CHE COSA PENSA IL PD SU MARCHIONNE E LE RELAZIONI INDUSTRIALI

RISPONDO ALLA DOMANDA DI UN LETTORE: “QUANTE BANALITA’ DOVREMO ANCORA ASCOLTARE DAL VERTICE DEL PD, PRIMA DI SENTIRE UNA SUA PRESA DI POSIZIONE SERIA E INCISIVA SUL COME RISPONDERE ALLA SFIDA DI MARCHIONNE E IL CHE FARE PER IL FUTURO DELLE RELAZIONI SINDACALI NEL NOSTRO PAESE?”

Messaggio pervenuto il 29 ottobre 2010  – Segue una mia dettagliata risposta

Caro senatore,
ho seguito attentamente e molto apprezzato i tuoi interventi sulla vicenda Marchionne-Federmeccanica-Fiom. Ho apprezzato assai meno le posizioni prese in proposito dal vertice del Pd: dopo l’uscita iniziale di Enrico Letta, secondo cui “l’accordo di Pomigliano va bene, ma solo in via eccezionale”, imbarazzante nella sua vacuità; poi ho sentito il capogruppo della Commissione lavoro della Camera Cesare Damiano commentare l’accordo Federmeccanica limitandosi a lamentare che sia stato sottoscritto senza la Cgil e ad auspicare, anima candida, l’unità sindacale; infine ho sentito, nello stesso giorno, Dario Franceschini dire che dobbiamo raccogliere la sfida di Marchionne, e Pierluigi Bersani dire che “Marchionne pensa a una Fiat cinese, mentre noi dobbiamo pensare a una Fiat europea”: e chi dovrebbe dirigerla, secondo lui, questa Fiat europea? Quante banalità di questo genere dovremo ascoltare ancora, prima di sentire dal vertice del Pd una presa di posizione seria e incisiva sul che fare per il futuro delle relazioni sindacali nel nostro paese? Non è una domanda retorica: te lo chiedo davvero.
Spero di poterti salutare presto di persona. Quando vieni di nuovo nel nord-est dalle nostre parti?
P. B. (sindacalista Cisl)

 

È vero: il Pd non ha saputo prendere subito le distanze dall’accusa di violazione della legge mossa – infondatamente, a mio avviso ‑ dalla Fiom contro l’accordo di Pomigliano e si è barcamenato per evitare, nello stesso tempo, di sconfessare la Cgil e di sconfessare la Cisl e la Uil. Mi sembra, però, che ai vertici del partito sia maturata la consapevolezza deIl’impossibilità di dare una risposta positiva alle questioni poste da Marchionne senza idee chiare sul riassetto necessario del sistema delle relazioni industriali. I nuovi responsabili nazionali del Pd per il lavoro e per l’economia, Emilio Gabaglio e Stefano Fassina, hanno attivato un seminario, cui partecipano alcuni parlamentari delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato (Pierpaolo Baretta, Cesare Damiano, Rita Ghedini, Paolo Nerozzi, Achille Passoni, Giorgio Roilo, Tiziano Treu e io stesso), che si riunisce da qualche settimana tutti i martedì mattina per discutere e mettere a punto alcune scelte politiche precise per favorire l’evoluzione necessaria del sistema italiano delle relazioni industriali.
   C’è pieno accordo tra tutti i partecipanti a questi incontri sul punto che
a) è necessario favorire in tutti i modi un accordo interconfederale sui criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati e sulle competenze negoziali proprie della coalizione sindacale maggioritaria; b) qualora questo accordo tardi ad arrivare, è comunque necessario un intervento legislativo su questa materia che consenta di superare la situazione attuale, nella quale, per difetto di una cornice di regole di democrazia sindacale, laddove si verifichi un dissenso insanabile tra le confederazioni maggiori, questo determina una situazione di paralisi. Per questa seconda ipotesi (necessità di un intervento legislativo in via sussidiaria), tuttavia, il seminario non ha ancora prodotto un’opzione tra due soluzioni che si fronteggiano, per quel che riguarda la struttura della contrattazione collettiva:
   ‑ una prima soluzione possibile è quella che ho sostenuto nel libro
A che cosa serve il sindacato e che ho trasfuso nel disegno di legge n. 1872/2009, secondo la quale i contratti collettivi nazionali possono anche conservare per intero i propri contenuti attuali, ma assumono una funzione di benchmark e “di default”, cioè di disciplina che si applica soltanto in assenza di disposizioni diverse sulla stessa materia negoziate da una coalizione sindacale maggioritaria a un livello più prossimo al luogo di svolgimento dei rapporti di lavoro: per esempio, al livello regionale o a quello aziendale;
   ‑ una seconda soluzione possibile è quella sostenuta da Paolo Nerozzi e Tiziano Treu, secondo la quale i contratti collettivi nazionali conservano la propria inderogabilità in sede di contrattazione collettiva decentrata, ma sono destinati a ridursi:
a) di numero rispetto ai 400 attuali, riferendosi d’ora in poi non più a settori merceologici specifici, ma a una decina di grandi comparti (industria, terziario, banche e assicurazioni, trasporti, energia e servizi municipali, agricoltura, spettacolo e pochi altri); b) di contenuto, limitandosi d’ora in poi a fissare soltanto i minimi retributivi e alcuni altri standard normativi essenziali, essendo per il resto la disciplina dei rapporti di lavoro affidata alla contrattazione decentrata.
   Allo stato attuale del dibattito, la mia perplessità (condivisa da Stefano Fassina) su questa seconda soluzione nasce dalla constatazione che la contrattazione aziendale, nel settore privato, copre non più di metà della forza-lavoro italiana: la riduzione del numero dei contratti collettivi nazionali, che comporterebbe un livellamento dei minimi retributivi verso il basso, e la riduzione del novero delle materie disciplinate produrrebbe il risultato di un abbassamento complessivo degli standard inderogabili di trattamento per tutta la parte della forza-lavoro non coperta dalla contrattazione decentrata.
   A me sembra, comunque, che la scelta eventuale della seconda soluzione debba essere riservata in via esclusiva alla contrattazione collettiva: la legge non può certo, neppure in via sussidiaria, costringere le parti sociali a ridurre il contenuto dei contratti collettivi nazionali. E, per altro verso, mi sembra che possano essere soltanto le stesse parti sociali, in sede di contrattazione interconfederale, ad autoimporsi eventuali limiti alla derogabilità del contratto nazionale in sede di contrattazione aziendale. La legge, a mio modo di vedere, può e deve soltanto stabilire una cornice di regole essenziali di democrazia sindacale (rinvio ancora in proposito, come modello possibile, al d.d.l. n. 1872/2009), indispensabili per garantire la normale dialettica tra visioni e strategie diverse in un regime di pluralismo sindacale, senza entrare nel merito di quella eventuale scelta di autolimitazione. (p.i.)

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