FUSARO: A CHE COSA SERVE L’UNINOMINALE

PROMUOVERE L’UNINOMINALE PER ASSICURARE ELEZIONI DECISIVE, PER RIDURRE LA FRAMMENTAZIONE E RAFFORZARE IL BIPOLARISMO

Contributo dI Carlo Fusaro, ordinario di diritto pubblico nell’Università di Firenze, in preparazione del seminario su “L’Uninominale possibile” che si è svolto a Roma, a Palazzo Giustiniani, il 29 settembre 2010

I. Non credo esista alcuna possibilità in questa legislatura di cambiare la legge elettorale nella direzione auspicata dai promotori (che condivido). (a) Il PdL ritiene tuttora i collegi uninominali uno svantaggio e il premio di maggioranza indispensabile; per di più il suo leader ritiene le liste bloccate decisiva per controllare candidati ed eletti di cui poco si fida; (b) il Pd è diviso: due (almeno) sono le strategie di fondo presenti nel partito, e due (almeno) e assai diverse sono le formule elettorali considerate coerenti con ciascuna di esse; (c) l’Udc (e Casini che lo guida) è il vero promotore della formula elettorale attuale, e siccome sia Berlusconi sia Bersani guardano all’Udc è difficile pensare che optino platealmente per formule diverse, del tutto incoerenti col progetto centrista di cui l’Udc è portatore (o almeno che lo siano più dell’attuale formula che ha portato, dal loro punto di vista, alla reintroduzione di un impianto proporzionale, pur piegato a logica maggioritaria dal premio); (d) gli alleati minori potenziali ed effettivi di entrambi i campi a loro volta tutto vogliono meno che l’abbandono di formule proporzionali o formule proporzionale con sbarramenti significativi; (e) soprattutto, il sistema politico è entrato, dopo una pausa durata meno di due anni, in una nuova fase di notevole agitazione e sommovimenti, con scarse prospettive di stabilità in entrambi i campi del centro-destra e del centro-sinistra: dato che di per sé, non bastassero gli altri, rende estremamente difficile anche solo immaginare il coagularsi di consensi sufficienti per qualsiasi opzione utile (anche per la fame di visibilità di cui ciascun competitore ha bisogno come dell’aria che respira). Basti un solo esempio: cosa c’è da attendersi su questo piano dai gruppi parlamentari costituiti dal presidente dell Camera Fini? Ad oggi non ho colto alcuna indicazione chiara.

II. Intendo perciò la promozione al Seminario e la partecipazione ad esso come il contributo che una serie di persone di buona volontà ritengono di dare a chiunque voglia farne utilizzo, individuando una via d’uscita che potrebbe consentire – il giorno in cui se ne dessero le condizioni politiche – di migliorare la formula elettorale attuale, pur nella piena consapevolezza che è del tutto improbabile tali condizioni politiche possano darsi in tempi brevi, e comunque nell’attuale legislatura.

III. Volendo cambiare una legge elettorale (rectius: qualsiasi legge!) occorre avere ben chiaro nell’ordine: (a) cosa non va della legge vigente; (b) di conseguenza quali sono gli obiettivi prioritari da perseguire cambiandola; (c) quali sono i vincoli che si intende rispettare. Da ciò derivano (d) le innovazioni da proporre e quelle da escludere. Dichiaro subito le mie opzioni.

IV. I difetti principali della legge elettorale vigente secondo me sono, nell’ordine: (a) l’assurdo costituzionale di due premi di maggioranza per due assemblee diverse in un ordinamento nel quale (purtroppo) il governo necessità della fiducia di entrambe quelle assemblee; si tratta di un caso di illogicità legislativa manifesta; (b) il micidiale mix di liste bloccate lunghe (fossero corte fino a 3-4 candidati, non mi scandalizzerei) e possibilità di candidature multiple (che consentono il giochetto delle opzioni post-elettorali): il che determina (i) un elevato grado di influenza sugli eletti da parte di chi ha il potere di decidere le candidature e (ii) rottura del legame elettori/rappresentanti a partire dal momento della campagna elettorale. In effetti, (c), come tutte le leggi elettorali vigenti nel nostro ordinamento, anche la legge 270/2005 conserva ai soli presentatori (leggi: a chi governa i partiti, nella maggior parte dei casi) il pieno controllo dell’accesso alle candidature (con l’aggravante, dal punto di vista della facoltà di scelta dell’elettore, della lista bloccata).

V. Gli obiettivi da perseguire sono quelli correttamente individuati (e per questo ho aderito) nell’appello di Pietro Ichino e c.. Qui, pur individuando il collegio uninominale come opzione prioritaria, non ci si impicca (giustamente) ad alcuna formula. Gli obiettivi indicati sono: (a) abolizione delle liste lunghe; (b) ristabilimento di un rapporto elettore / candidato / rappresentante. Viene anche indicato l’obiettivo, invece molto più difficile, di superare il difetto, sistemicamente ancor più grave, di cui al punto (b) di IV: eliminare i presupposti strutturali legislativi delle due camere con maggioranze contrapposte. La difficoltà sta nei vincoli da rispettare (v. subito dopo, punto XVII).

VI. Dal mio punto di vista, considero vincoli politico-istituzionali pregiudiziali: (a) il mantenimento dei presupposti normativi del bipolarismo (che abbisogna tuttora di forti incentivi); (b) il mantenimento se non della certezza giuridica almeno della ragionevolmente alta probabilità che le elezioni abbiano carattere decisivo: in altre parole che esse producano un esito certo conferendo di fatto, così, al corpo elettore il potere di determinare maggioranza e leadership di governo. (Sarebbe del resto paradossale impegnarsi a restituire al cittadino un più diretto rapporto con uno o più suoi rappresentanti e privarlo, in cambio, del potere di compiere la fondamentale scelta di governo. Proprio considerando la classe diregente dell’attuale ceto politico – affidaread essa tutta intera la formazione post-elettorale dei governi sarebbe a mio avviso buttarsi nella brace dalla padella); (c) evitare formule che rilancino il correntismo e le scorribande dei gruppi di interesse e – per di più – costituiscano ostacolo di fatto a una più equamente distribuita rappresentanza di genere; (d) evitare per quanto possibile un rilancio dei costi della politica; (e) non incentivare ulteriormente la storica, tradizionale propensione alla frammentazione della politica italiana e delle assemblee.

VII. I punti (c) e (d) dei vincoli di cui a (VI) mi fanno escludere qualsiasi ritorno al sistema delle preferenze. Rimangono pertanto solo le opzioni fondate su liste corte/cortissime o sui collegi uninominali. In entrambi i casi resta, va detto, il problema dell’accesso alle candidature: in proposito l’unica innovazione che vedo potenzialmente utile ad attribuire (non “restituire”) agli elettori voce in capitolo è quella di una disciplina legislativa quadro, a maglie larghe, di elezioni primarie (a costituzione vigente, necessariamente non obbligatorie, vincolanti ma con temperamenti).

VIII. I punti (a) e (b) dei vincoli mi fanno escludere qualsiasi formula elettorale, ancorché fondata su collegi uninominali, di impianto proporzionalistico. In particolare la formula adottata in Germania (con sempre minor successo, tra l’altro: se la Germania è tuttora ragionevolmente ben governata, ciò non dipende certo dalla formula elettorale che in un contesto oramai pluripartitico impone defatiganti trattative postelettorali e continue rinegoziazioni fra gli alleati), applicata in Italia: (i) con ogni probabilità fa (nell’attuale contesto) saltare il bipolarismo; e (ii) porterebbe, il più delle volte, a governi fondati su maggioranze post-elettorali. Inoltre spesso si scorda che la formula Geyerhahn affida la metà degli eletti a liste bloccate di partito. Infine, proprio nel contesto politico attuale, non solo è da escludere la possibilità di introdurre clausole di sbarramento di livello tedesco (5%), ma – mettendo mano alla legge elettorale – non sarebbe neppure facile salvaguardare l’ormai quasi ‘classico’ 4% (che infatti la legge 270/2005 consente di ridurre al 2% ed oltre, con gli effetti che si sono ben visti nel 2006: non nel 2008, in un contesto politico che pare tuttavia, ahimé, superato).

IX. Potrebbe in teoria essere presa in considerazione una formula di tipo spagnolo (che poi non è altro che una formula proporzionale su basi provinciali senza recupero dei resti). Ma a parte il fatto che si caratterizza per liste la cui lunghezza media è molto bassa (fra i 6 e 7 eligendi: per cui l’effetto premia i partiti maggiori e i partiti regionali fortemente insediati in alcune aree del paese), ma che diventano assai ‘lunghe’ a Madrid e Barcelona, costituirebbe nel suo funzionamento concreto in Italia un’incognita, suscettibile di non garantire, salve correzioni e modifiche varie, alcuni degli obiettivi che ci proponiamo né rispettare i principali dei vincoli di cui a VI. Mi pare dunque un’altra strada da non seguire.

X. Restano formule ben più utili, ma la cui praticabilità politica appare, purtroppo, assai bassa.

XI. Un sistema maggioritario uninominale a doppio turno possibilmente con accesso al secondo turno limitato ai soli due candidati con più voti. Unita a una legislazione sulle primarie e a norme che promuovano la rappresentanza di genere tale formula dovrebbe poter funzionare, consentendo di perseguire efficacemente gli obiettivi indicati e rispettare i vincoli indicati. Purtroppo non è stato possibile introdurla in contesti politici ben più promettenti dell’attuale: e non vedo proprio come ciò sia possibile oggi. Inoltre questa formula è delicata perché in sede parlamentare è concreto il rischio che si finisca con l’abbassare o eliminare i limiti all’accesso al secondo turno, con effetti assai controproducenti.

XII. Un sistema maggioritario uninominale a un solo turno (sempre unito a una legislazione sulle primarie e a norme che promuovano la rappresentanza di genere): tale formula, tuttavia, oltre che essere di almeno altrettanto incerta praticabilità politica, rischierebbe nei tempi brevi e medi di non consentire il rispetto di alcuni dei vincoli principali prescelti: in particolare la decisività del voto.

XIII. Va anche detto, per amor di obiettività, che sia il maggioritario a doppio turno sia quello a un turno, come il caso italiano dal 1993 ha rivelato, non forniscono garanzie contro la frammentazione ove le forze politiche alleate facciano ricorso al riparto negoziato e proporzionalizzato, magari tenendo conto dei risultati ottenuti in contesti diversi, dei collegi considerati sicuri.

XIV. Il sistema definito uninominale (maggioritario, aggiungerei) a turno unico con indicazione di una prima e di una seconda scelta (appunto allegato) costituisce un’ipotesi affascinante ma da un lato è anch’essa (sia pure in misura inferiore) a rischio di elusione come le altre uninominali maggioritarie (in sede di presentazione delle candidature, v. XIII), dall’altro come altre formule elettorali costituisce una tale novità da renderla in realtà astratta nella sua lontananza da qualsiasi aggancio con le tradizioni elettorali nazionali, di cui pure è saggio e doveroso tener conto.

XV. Una terza ipotesi, variante di quella immediatamente precedente, potrebbe essere un ritorno alla legge Mattarella corretta dall’abolizione dello scorporo e accompagnata – ove fosse possibile – da misure antiframmentazione. La legge Mattarella – che naturalmente come tutte aveva i suoi bravi difetti – è stata a lungo ingiustamente vituperata il che ha reso più facile cambiarla quasi senza colpo ferire, a maggioranza semplice, proprio quando stava dimostrando di poter funzionare. Ove la si applicasse con le medesime caratteristiche (per esempio nella formula Senato 1993) ad entrambe le camere potrebbe promettere più di altre combinazioni di evitare il rischio delle due maggioranze divise e contrapposte. Dev’esser tuttavia chiaro che con quattro milioni circa di elettori in meno in una camera rispetto all’altra, dunque con elettorati diversi, e diversi su base generazionale, non vi sarebbe alcuna garanzia di maggioranze conformi. Ulteriore vantaggio di questa ipotesi sarebbe che si tratta di un sistema già più volte sperimentato (e dunque solo da correggere, nel riproporlo).

XVI. Una quarta ed ultima ipotesi potrebbe essere quella di vedere se – cavando sangue dalle rape, se mi si passa l’espressione volgare – si può intervenire sulla legge attuale. Per dirla in due parole, si potrebbe vedere se – facendo salvo il premio di maggioranza – si può immaginare l’individuazione degli eletti partendo da collegi uninominali collegati fra loro: com’era al Senato e com’è tuttora nelle elezioni provinciali. La forte differenza (con il modello 1993-2005 al Senato) è che le provinciali sono appunto elezioni proporzionali, con collegi uninominali collegati fra loro e premio di maggioranza determinato – peraltro – dal potenzialmente distinto voto sul presidente (anche disgiunto), il che non è realizzabile a livello parlamentare. Peraltro, entrambi questi sistemi, per il modo come i seggi vengono assegnati ai candidati (dopo il calcolo di quanti ne tocca a ciascun partito) hanno il potenziale difetto di prevedere (inevitabilmente mi pare) la possibilità di collegi uninominali scoperti (senza rappresentante) ed altri con più eletti. Inoltre se l’assegnazione non è plurality (o majority a due turni) si dà altrettanto inevitabilmente il caso di collegi il cui eletto è il candidato di una forza minore (ma con seggi) a fronte di candidati di forza maggiore con molti più voti, e tuttavia non eletti (per non aver avuto voti sufficienti da essere fra i primi del proprio partito). Ciò rischia di ridurre se non eliminare la possibilità effettiva di perseguire l’obiettivo (b) enunciato al punto V. Peraltro, vista dall’esterno, una soluzione di questo genere mi pare l’unica con qualche modestissimo margine di praticabilità politica: sempre che il PD rinunci ad alcune sue opzioni e Berlusconi rinunci alle sue liste bloccate. La formula, oltretutto, non sarebbe incompatibile con clausole di sbarramento (sarebbe sperimentata e nota nei pregi e nei diversi difetti, sarebbe in qualche modo coerente con i sistemi locali e regionali, pur comunque differenziati dalla fondamentale elezione diretta del vertice dell’esecutivo).

XVII. Quanto infine ai problemi generati dal bicameralismo indifferenziato caratterizzato dal monstrum del doppio rapporto fiduciario trovare soluzioni che assicurino due votazioni distinte, ma nel contempo decisive e coerenti fra di loro non è solo difficile, è impossibile. Comunque la si metta, non può esistere la certezza di ottenere risultati conformi con due votazioni distinte, tanto più, come dicevo, se gli elettorati sono diversi: neppure applicando la stessa identica formula. La soluzione va cercata sul piano costituzionale: (a) prima di tutto attraverso una revisione dell’art. 94 Cost., che peraltro rimanda appunto a una legge costituzionale (sulla quale il consenso teorico – a leggere dichiarazioni anche impegnative e anche atti parlamentari – ci dovrebbe essere: ma si sa che in realtà le cose non stanno così); (b) in alternativa – in attesa di una riforma futura, e questa è una proposta che si potrebbe fare, attraverso una convenzione costituzionale la quale riconosca di fatto che, così come nell’Italia statutaria, il Senato non fa crisi: in altre parole le forze politiche principali dovrebbero impegnarsi a non far valere la responsabilità fiduciaria del governo in carica al Senato, per nessun motivo, in nessuna circostanza; la scelta di governo sarebbe rimessa concordemente al solo voto per la Camera (la cui maggior rappresentatività è del resto un dato di fatto). Il problema sarebbe rimosso e il Senato potrebbe essere eletto – ragionevolmente – con formula che esalti il rapporto territoriale con le Regioni e in quel contesto anche con formula proporzionale (pur non dovendosi sottovalutare il rischio di tornare per questo tramite a dar alimento alla frammentazione). Rimarrebbe aperto, inevitabilmente, il problema – segnalato in più occasioni da Barbera – di come il governo potrebbe conseguire l’attuazione del proprio programma al Senato. Ma tutto non si può avere (e la soluzione di problemi del genere va rimessa ad eventuali revisioni costituzionali).

XVIII. Considero l’ultima frase (“tutto non si può avere”), in realtà, premessa ineludibile di qualsiasi ragionamento serio: uno dei difetti della legislazione elettorale italiana ed anche di altra legislazione, è l’insopprimibile tendenza a perseguire ventisette obiettivi diversi contemporaneamente (stupendosi poi se non se ne consegue alcuno). Occorre avere nitida la consapevolezza che la prima cosa da fare, seguendo lo schema che mi sono permesso di suggerire, è fissare un preciso ordine di limitate priorità. Io ho detto con franchezza quali sono le mie (vedi VI). Qualsiasi modifica che non le rispetti non mi vedrà favorevole.


Rispetto ad un’altra iniziativa pro riforma elettorale (a firma Onida, Sartori, Bassanini, Passigli), la quale anche di altro si occupa a partire da quale sarebbe la corretta interpretazione della Costituzione in tema di forma di governo, c’è da dire che essa riprende e torna ad alimentare un equivoco clamoroso: che sistema proporzionale di modello tedesco e sistema uninominale maggioritario a doppio turno di modello francese siano (nel contesto italiano, ovviamente: l’unica cosa che interessa) ugualmente funzionali a una democrazia dell’alternanza. Non è così (v. dopo).

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