I TEST DI ITALIANO PER GLI IMMIGRATI: PIU’ BARRIERA CHE INTEGRAZIONE

IL PROVVEDIMENTO CHE DISPONE QUESTO OBBLIGO, PUR ISPIRATO DA UN INTENDIMENTO POSITIVO DI PROMOZIONE DELL’INTEGRAZIONE DEGLI STRANIERI, RISCHIA DI ESSERE SOLTANTO UNA ULTERIORE BARRIERA CONTRO I NUOVI ACCESSI, INTRODUCENDO SOLO AGGRAVI BUROCRATICI E NON BENEFICI REALI

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa il 10 dicembre 2010

Da ieri gli stranieri che vorranno ottenere un permesso di soggiorno di lungo periodo dovranno svolgere un test che verifichi la conoscenza della lingua italiana.
I sostenitori del provvedimento affermano che l’obiettivo è quello di garantire le condizioni minime per un’effettiva integrazione nel Paese, altri invece ritengono che si tratti solo di una scusa per alzare le barriere all’entrata in un Paese già abbastanza ostile agli stranieri, reclamando quantomeno maggiori risorse per consentire a questi stranieri di imparare effettivamente la lingua (il Pd ha chiesto 30 milioni).
In effetti la questione dell’integrazione – e non solo della mera accoglienza – è divenuta di rilievo in molti Paesi europei negli ultimi anni, e la capacità di esprimersi nella lingua locale è certamente uno strumento importante di integrazione. Ancora oggi negli Stati Uniti ci sono comunità di vecchi emigranti italiani arrivati quaranta o cinquanta anni fa per lavorare nelle miniere o nelle acciaierie che stentano con l’inglese, e vivono barricati nelle loro comunità biascicando dialetti incomprensibili. Forse (im)memori o timorosi di queste esperienze, oggi si cerca di evitarle imponendo per legge la conoscenza della lingua locale.
Ma al di là del principio ispiratore, in larga parte di buon senso, è davvero necessario, oggi, questo provvedimento? E cosa cambierà realmente nella pratica? Tutti gli stranieri che vorranno far domanda di permesso di soggiorno di lungo periodo dovranno prima far richiesta al prefetto per esprimere il desiderio di svolgere il test. Dopodiché riceveranno la convocazione per svolgere la prova in uno dei Centri provinciali per l’Istruzione degli adulti. Ciascun centro abilitato, nel frattempo, dovrà sviluppare e condurre il proprio test, secondo le linee guida elaborate dagli organismi attualmente certificati a svolgere test di italiano (sono 4 in tutta Italia), correggerlo e inviare i risultati al Ministero.
Tutta questa trafila di adempimenti burocratici per testare una conoscenza della lingua italiana di “livello A2” secondo i criteri definiti dal Consiglio d’Europa nel 1992 – vale a dire una conoscenza minima, equivalente al sapersi presentare, chiedere o capire un’indicazione se ci si perde per strada, comprare un oggetto o cercare un servizio.
Considerato che ormai gli immigrati che giungono da noi arrivano, per la maggior parte, non tanto per lavorare in miniera ma in occupazioni ad alta interazione interpersonale come badanti, baby sitter, oppure nel commercio, e che oltretutto per richiedere un permesso di lungo periodo devono essere già titolari di un permesso regolare da almeno 5 anni, viene da chiedersi quanti siano, nei fatti, gli stranieri in tali posizioni che non sono in grado di dire come si chiamano o capire un’indicazione stradale. Una badante, un muratore o un commesso non sarebbero in grado di trovare un’occupazione e di sopravvivere se non fossero in grado di capire un’indicazione per recarsi al lavoro o comprare un panino. Non è un caso se l’ultimo rapporto del Censis mostra come l’85% degli stranieri in Italia abbia una conoscenza della lingua italiana almeno sufficiente.
Il dubbio che sorge è che alla fine questo provvedimento, pur ispirato da validi principi e pur avendo un alto valore simbolico – primo tra tutti quello di rassicurare tanti italiani preoccupati di una invasione straniera irrispettosa della cultura locale ed incapace di integrarsi -, finisca tuttavia per scontare i limiti di molti altri provvedimenti simbolici, ovvero quello di introdurre norme che alla fine creano più aggravi burocratici che benefici reali, e soprattutto quello di arrivare a normare questioni di cui il mercato e l’evoluzione delle società già si prendono cura.

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