interessati ‑ nessuno escluso ‑ di stare complessivamente meglio. Insomma, un gioco a somma positiva che non viene imposto a nessuno: al punto che la sua attivazione, almeno nella fase sperimentale, viene affidata all’accordo tra le parti interessati.

 

2. Il problema: superare il dualismo del mercato del lavoro italiano ‑ Il nostro Paese deve affrontare un’emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vero e proprio apartheid che, tra i 18 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, divide la metà che gode di un regime di forte stabilità (dipendenti pubblici e dipendenti da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dall’altra metà, che oggi porta tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protettività è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva.

Un Paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo-legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma – se ne aggiunge oggi uno ulteriore: la fase di recessione che stiamo attraversando. È ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio lavoro, ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.

 

3. Una nuova tecnica legislativa Il progetto contenuto nel disegno di legge n. 1481, che ho presentato al Senato con altri 34 senatori del Pd il 25 marzo scorso, si propone di rispondere a questa esigenza vitale. Ma si propone di farlo adottando una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro sperimentate nel nostro Paese:

   ‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime, secondo il metodo che proprio per questo tipo di riforma è stato proposto quindici anni or sono da un autorevole economista (G. SAINT PAUL, On the Political Economy of Labor Market Flexibility, intervento alla NBER Macroeconomic Annual, 1993, Cambridge Mass., Mit Press, 1993) e che nel linguaggio dei politologi è indicato con il termine layering: istituire un nuovo ordinamento applicabile soltanto alle fattispecie – in questo caso: i rapporti di lavoro – che vengono a esistenza da un dato momento in poi;

   ‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;

   ‑ scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori, bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;

   ‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato – se la scommessa verrà vinta – a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;

   ‑ puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;
   ‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
            Alla scelta del metodo del layering si obietta
che, in questo modo, ai nuovi rapporti di lavoro verrà ad applicarsi un regime diverso rispetto ai vecchi e che anche questa è una forma di dualismo del tessuto produttivo. È vero; ma è anche vero che il nuovo “dualismo” è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i vecchi. Inoltre ‑ e soprattutto ‑ il vecchio sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B e C”, nettamente svantaggiati; con il “contratto di transizione” al nuovo regime, invece, queste “serie” inferiori vengono drasticamente abolite (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di “lavoro a progetto” e, salve poche eccezioni, con contratti a termine). E non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime incomincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” funziona meglio, offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.

 

            4. Il contratto di lavoro a stabilità crescenteIl progetto contenuto nel disegno di legge rientra fra quelli comunemente indicati con l’espressione “contratto di lavoro a stabilità crescente”, dei quali l’ultimo è quello proposto da Marco Leonardi e Massimo Pallini (Contratto unico contro la precarietà, nel sito web NelMerito.com, 19 febbraio 2008); ricordo anche, all’origine, quello proposto da me intorno alla metà degli anni ’90 (Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori, 1996, cap. V), cui si ispirò il disegno di legge 4 febbraio 1997 n. 2075, presentato dal senatore Franco Debenedetti. Tra questi progetti, il più noto, oggi, è quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi in un libro pubblicato recentemente (Un nuovo contratto per tutti. Per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione, Milano, Chiarelettere, 2008); rispetto a questo, il progetto qui delineato si differenzia principalmente per i tre aspetti seguenti: i) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale nel suo triennio iniziale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; ii) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti (decorsi i quali la vecchia disciplina contenuta nell’articolo 18 St. lav. torna ad applicarsi anche al licenziamento per motivi economici od organizzativi); iii) il progetto di Boeri e Garibaldi non collega immediatamente la riforma della disciplina del licenziamento all’attivazione di nuovi ammortizzatori sociali e servizi di riqualificazione; iv) la tecnica di riforma proposta da Boeri e Garibaldi ricalca ancora quella dell’intervento legislativo tradizionale, che modifica immediatamente e autoritativamente la disciplina di tutti i nuovi rapporti di lavoro, mentre il progetto qui presentato condiziona il mutamento della disciplina inderogabile a un’opzione compiuta in sede di autonomia collettiva e a un impegno operativo e finanziario delle imprese coinvolte, sul terreno degli ammortizzatori e dei servizi.

 

5. La transizione alla flexsecurityL’idea centrale del progetto è di consentire la sperimentazione in Italia di un sistema di protezione del lavoratore di tipo nord-europeo: il massimo possibile di flessibilità per l’impresa coniugato con il massimo possibile di sicurezza per il lavoratore. Più precisamente: consentire che, nelle aziende disposte ad assumersi il costo di una assistenza integrale al lavoratore nel mercato, ivi compreso un trattamento di disoccupazione di livello danese, si applichi anche una disciplina dei licenziamenti di tipo danese.

Al disegno di legge si è obiettato da sinistra che esso darebbe troppa libertà alle imprese; da destra, che esso sarebbe, per esse, troppo costoso. La risposta alla prima obiezione è che la maggiore flessibilità alle imprese viene data a fronte di una loro piena responsabilizzazione per la sicurezza dei lavoratori che perdono il posto. La risposta alla seconda obiezione è che l’ingessatura dei rapporti di lavoro e comunque il difetto di flessibilità del tessuto produttivo, sovente determinate dal nostro vecchio sistema di relazioni industriali costano molto più di quanto costi un sistema moderno ed efficiente di assistenza ai lavoratori nel mercato.

 

6. La nuova tecnica di protezione della continuità del lavoro e del reddito Il cuore della riforma è costituito dalla nuova disciplina del licenziamento che, non essendo qualificato come disciplinare dal datore di lavoro, e non essendo qualificato dal giudice come discriminatorio o meramente capriccioso, debba considerarsi dettato da motivo economico od organizzativo. Qui il progetto si fonda sul concetto del “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento come perdita attesa dall’imprenditore (nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto) superiore a una determinata soglia: se questa è la nozione, la forma migliore di controllo della sussistenza del g.m.o. è costituita dall’imposizione all’imprenditore stesso di un costo pari alla soglia di perdita attesa ritenuta adeguata dal policy maker.

Secondo l’impostazione del progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per incarico del Governo francese (Contours of Employment Protection Reform, relazione elaborata per il Conseil Français d’Analyse Economique, 2003, trad. it. Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2004, pp. 161-211), nel progetto il criterio di determinazione della soglia è quello dell’accollo all’impresa che licenzia del costo sociale medio del licenziamento. L’impresa dovrà dunque indennizzare il lavoratore di un danno in cui confluiscono due componenti: il danno normalmente conseguente all’interruzione del rapporto, consistente nella dispersione di professionalità specifica e nella perdita di rapporti personali con colleghi e interlocutori esterni all’azienda, e il danno eventuale correlato al periodo di disoccupazione conseguente alla perdita del posto.

 

7. Il severance cost: indennità di licenziamento e trattamento di disoccupazione ‑ Ferma restando, dunque, l’applicabilità della vecchia disciplina del controllo giudiziale e dell’apparato sanzionatorio (articolo 18 St. lav.) per il caso di licenziamento disciplinare o di quello riconosciuto dal giudice come discriminatorio, la novità rilevante portata dal progetto consiste nell’assoggettamento del licenziamento non disciplinare al solo “filtro” del costo che l’impresa si assume per l’indennizzo e l’assistenza al lavoratore licenziato.

La prima componente di questo costo è costituita da un’indennità di licenziamento pari a un mese per anno di anzianità di servizio, con un minimo di tre, per tutti i lavoratori o collaboratori in posizione di dipendenza sostanziale dall’azienda, cioè per tutti quelli che, in qualsiasi forma (subordinata o autonoma), traggano dal rapporto più di due terzi del proprio reddito di lavoro; con la possibilità per ciascuno di essi di convertire questa indennità in un “preavviso lungo”, rimanendo al lavoro per lo stesso numero di mesi, fino a un massimo di dodici. Questa opzione è importante per consentire al lavoratore di evitare la brusca interruzione dei rapporti professionali in azienda e di cercare il nuovo lavoro dalla posizione di occupato invece che di disoccupato.

La seconda componente è costituita dal trattamento complementare di disoccupazione e dai servizi di assistenza dovuti al dipendente licenziato che non trovi immediatamente una nuova occupazione. L’indennità complementare di disoccupazione deve garantire, secondo il modello danese, che il trattamento complessivo goduto dal lavoratore sia pari al 90 per cento dell’ultima retribuzione nel primo anno, poi all’80, al 70 e al 60 rispettivamente nei tre successivi, se la ricollocazione non avviene prima. Il progetto prevede che trattamento economico e servizi di orientamento, riqualificazione e assistenza intensiva vengano erogati da un ente bilaterale o consortile, costituito e finanziato dal gruppo di imprese che liberamente si associano per dar vita all’esperimento. Per i primi mesi successivi al licenziamento, il trattamento complementare sarà dunque pari alla differenza tra il 90% dell’ultima retribuzione e il trattamento generale ordinario di disoccupazione (60%), o il trattamento speciale (80%); il costo per l’azienda cresce notevolmente se il periodo di disoccupazione si protrae oltre i primi otto mesi nel caso del trattamento ordinario, oltre il primo anno nel caso del trattamento speciale (per i dettagli devo rinviare al mio sito: www.pietroichino.it). Si attiva in questo modo un forte incentivo all’efficacia dei servizi: più rapida sarà la ricollocazione del lavoratore licenziato, minore sarà l’esborso a carico dell’ente per il trattamento di disoccupazione. Per altro verso, l’ente gestore del trattamento avrà, in forza del “contratto di ricollocazione”, un vero e proprio potere direttivo e di controllo sull’attività svolta dalla persona che gli viene affidata e sulla sua ragionevole disponibilità alla nuova occupazione, con possibilità di risolvere il contratto in caso di inadempimento grave.

 

8. Il meccanismo di finanziamento dell’ente – Il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio erogatore dei trattamento economico e dei servizi ai lavoratori licenziati è interamente a carico dell’azienda o gruppo di aziende firmatarie del contratto istitutivo. La determinazione dell’entità del contributo è disciplinata dallo Statuto dell’ente, il quale è vincolato tuttavia a prevedere un meccanismo che ponga a carico delle imprese che licenziano il costo del trattamento di disoccupazione, premiando così quelle più capaci di praticare il manpower planning o comunque una gestione del personale che eviti i licenziamenti, e penalizzando, viceversa, le imprese le cui politiche del personale portino a un più frequente ricorso ai licenziamenti.

Su ciascuna azienda grava la garanzia per i crediti dei propri ex-dipendenti nei confronti dell’ente bilaterale o consorzio, nel caso di insolvenza di questo.

Il costo medio presumibile, a regime, del nuovo sistema di protezione, è stimato intorno allo 0,5 per cento del monte-salari relativo ai rapporti assoggettati al nuovo regime . Per le aziende firmatarie del “contratto di transizione” che si collochino al di sotto della soglia dimensionale necessaria per l’assoggettamento alla tutela reale contro il licenziamento disposta dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il disegno di legge pone a carico dell’Erario un contributo di pari entità, con l’obbiettivo di incentivare anche le piccole imprese alla sperimentazione del nuovo regime. Il costo per lo Stato di questo contributo, nell’ipotesi in cui venissero assoggettati al nuovo regime tutti i tre milioni di rapporti di lavoro alle dipendenze di imprese che si collocano sotto la soglia, ammonterebbe a circa 500 milioni l’anno: un prezzo che vale certamente la pena di pagare per il superamento della disparità di trattamento che oggi si verifica tra dipendenti delle piccole aziende e dipendenti di quelle che si collocano al di sopra della soglia.

            Se a questo si arrivasse, la riforma conseguirebbe il risultato davvero importante di superare non soltanto il dualismo attuale tra protetti e precari, ma anche il dualismo tra dipendenti delle imprese medio-grandi e imprese piccole.

 

II. Obiezioni principali e qualche risposta

            9. Se non ora, quando? ‑ L’obiezione più frequente che viene mossa a questo progetto, non soltanto da sinistra ma anche da destra, può riassumersi così: c’è davvero bisogno, oggi, in Italia, di riformare la disciplina dei licenziamenti? Perché, poi, un’iniziativa di questo genere parte dall’opposizione di centro-sinistra, quando il Governo e la maggioranza di centro-destra che lo sostiene mostrano di avere rinunciato a qualsiasi velleità in questo campo e gli stessi imprenditori non paiono più nutrire alcun interesse in proposito?

            In questi primi mesi della grande crisi economica, in Italia, abbiamo assistito alla perdita del posto da parte di centinaia di migliaia di lavoratori “a progetto”, “partite Iva” sostanzialmente dipendenti, titolari di contratti di lavoro a termine, lavoratori in regime di somministrazione: senza un giorno di preavviso, né una lira di indennizzo o di trattamento di disoccupazione (a tutt’oggi ‑ fine giugno 2009 ‑ il brandello di trattamento di disoccupazione promesso dal Governo per gli “atipici” nella maggior parte dei casi non è stato ancora effettivamente erogato). Altre centinaia di migliaia di lavoratori stanno perdendo il posto in condizioni appena più decenti: sono i dipendenti di aziendine appaltatrici di servizi, sovente in realtà fornitrici di manodopera, cui viene disdetto l’appalto dalla committente di dimensioni medio-grandi. Tutti questi sono i lavoratori che nei decenni passati hanno portato per intero il peso della flessibilità di cui il sistema aveva bisogno e che oggi portano per intero il peso della crisi: quelli ai quali il nostro sistema protettivo attuale non offre alcuna protezione, alcuna sicurezza. Non sorprende che agli imprenditori ‑ per lo meno a quelli meno lungimiranti ‑ un sistema come questo possa andar bene; e che esso possa andar bene anche al Governo e alla maggioranza di centro-destra che oggi lo sostiene. Ma sorprende che vi si rassegni chi attribuisce valore prioritario ai principi di pari trattamento e di pari opportunità per tutti i lavoratori. Le statistiche sul funzionamento del nostro mercato del lavoro lanciano in continuazione segnali di allarme per chiunque aspiri a vedere realizzati questi principi; e denunciano una situazione di inadempienza costituzionale e comunitaria del sistema Italia.

            Capisco il fastidio di tanta parte della nostra vecchia sinistra per questo discorso; ma dovrà pur fare i conti anch’essa almeno con i dati di cui disponiamo. È vero o no che la vecchia garanzia di stabilità del posto di lavoro che tanto le sta a cuore oggi si applica soltanto a metà dei 18 milioni e mezzo di lavoratori italiani in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda per cui lavorano? Se questo è vero, e se non crediamo che sia ragionevolmente prospettabile una estensione di quella vecchia garanzia ai nove milioni che ne sono esclusi, qual è – seriamente ‑ la via da seguire per uscire dall’attuale regime di apartheid?

            A un ventenne che oggi entra ‑ o tenta di entrare ‑ nel tessuto produttivo, il vecchio diritto del lavoro studiato e custodito gelosamente da noi giuslavoristi interessa davvero pochissimo: per lui la probabilità di entrare nel campo della sua applicazione effettiva è molto bassa; lo considera come fonte di uno status riservato alle generazioni precedenti; non certo alla sua. L’interesse che si è acceso, a partire dalla primavera scorsa, in tutte e quattro le confederazioni sindacali maggiori riguardo ai progetti di “contratto di lavoro a tempo indeterminato a stabilità crescente” è principalmente motivato dalla necessità di ristabilire un dialogo con l’intera nuova generazione di lavoratori o aspiranti tali, con i quali i vecchi sindacati – al pari del vecchio diritto del lavoro ‑ hanno perso quasi completamente i contatti (per la raccolta di una ventina degli interventi più rilevanti dei dirigenti sindacali italiani in questo recente dibattito rinvio ancora al “Portale della Flexsecurity”, nel mio sito web già citato).

            Le cose, poi, su questo piano, stanno peggiorando. Prima dello scoppio della crisi, nel corso del 2007, la quantità di nuovi rapporti di lavoro costituiti sotto forma di rapporti a termine, di “lavoro a progetto”, di lavoro a “partita Iva” e simili avevano già superato la metà del totale. Oggi, nella situazione di incertezza gravissima circa il futuro a breve e a medio termine, la loro quota sul flusso complessivo si è ulteriormente incrementata. Ed è sempre molto alto il rischio, per chi viene assunto in questo modo, di restare “impigliato” nella trappola del lavoro precario: per il difetto di investimento da parte sua e dell’impresa nel suo capitale umano, per la dispersione di professionalità che si verifica a ogni passaggio da un lavoro a un altro, per lo stigma negativo che nel mercato del lavoro finisce coll’applicarsi a chi presenta un curriculum nel quale figura soltanto una lunga serie di periodi brevi di lavoro dequalificato. Col risultato di un probabile aumento anche del dato di stock. Proprio la situazione di maggiore incertezza sul futuro determinata dalla crisi, dunque, costituisce il momento in cui è maggiormente necessario, senza allentare le protezioni riservate ai lavoratori che già godono del vecchio regime di stabilità, incominciare a delineare un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero a tutti i nuovi rapporti di lavoro, un ordinamento che offra alle nuove leve di lavoratori e a quelli che nella crisi stessa perdono il posto una prospettiva migliore sul piano della parità di trattamento e delle pari opportunità di accesso a una sicurezza che sia davvero suscettibile di estendersi a tutti.

            Non ho certo la pretesa che il progetto di cui sono l’estensore costituisca la soluzione migliore del problema, né che essa non presenti numerose possibili controindicazioni o rischi di insuccesso. Mi sembra però che chi la contesta, se non ritiene di rassegnarsi all’attuale regime di apartheid del nostro mercato del lavoro, abbia l’onere di indicare una diversa soluzione credibile per uscirne. E non mi sembra davvero che la “moratoria legislativa” per lo più proposta dagli avversari di questo progetto, per quanto coniugata con recuperi di efficienza delle strutture amministrative competenti, costituisca una soluzione credibile del problema. Concordo con chi sottolinea i danni prodotti dalla legislazione del lavoro nevrotica e alluvionale che abbiamo subito negli ultimi decenni; ma ‑ guarda caso ‑ quella legislazione nevrotica e alluvionale ha riguardato quasi soltanto il lavoro marginale e precario: non si è mai neppure proposta di correggere la parte centrale dell’ordinamento per renderla applicabile alla grande maggioranza dei lavoratori dipendenti (e, certo, non avrebbe potuto farlo intervenendo nel modo estemporaneo e ondivago che la ha caratterizzata). Questo, invece, è il problema che ora dobbiamo affrontare.

            Alla domanda “se non ora, quando?”, gli avversari del progetto sembrano rispondere: “riparliamone, forse, fra un decennio”. A me non sembra una buona risposta. E non solo per le ragioni di politica del lavoro esposte in questo paragrafo, ma anche per le ragioni che mi accingo a esporre nel paragrafo seguente, riguardanti quella che mi appare una profonda incoerenza interna del nostro sistema di protezione della stabilità del lavoro, indipendentemente da qualsiasi considerazione sulla sua incapacità di applicarsi a più di metà dei suoi naturali destinatari.

 

            10. Le contraddizioni interne al nostro sistema di protezione della stabilità. – Nei nostri repertori di giurisprudenza da decenni abbondano le sentenze delle corti superiori e dei giudici di merito che enunciano il principio dell’insindacabilità delle scelte economiche od organizzative dell’imprenditore: anche di quelle che abbiano come conseguenza il licenziamento del lavoratore. In piena sintonia con quel principio costituzionale, la monografia più recente e più compiuta sulla nozione di “giustificato motivo oggettivo” (M.T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, nel Trattato diretto da F. Galgano, Cedam, 2005) teorizza una sostanziale coincidenza di questa nozione con quella di un qualsiasi apprezzabile interesse economico-organizzativo dell’imprenditore; secondo questa dottrina, dunque, una perdita attesa di qualsiasi entità, conseguente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sarebbe di per sé idonea a giustificare il licenziamento per motivo oggettivo, essendo esclusi, in questo campo, soltanto l’abuso del diritto e gli atti discriminatori specificamente vietati dal diritto comunitario e nazionale. Se questo fosse davvero l’ordinamento oggi vigente in materia di licenziamento per ragioni economiche, tecniche od organizzative, avremmo la massima possibile flessibilità dimensionale delle aziende: escluse le discriminazioni vietate, il licenziamento per ragioni oggettive sarebbe assolutamente libero.

            In realtà, però, le cose non vanno affatto in questo modo: la law in action diverge largamente da quelle enunciazioni teoriche dominanti nei nostri repertori di giurisprudenza e nei nostri testi dottrinali. Il modo in cui il controllo giudiziale dei licenziamenti per motivi oggettivi avviene effettivamente nelle nostre aule di giustizia, pur talvolta ribadendo – ma soltanto come clausola di stile – il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, risponde di fatto a una logica totalmente divergente da questo principio. Le regole giurisprudenziali che effettivamente reggono la materia, quelle che ogni operatore pratico sa di dover seguire se vuole porsi in sintonia con la decisione più probabile dell’eventuale controversia, sono le seguenti:

   ‑ è consentito sopprimere un posto di lavoro ma è vietato sostituire un lavoratore con un altro, salvo che la sostituzione abbia una adeguata giustificazione oggettiva; dove l’adeguatezza, ovviamente, è soggetta a penetrante controllo giudiziale (questa regola, che non ha alcuno specifico fondamento legislativo positivo, si pone in evidente contrasto con quella della insindacabilità delle scelte organizzative imprenditoriali, affidando al giudice il compito di stabilire quando è consentito sostituire un lavoratore e quando no; è comunque del tutto illogico che, in base a questa regola giurisprudenziale, sia sempre consentito sostituire un lavoratore con una macchina, essendo invece sempre vietato sostituirlo con un altro lavoratore);

   ‑ è consentito sopprimere un posto di lavoro, ma è vietato licenziare il lavoratore se è possibile spostarlo utilmente in una diversa posizione in seno all’azienda (è la c.d. regola del repêchage, che con tutta evidenza implica un controllo penetrante del giudice sulle valutazioni economico-organizzative dell’imprenditore: si affida così, in definitiva, al giudice il compito di stabilire se per l’impresa è “utile” o no spostare il lavoratore nella nuova posizione, ovvero – in termini economici più rigorosi ‑  se la produttività marginale del lavoratore nella nuova posizione eguaglia il costo per l’impresa della prosecuzione del singolo rapporto);

   ‑ è consentito licenziare per esigenze economico-organizzative quando questo è necessario per ridurre delle perdite aziendali, ma non quando lo scopo è di aumentare gli utili (il che significa, in sostanza, che nel nostro Paese è consentito procedere all’aggiustamento industriale soltanto quando la crisi aziendale è scoppiata, quando l’impresa si trova già in una situazione pre-fallimentare; sennonché l’imprenditore ha interesse a compiere l’aggiustamento molto prima di quel momento: esso deve prevenire e possibilmente evitare la crisi, non seguirla).

            Sentiamo sovente richiamare la costruzione dottrinale secondo la quale l’imprenditore è libero di compiere qualsiasi scelta organizzativa, dovendo i giudici limitarsi a controllare che quella scelta corrisponda al suo comportamento reale. Se questa davvero fosse la regola, dovrebbe poter accadere che l’imprenditore dica: “ho deciso di licenziare il dipendente A perché non ha la patente di guida, o perché non conosce l’inglese, o perché non è disponibile a un determinato nuovo orario di lavoro, per poter assumere B, il quale invece soddisfa questa mia esigenza”; e in tal caso il giudice dovrebbe limitarsi a controllare che effettivamente di questo si sia trattato. Nella quasi totalità dei casi di questo genere, invece, il giudice non si limita affatto a questa verifica, ma si spinge a sindacare se davvero la possibilità che il lavoratore guidi l’auto, o parli inglese, o sia disponibile per la variazione di orario, sia così importante nell’economia dell’attività aziendale. Ciò che si attiva, in questo modo, è né più né meno che un penetrante sindacato giudiziale sulle scelte economico-organizzative dell’imprenditore.

            Per concludere, il nostro diritto vivente, in materia di licenziamento per motivi obiettivi, soffre di una divaricazione profonda e molto evidente tra il principio costituzionale generale cui dovrebbe ispirarsi (quello dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali) e il modo in cui il controllo giudiziale effettivamente si svolge. E l’apparato sanzionatorio disposto dall’art. 18 St. lav. ‑ con la possibilità che anche un solo esito negativo in una delle molte fasi del giudizio causi all’impresa una perdita molto ingente, non recuperabile neppure nel caso di esito positivo finale (per una esposizione più compiuta di questo argomento rinvio al mio saggio La stabilità del lavoro e il valore dell’uguaglianza, Riv. it. dir. lav., 2005, I, pp. 7-31 e particolarmente pp. 21-23) ‑  enfatizza enormemente l’effetto di questa divaricazione, aumentando conseguentemente il grado di rigidità effettiva del nostro sistema di protezione della stabilità del posto di lavoro e generando un assetto della materia di fatto molto vicino a un regime di job property.

            Il progetto di riforma della materia di cui qui si discute mira a superare questa divaricazione tra principio generale di insindacabilità delle scelte imprenditoriali e regime effettivo di protezione della continuità del lavoro e del reddito per il lavoratore. L’idea centrale del progetto è questa: se l’impresa è disposta ad accollarsi il costo sociale del licenziamento, questo significa che dalla prosecuzione del rapporto essa si attende una perdita maggiore di quel costo. Lasciamo dunque che il giudice controlli con il massimo rigore l’assenza di motivi discriminatori o di mero capriccio; ma, esclusi questi, lasciamo che sia quel costo a costituire il filtro delle scelte dell’imprenditore: otterremo in questo modo una protezione per il lavoratore ovviamente migliore rispetto all’applicazione pura e semplice del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, ma eviteremo anche gli eccessi del regime attuale, che di fatto, in ultima analisi, considera il bilancio aziendale in rosso come il solo vero “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento, impedendo l’aggiustamento industriale tempestivo e pregiudicando l’allocazione migliore delle risorse umane nel tessuto produttivo.

 

            11. Le altre due critiche più rilevanti: il progetto segmenta ulteriormente gli standard applicati nel tessuto produttivo e comunque costa troppo. – A parte il “tabù” dell’articolo 18 – ormai logoro e prossimo al crollo, se già non può considerarsi crollato – le due critiche più rilevanti al disegno di legge n. 1481 ricorrenti nel dibattito sui media sono queste: il progetto, al di là delle intenzioni, non realizza affatto una riunificazione del mercato del lavoro, un modello universale di protezione, ma al contrario determina, nell’immediato, una ulteriore segmentazione degli standard applicabili; esso, comunque, costa troppo alle imprese perché esse possano aderirvi spontaneamente.

            Alla prima obiezione rispondo che una riforma di questa portata in Italia non è pensabile se non in una prospettiva di medio-lungo termine. Il nostro sistema già oggi tende, in realtà, verso il modello nordeuropeo della flexsecurity; ma esso deve superare almeno quattro grandi ostacoli per arrivare a realizzare quel modello: un grave difetto di qualità dei servizi pubblici nel mercato del lavoro, l’incapacità del sistema di condizionare il sostegno del reddito del lavoratore disoccupato al suo impegno effettivo nel percorso verso la nuova occupazione, la carenza delle risorse pubbliche necessarie per il rafforzamento del sostegno economico ai disoccupati e – last but not least – il ben noto difetto, nel nostro Paese, delle civic attitudes che caratterizzano invece la cultura dei Paesi nord-europei (cfr. le conclusioni di U. Trivellato, Cambiamenti del lavoro, protezione sociale e politiche attive del lavoro, nel rapporto conclusivo della “Commissione Carniti”, Il lavoro che cambia. Contributi tematici e raccomandazioni, dattil., Roma, 2009, partic. pp. 48-55.).

            È dunque necessaria una strategia di avvicinamento graduale a quel modello, lungo un percorso che consenta di superare ciascuno di quei grandi ostacoli. Il primo passaggio di questo processo di avvicinamento può, e a mio avviso deve, essere costituito dalla sperimentazione del nuovo sistema (nuova disciplina del recesso del datore dal rapporto di lavoro coniugata con l’immediata attivazione di servizi efficienti e sostegno robusto del reddito per il lavoratore che perde il posto) nelle condizioni migliori per il suo successo: sperimentazione, dunque, in imprese i cui titolari siano per primi convinti della bontà del progetto e spontaneamente disponibili a sostenerne i costi, in accordo con un sindacato che condivida la filosofia del progetto stesso e sappia farsi interprete degli interessi della nuova generazione di lavoratori, che ne sarà coinvolta. Solo attraverso questa sperimentazione è pensabile lo sviluppo in Italia della “cultura materiale” della flexsecurity; ed soltanto questa sperimentazione potrà consentirci di mettere a punto un modello di flexsecurity concretamente praticabile a sud delle Alpi, affinandone le tecniche di gestione, individuando il benchmark di efficienza relativo a ciascun servizio.

            Quanto ai costi, è logico pensare che quello relativo ai servizi di riqualificazione professionale e di ricerca intensiva della nuova occupazione possa essere in larga parte, se non interamente, coperto con il contributo delle Regioni, possibilmente con il concorso del Fondo Sociale Europeo. Mi sembra invece opportuna – oltre che obbligata, nella contingenza italiana attuale – la scelta di accollare interamente alle imprese interessate il costo del rafforzamento del sostegno del reddito dei lavoratori licenziati. Questo, infatti, determinerà un forte incentivo economico all’attivazione, da parte dell’ente bilaterale o consortile dalle stesse imprese costituito, di servizi di riqualificazione e ricollocazione efficienti, capaci di contenere – come al Centro-Nord è sicuramente possibile ‑ i tempi medi di disoccupazione entro un limite fra i tre e i sei mesi; e i tempi massimi entro un limite tra gli otto e i dodici mesi. Se così sarà, il costo del sostegno del reddito del lavoratore licenziato si ridurrà alla somma dell’indennità di licenziamento e di quanto necessario per portare l’indennità di disoccupazione dal 60 (o, dove opera il trattamento speciale, dall’80) al 90 per cento dell’ultima retribuzione per alcuni mesi: un costo ampiamente sopportabile per qualsiasi impresa sana.

            Il progetto si fonda, in ultima analisi, proprio su questa scommessa: che sia possibile anche in Italia ridurre i tempi medi di una buona ricollocazione del lavoratore che perde il posto entro limiti simili a quelli che si osservano nei Paesi del Nord-Europa. Il know-how necessario esiste già anche in Italia: basta chiederlo, retribuendolo a dovere, alle imprese specializzate in questo campo. Oltre che, ovviamente, alle agenzie pubbliche operanti nel settore, là dove esse funzionano bene.

            In un intervento recente (A. Bombassei, Perché l’impresa deve pagare ancora l’inefficienza dello Stato, il Riformista, 26 maggio 2009; può leggersi anche alla pagina web www.pietroichino.it/?p=3658) il Vicepresidente di Confindustria si chiede che cosa potrebbe indurre un’impresa a farsi carico spontaneamente di questo onere aggiuntivo (e siamo così all’ultima obiezione). La risposta è facile: questo onere è largamente inferiore al costo (quasi mai contabilizzato come tale, ma non per questo meno rilevante) che nel regime attuale l’impresa sopporta a causa dell’impossibilità dell’aggiustamento industriale tempestivo, dovendo tenere a proprio carico personale eccedentario che non si prevede possa tornare in futuro a essere adeguatamente utilizzato, oppure dipendenti il cui deficit di produttività marginale rispetto ad altri disponibili nel mercato è superiore al costo di una loro utile ricollocazione in altra azienda.

D’altra parte, la migliore allocazione delle risorse umane conseguente all’aumento della fluidità del sistema ridonderebbe anche a vantaggio dei lavoratori, in termini di migliore valorizzazione del loro lavoro e quindi di più alti livelli retributivi. L’incontro fra domanda e offerta in un mercato del lavoro post-industriale è sempre meno semplice e immediato: il lavoratore che si ferma “alla prima tappa”, nella prima azienda dove riesce a “trovare il posto” a tempo indeterminato – come tipicamente accade in un sistema come il nostro caratterizzato da alta vischiosità –, corre dunque un rischio elevato di stabilizzarsi in un posto dove il suo lavoro è meno valorizzato di quanto potrebbe essere altrove. Anche questa è presumibilmente tra le cause del differenziale di reddito che penalizza i lavoratori italiani rispetto ai loro colleghi degli altri maggiori Paesi europei.

 

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