L’INTERVENTO DI GIORGIO TONINI NEL DIBATTITO SULLA FIDUCIA AL GOVERNO

L’ITALIA NON SI SALVERÀ SENZA UNA NUOVA STAGIONE DI RIFORME PROFONDE E CORAGGIOSE CHE SANINO LE QUATTRO FRATTURE CHE MINACCIANO LA TENUTA DELLA NOSTRA NAZIONE: LA FRATTURA TERRITORIALE NORD-SUD, QUELLA GENERAZIONALE, LA FRATTURA NEL MONDO DEL LAVORO TRA PUBBLICO E PRIVATO, LA FRATTURA DELLA CITTADINANZA TRA ITALIANI STORICI E LAVORATORI IMMIGRATI

Intervento di Giorgio Tonini svolto al Senato, nella seduta del 30 settembre 2010, nel corso del dibattito sulla fiducia al Governo Berlusconi

Signor Presidente, Signor Presidente del Consiglio, Colleghi Senatori,

prima di svolgere il mio intervento, mi consenta – come lei amava dire un tempo – di rivolgerle non un invito, ma una preghiera accorata. Per favore, Presidente del Consiglio, prenda nettamente le distanze dalle parole che ha pronunciato in quest’Aula il senatore Ciarrapico.

Magari, con un volo di Stato, per non perdere tempo, lo porti a Yad Vashem a vedere che cosa è successo e che cosa è stato fatto – so che lei è sensibile su questo punto, per questo lo dico – a quelli che portavano la kippah. Ci sono parole che devono restare indicibili nell’Aula del Senato della Repubblica e sono certo che lei converrà con noi su questo.

Presidente Berlusconi, mi perdoni la franchezza, ma lei ha pronunciato stamani in quest’Aula parole nelle quali non sembra credere nemmeno lei. Mentre elencava i meriti del Governo, le grandi riforme da fare e addirittura la stagione costituente da aprire, i suoi toni e i suoi sguardi leggevano un altro discorso che è cominciato con una celebrata massima del nostro collega, senatore a vita Giulio Andreotti, «meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Meglio tirare avanti ancora un po’ (intanto qualche mese, poi vedremo), piuttosto che affrontare subito il severo giudizio degli elettori.

Un discorso che si è concluso con un sospiro nel quale mi è parso di udire un verso di Ugo Foscolo: «Questo di tanta speme oggi mi resta».

Ho portato in Parlamento la più grande maggioranza della storia repubblicana – mi è parso di sentirle dire – e a metà legislatura mi sono ridotto a navigare a vista come un qualunque governo balneare della prima Repubblica.

Oltre che con i toni e con gli sguardi, lo ha ammesso con le sue stesse parole, signor Presidente del Consiglio. Lei ha difeso – come era ovvio e giusto dal suo punto di vista – la contabilità, a suo dire, positiva della gestione delle emergenze che hanno colpito il Paese, a cominciare da quella finanziaria, economica e occupazionale.

Per lei, presidente Berlusconi, le luci prevalgono sulle ombre. La nostra valutazione è diversa, come hanno spiegato, con ricchezza di argomenti, i colleghi democratici che mi hanno preceduto, a cominciare dal senatore Giaretta.

Ma non è questa contabilità algebrica di più e di meno sulla ordinaria amministrazione e diciamo pure sulla gestione delle emergenze, il cuore del problema che sta dinanzi al Paese e al suo Governo.

Il cuore del problema, come lei sa bene, è che l’Italia ha bisogno di riforme profonde e coraggiose, che la mettano in grado di competere in un mondo che si è fatto globale e nel quale i nuovi rapporti di forza stanno dando vita a nuovi equilibri.

Senza riforme che aggrediscano i nodi di fondo del Paese – il debito troppo alto, sintomo di una spesa pubblica inefficiente, la crescita troppo lenta, effetto di una troppo bassa produttività del lavoro e del sistema, la disuguaglianza troppo grande, a livelli ormai inaccettabili, che produce un’indicibile sofferenza sociale e depressione economica – senza riforme che affrontino in modo determinato questi problemi, l’Italia sta perdendo ed è destinata a perdere ancora di più posizioni nella graduatoria mondiale del reddito e del benessere.

Di più: l’Italia è destinata a vedere allargarsi in modo preoccupante le quattro grandi crepe che stanno minacciando la tenuta della nostra casa comune, della nostra patria, della nostra nazione: la frattura territoriale Nord-Sud (continuano a nascere partiti del Nord e partiti del Sud), la frattura generazionale, la frattura nel mondo del lavoro e tra pubblico e privato, la frattura della cittadinanza tra italiani storici e lavoratori immigrati. Nella nostra Costituzione lavoratori e cittadini sono sinonimi; nella realtà, però, non è più così perché vi sono lavoratori che non sono cittadini.

Lei sa, signor Presidente del Consiglio, come e più di me che l’Italia non si salverà senza una nuova stagione di riforma profonde e coraggiose.

Il problema è che a metà della legislatura e al termine di un decennio che l’ha vista guidare il Paese per otto anni su dieci, lei si presenta in Parlamento parlando di riforme al futuro: lei non dice che avete fatto, ma dice che farete il federalismo, farete la riforma fiscale, farete la riforma della giustizia, farete le infrastrutture che servono al Paese, farete le politiche che servono al rilancio del Mezzogiorno.

Lei sa che non è vero: non siete stati in grado di fare le riforme quando eravate forti e uniti; ancor meno sarete in grado di farle oggi che siete deboli e divisi. Lo sa lei, lo sappiamo noi e lo sa tutto il Paese!

La spiegazione di questo fallimento l’ha offerta lei stesso, nel suo discorso di ieri alla Camera dei deputati, quando ha ricordato le parole di Calamandrei con le quali l’onorevole Veltroni le aveva proposto un confronto trasparente e costruttivo in Parlamento, tra maggioranza ed opposizione, nella rigorosa distinzione dei ruoli, ma nella comune responsabilità di fronte all’Italia e agli italiani. In quest’Aula il collega Enrico Morando aveva pronunciato parole analoghe.

Oggi lei rimpiange (come emerge chiaramente dalle sue parole) l’occasione perduta di dare un assetto stabile e maturo al bipolarismo politico italiano, premessa per qualunque vera stagione di riforme. In questi anni lei ha scelto di seguire un’altra strada, quella dello scontro e della divisione faziosa: ha diviso il Parlamento, le istituzioni, le forze sociali, il Paese e ha finito per dividere il suo stesso partito, indebolendo così – come lei stesso ha ammesso – la sua stessa coalizione ed il suo stesso Governo.

Nel frattempo le riforme sono evaporate e anche gli elettori hanno cominciato a voltarle le spalle.

Questo di tanta speme oggi le resta. In un fugace passaggio del suo discorso lei ha accennato alla tentazione di abbandonare. Lo faccia, presidente Berlusconi.

Non per noi, ma per la maggioranza degli italiani, due anni fa lei era la soluzione. Oggi è il principale problema. Ne prenda atto. Il Parlamento e gli elettori sapranno trovare la soluzione.

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