QUELL’INIZIATIVA CHE MANCA AL PD

Editoriale di Franchi Paolo pubblicato sul Corriere della Sera del 25 novembre 2010. In proposito leggi anche il mio editoriale Una grande coalizione senza Berlusconi, per le riforme più difficili e urgenti del 1° novembre 2010 e l’intervista a Massimo D’Alema, pubblicata su la Repubblica del 24 novembre 2010

La Seconda Repubblica non si è dotata in quindici anni e passa di un lessico politico decente. E così per descriverne le convulsioni tocca ricorrere a formule che ci sembravano viete, e quindi maneggiavamo con ironia, già ai tempi della Prima. Dunque. Quando finirà il gioco del cerino, il rischio (molto concreto) è che si apra una crisi al buio. Per tanti motivi, ma soprattutto perché nessun partito di qualche peso è in grado di indicare uno sbocco nello stesso tempo dignitoso e realistico all’esaurimento del ciclo politico berlusconiano e (forse) di un bipolarismo all’italiana che, sin dai suoi primi passi, di Silvio Berlusconi ha portato le stimmate. Peccato che la situazione proprio non lo consenta. Avanti non si va, indietro non si torna? A cincischiare, basta uno sguardo a quel che va capitando in Europa, non si naviga a vista: si affoga. Restiamo pure alle cronache. Domenica scorsa, davanti all’assemblea nazionale del-1’Udc, Pier Ferdinando Casini ha ventilato la possibilità di un armistizio, cioè di un governo dotato di un nuovo programma e sorretto, grazie all’apporto di qualche transfuga, da una maggioranza più vasta di quella che c’era e (forse) è venuta meno. Il fiero no della Lega, e adesso pure di Silvio Berlusconi, Casini con ogni probabilità se li aspettava: in ogni caso aveva provveduto lui stesso a stimolarli, contestando l’egemonia leghista sull’attuale governo e confermando che di Berlusconi non si fida. Difficile dire se si aspettasse anche una reazione così nervosa della segreteria del Pd, che non gli ha chiesto chiarimenti, ma gli ha quasi intimato di decidere una volta per tutte se vuole fungere da comparsa in uno spettacolo che si avvia mestamente alla fine o partecipare da protagonista al cambiamento. E certo, però, che quella reazione spropositata ha colpito chi continua a pensare, magari ingenuamente, che alla principale forza di opposizione, seppure in difficoltà, spetti comunque il compito di indicare con qualche chiarezza verso quale sbocco politico intende indirizzare una crisi potenzialmente così pericolosa. Specie se, come nel nostro caso, per tanti motivi (ivi compreso, immaginiamo, il senso di responsabilità) non vuole e nemmeno può affidare a elezioni anticipate a breve scadenza la speranza di rimetterla in gioco. Si capisce bene che l’idea di un Berlusconi bis, comunque apparecchiato, faccia drizzare i capelli in testa al Pd, alle cui orecchie il solo evocarla, ancorché vagamente, suona come la premessa di un cedimento: ma, se il problema era questo, bastava chiedere a Casini di essere più chiaro sull’argomento. Si capisce meno, invece, uscendo dalle miserie delle schermaglie quotidiane, perché non sia proprio il Pd ad avanzare in prima persona alle forze politiche (a tutte le forze politiche, ivi comprese, ci mancherebbe, quelle che le elezioni del 2008 le hanno vinte) la proposta di un governo di responsabilità democratica e di unità nazionale per mettere in sicurezza il Paese di fronte ai pericoli (economici, finanziari, sociali e civili) che lo minacciano così pesantemente. E ad avanzarla non a mezza bocca in qualche intervista, ma con tutta la solennità del caso. Berlusconi e Umberto Bossi risponderebbero di no, gridando al tentato inciucio? Probabilissimo, anzi, siamo onesti, pressoché certo. Però si dovrebbero assumere per intero l’onere del loro rifiuto. In ogni caso, gli interlocutori politici, probabilmente un’opinione pubblica sempre più preoccupata e domani, nel caso, gli elettori troverebbero una simile indicazione più netta, più comprensibile e meno strumentale di tanti chiacchiericci sul governi «tecnici» (che non esistono) e di scopo, sulla riproposizione di un governo «alla Ciampb , sui comitati di liberazione dal berlusconismo, sulla vocazione maggioritaria del Pd o, all’opposto, sulle alleanze prossime venture con un Terzo Polo (forse) in gestazione. Le obiezioni sono note, le reazioni prevedibili. Mezzo Pd salterebbe su a gridare che questa è roba da Prima Repubblica, una ridicola riedizione del Pci anni ‘7o che darebbe un colpo mortale al bipolarismo. Antonio Di Pietro, Beppe Grillo e compagnia (una compagnia vasta e combattiva, non c’è dubbio) strillerebbero al tradimento. Buona parte della sinistra-sinistra insorgerebbe perché così si smarrirebbe definitivamente un’identità che, tutto al contrario, andrebbe ricostruita. Non tutte queste contestazioni sono prive di fondamento, e soprattutto la loro presa è notevole. Certo è anche per questo che il gruppo dirigente del Pd (lo stesso, curiosamente, che viene criticato perché irrimediabilmente prigioniero del passato) fatica tanto a mettere a fuoco una proposta che il vecchio Pci, non solo Giorgio Amendola, avrebbe già avanzato da un pezzo. Ma, se si indica una prospettiva politica, si dà battaglia in primo luogo tra la propria gente per affermarla. Sempre, naturalmente, che se ne sia convinti. E che davvero si sia un partito. Perché le grandi coalizioni, proprio come le alternative di governo, le fanno i partiti. Anzi: i grandi partiti.

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