CIVILTÀ DEL LAVORO: LE PROPOSTE USCITE DALL’ASSEMBLEA DI GENOVA DEL PD

UN CONFRONTO TRA LE MISURE INDICATE ULTIMAMENTE DAL DOCUMENTO CONCLUSIVO DELL’ASSISE DEL PARTITO DEMOCRATICO, PER IL SUPERAMENTO DEL DUALISMO DEL MERCATO DEL LAVORO, E IL PROGETTO FLEXSECURITY

Intervista pubblicata dalla rivista “Civiltà del Lavoro“, organo dell’Associazione dei Cavalieri del lavoro, a cura di Silvia Tartamella, luglio 2011

Lei è stato protagonista della recente Conferenza sul Lavoro organizzata a Genova dal Partito Democratico: quali proposte sono emerse per favorire l’occupazione dei giovani e ridurre il fenomeno del precariato?
L’Assemblea ha approvato un documento articolato in sei punti, di cui uno in particolare dedicato al superamento del dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. Qui le proposte sono due: sviluppo dell’“apprendistato come canale prioritario di accesso al lavoro stabile” e parificazione contributiva tra gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps, cioè i cosiddetti “parasubordinati”, e i lavoratori subordinati regolari. Con alcuni altri io ho presentato all’Assemblea un documento che propone una iniziativa molto più incisiva, una vera e propria profonda riforma del diritto del lavoro. Ma questa è condivisa soltanto da una pur larga minoranza del Pd.

Può delinearci il contenuto di questa proposta?
È sostanzialmente il progetto di un nuovo “Codice del Lavoro semplificato” contenuto nel disegno di legge n. 1873/2009, firmato da 55 senatori del Pd. Quel progetto mostra come il contenuto essenziale della nostra legislazione nazionale su questa materia possa essere espresso – senza alcuna perdita di contenuto, ma anzi con un guadagno di incisività – in poche decine di articoli chiari e semplici, scritti per essere facilmente traducibili in inglese, ma anche per essere distribuiti in milioni di copie a tutti i lavoratori, imprenditori e consulenti, in modo da rendere immediatamente conoscibile il diritto del lavoro da parte di tutti coloro cui esso è destinato: come avvenne nel 1970 con i 40 articoli dello Statuto dei Lavoratori. Questa è una precondizione essenziale per garantire l’universalità ed effettività della disciplina vigente.

Più precisamente, in riferimento alla questione del precariato?
Lo stesso d.d.l. n. 1873 mostra come un codice semplificato così concepito possa dettare una disciplina della stabilità del lavoro e del reddito capace di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro, superando il dualismo attuale fra protetti e non protetti, e anche quello fra dipendenti delle imprese di dimensioni medio-grandi e dipendenti delle più piccole: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine, quali le sostituzioni per malattia o i lavori stagionali), a tutti le protezioni essenziali (in particolare quella contro le discriminazioni), ma nessuno inamovibile. E a tutti, in caso di perdita del posto di lavoro, una forte garanzia di continuità del reddito e di investimento nella loro professionalità, in funzione della più rapida e migliore ricollocazione. È evidente la rottura drastica che una riforma di questo genere può segnare rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti; e dunque il significato che la riforma stessa può assumere sul piano dell’equità sociale, della lotta alla disuguaglianza e della protezione dei più deboli, che oggi nel mercato del lavoro sono soprattutto i più giovani.

Esiste a suo giudizio una relazione tra disoccupazione giovanile e scarsità di investimenti nella ricerca e nell’innovazione?
Certamente sì. Più in generale una relazione tra disoccupazione – giovanile e no – e scarsità di investimenti stranieri nel nostro Paese. L’incapacità dell’Italia di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali fa sì che noi oggi soffriamo dell’aspetto per noi più negativo della globalizzazione, ovvero la concorrenza dei lavoratori dei Paesi emergenti nelle fasce professionali medio-basse, senza godere dell’aspetto potenzialmente più positivo: la possibilità di attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale.

Uno dei problemi dell’Italia è la cosiddetta “fuga dei cervelli”: può essere una soluzione quella di riservare una parte dei finanziamenti pubblici alla ricerca a giovani ricercatori, come ha fatto recentemente il Ministero della Salute riservando a ricercatori sotto i quarant’anni 41 milioni di finanziamenti dei 100 assegnati a progetti di ricerca in campo sanitario?
Francamente, questa è una misura che mi lascia assai perplesso. Innanzitutto perché essa rischia di configurare una violazione del divieto di discriminazione per ragione di età, posto dall’ordinamento europeo nel 2003. In secondo luogo perché ciò che deve preoccuparci non è che i nostri giovani vadano a studiare e fare ricerca all’estero, ma che i giovani degli altri Paesi non vengano a studiare e fare ricerca da noi. Per correggere quest’ultimo difetto mi sembra che la misura adottata dal ministro della Salute non serva affatto.

Alcuni tra i maggiori successi dell’innovazione statunitense, da Google a Facebook, che in pochi anni sono diventate aziende globali, sono delle start up universitarie. Perché in Italia le aziende nate dalla ricerca universitaria faticano ad avere successo? Dipende dall’università che non spinge gli studenti a diventare imprenditori o dalla finanza che non investe adeguatamente sulle idee dei giovani?
In parte questo è dovuto alla qualità mediamente più bassa della nostra ricerca universitaria rispetto a quella degli altri Paesi più avanzati. In parte è dovuto a un tessuto produttivo meno reattivo e meno aperto all’innovazione.

Un altro tema molto attuale è la flessibilità contrattuale, cioè la possibilità che il contratto aziendale si sostituisca in tutto o in parte al contratto nazionale, come è avvenuto in Germania: questa evoluzione potrebbe favorire il lavoro per i giovani?
Non c’è dubbio che una evoluzione in questo senso della struttura della contrattazione collettiva contribuirebbe ad aprire il Paese agli investimenti delle multinazionali, che sovente sono abbinati a piani industriali fortemente innovativi. Quindi contribuirebbe a far aumentare la domanda di manodopera nel nostro mercato del lavoro e a promuovere la crescita dell’intero sistema economico. Occorrerà vedere che cosa uscirà dalla trattativa tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, che è in corso proprio in questi giorni.

Sarà necessario un intervento legislativo su questa materia?
Dipende: se da quella trattativa esce un accordo compiuto, sottoscritto da tutte le confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori, allora può essere che un intervento legislativo non sia necessario. Ma se l’esito non è quello, la soluzione può essere costituita da una legge che ‑ come delineato nel progetto gemello di quello sopra citato, il d.d.l. n. 1872/2009 ‑ ripartisca i rappresentanti sindacali in azienda in proporzione ai consensi ricevuti da ciascuna organizzazione in una consultazione elettorale almeno triennale, salvaguardando il rapporto organico tra il rappresentante e l’associazione esterna; attribuisca alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di stipulare accordi e contratti collettivi con efficacia estesa a tutta la categoria interessata; garantisca all’associazione minoritaria la libertà di non sottoscrivere accordi e contratti, senza per questo perdere il diritto ai propri rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro; consenta al contratto collettivo aziendale stipulato dalla coalizione maggioritaria, o comunque approvato in un referendum dalla maggioranza dei lavoratori interessati, di sostituire in tutto o in parte la disciplina contenuta nel contratto nazionale, secondo il modello tedesco.

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