ROVESCIARE IL PARADIGMA DEL MERCATO DEL LAVORO PER COGLIERE I BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE

I LAVORATORI NON TRARREBBERO VANTAGGIO DA UN NUOVO PROTEZIONISMO DI MARCA UE: I LORO INTERESSI NEL TESSUTO PRODUTTIVO E NEL SISTEMA DEL WELFARE SI PERSEGUONO ATTIRANDO IN CASA NOSTRA IL MEGLIO DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE

Intervento sul mensile Reset in risposta al quesito redazionale se per la difesa del nostro welfare State possa essere utile una chiusura protezionistica dell’Unione Europea verso il resto del mondo, settembre 2011

Propongo di guardare la questione proposta da Reset sotto l’angolo visuale – inconsueto, ma non per questo meno interessante dei vantaggi possibili della globalizzazione per le politiche del lavoro e del welfare: vantaggi tanto più rilevanti quanto meno siamo stati fino a oggi capaci di approfittarne. In quest’ottica, la soluzione proposta di un nuovo protezionismo di marca UE non mi sembra davvero la soluzione migliore per la difesa degli interessi dei lavoratori. E non soltanto per il motivo – comunque non secondario – che gran parte delle prospettive di crescita dell’economia europea dipendono dalla crescita dei paesi emergenti dell’Asia e del Sud America.
Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo meno capace di attirare investimenti stranieri. Secondo il Comitato Investitori Esteri di Confindustria, se il nostro Paese riuscisse ad allinearsi per questo aspetto alla media europea, ne risulterebbe un flusso di investimenti in entrata pari a circa 30-35 miliardi l’anno. Questi investimenti, provenienti in prevalenza dal di fuori dell’area dell’euro, potrebbero portare con sé dai 200.000 ai 300.000 nuovi posti di lavoro ogni anno; e in quei posti un netto aumento della produttività e della retribuzione rispetto alla media italiana. A me sembra evidente che un buon sindacalista dovrebbe, nell’interesse dei propri rappresentati, porsi questo obiettivo come prioritario rispetto a qualsiasi altro. E prima ancora dovrebbe porselo anche il Governo, perché questo allargamento della base produttiva è indispensabile per la riduzione del nostro enorme debito pubblico, per il rafforzamento della posizione dei nostri lavoratori nel mercato del lavoro e per la sostenibilità di qualsiasi sistema di welfare degno di questo nome. È comunque evidente che, in quest’ottica, ciò di cui l’Italia ha bisogno è l’esatto contrario di una chiusura dell’economia europea verso il resto del mondo.
Le cause della cattiva performance del nostro Paese nel mercato globale dei capitali vanno individuate in primo luogo nei difetti delle nostre infrastrutture e delle nostre amministrazioni pubbliche, con le relative conseguenze in termini di burocrazia; inoltre nel costo dell’energia superiore del 30 per cento rispetto ai nostri maggiori partner europei, nel basso livello delle nostre civic attitudes e al sud anche nella criminalità organizzata. Ma ha un peso molto rilevante anche la nostra legislazione del lavoro caotica, ipertrofica e intraducibile in inglese, incapace di rispondere ad alcuni interrogativi fondamentali per qualsiasi operatore straniero che debba scegliere dove dislocare un proprio investimento, come quello circa il severance cost. E ha un peso almeno altrettanto rilevante il nostro sistema delle relazioni sindacali, che gli operatori stranieri considerano vischioso e inconcludente. Questi ultimi due difetti – l’illeggibilità della nostra legislazione del lavoro e il carattere vischioso e inconcludente del nostro sistema sindacale – sono stati per mezzo secolo perfettamente funzionali a un accordo protezionistico tacito, volto proprio a tener fuori dal nostro Paese le grandi imprese straniere concorrenti delle nostre: un accordo tacito che ha visto in molte occasioni la vecchia sinistra politica fare sponda alla vecchia destra; e la maggioranza del nostro movimento sindacale fare sponda alla parte più conservatrice dell’imprenditoria nostrana, maggioritaria anch’essa. Abbiamo visto questo accordo tacito operare per fare solo qualche esempio – nella vendita dell’Alfa Romeo alla Fiat invece che a Ford, nel 1986; nella strenua difesa del monopolio delle Poste e delle Ferrovie di Stato finché è stato possibile; e poi nelle vicende Abn Amro/Antonveneta, Abertis/Autostrade, AT&T/Telecom Italia, Air France-KLM/Alitalia, ultimamente Lactalis/Parmalat.
Ai nostri sindacati non imputo soltanto i singoli casi in cui essi hanno fatto sponda esplicitamente a quella pratica protezionistica dei politici, appoggiati peraltro anche dalla parte più conservatrice di Confindustria. Quello che soprattutto imputo loro è di non aver capito un aspetto fondamentale dell’economia globalizzata. La globalizzazione indebolisce i lavoratori italiani, in modo particolare quelli delle fasce professionali più basse, mettendo i lavoratori di tutto il mondo in diretta concorrenza con loro sul versante dell’offerta di manodopera. Questo indebolimento potrebbe però essere ampiamente compensato da un altro effetto della globalizzazione: la possibilità di mettere in concorrenza, in casa nostra, sul versante della domanda di manodopera, gli imprenditori di tutto il mondo; e soprattutto i migliori tra di essi. È il discorso che fece Tony Blair alle Trade Unions verso la metà degli anni ’90, all’incirca in questi termini: “noi siamo l’uno per cento della popolazione del pianeta; se scegliamo di tener fuori dal nostro territorio gli imprenditori stranieri, il risultato, in tutti i settori in cui non sono i nostri imprenditori a eccellere, sarà quello di privarci degli imprenditori migliori. Sarebbe un errore gravissimo. Al contrario, se sapremo attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale, questo si tradurrà non soltanto nell’afflusso di capitali che porteranno domanda aggiuntiva di lavoro, ma anche in aumento della produttività del lavoro, quindi dei margini di miglioramento dei terms and conditions del lavoro nel Regno Unito”. Lo stesso identico discorso vale, ovviamente, anche per noi. Chiuderci agli investimenti stranieri significa tenerci le conseguenze negative della globalizzazione, senza approfittare delle assai più rilevanti opportunità positive che essa ci offrirebbe: non soltanto in termini di maggior domanda di lavoro, ma anche in termini di miglioramento del contributo imprenditoriale alla valorizzazione del nostro lavoro e di ampliamento dei margini disponibili per la ricostruzione del nostro sistema di welfare.
Dobbiamo dunque cambiare il paradigma con cui guardiamo al mercato del lavoro, rovesciare il concetto e l’immagine che tradizionalmente ce ne siamo fatta: quella di un luogo dove è solo l’imprenditore a selezionare, scegliere e ingaggiare i propri dipendenti. Nell’era della globalizzazione i lavoratori devono imparare a guardare al mercato del lavoro planetario come a un luogo in cui sono anche loro a selezionare, scegliere e ingaggiare i propri imprenditori. Questo della selezione e ingaggio di buoni imprenditori stranieri, soprattutto nel Mezzogiorno, deve diventare un nostro impegno ordinario, a tutto campo. Stiamo tardando troppo ad acquisire questa idea elementarissima: che al di fuori dei settori in cui siamo noi ad avere le imprese eccellenti, gli imprenditori più capaci di valorizzare il nostro lavoro sono stranieri.
Politiche efficaci di attrazione degli investimenti stranieri, soprattutto extra-europei, sono attualmente praticate con successo dalla Svizzera, dove i lavoratori, a parità di mansione, sono pagati il doppio rispetto all’Italia; ma anche dalla Francia, dall’Austria e dalla Baviera, per restare ai nostri vicini di casa, dove pure le retribuzioni sono mediamente più alte che da noi. Dunque il livello delle retribuzioni non è né l’unico dato rilevante, né tanto meno quello decisivo, in questa competizione internazionale. Possono diventarlo, però, la complessità e illeggibilità della legislazione del lavoro, la vischiosità e inconcludenza del sistema delle relazioni industriali. È quanto accade oggi in Italia: il nostro sistema di protezione del lavoro opera di fatto come un diaframma tra domanda e offerta difficile da superare, se non con la fuga nel sommerso. Problema, questo, che non si risolve – come propone il Governo con l’articolo 8 del decreto-legge di Ferragosto contenente la cosiddetta “manovra aggiuntiva” – rendendo l’intero diritto del lavoro, in blocco, derogabile in sede di contrattazione aziendale, bensì semplificando la nostra legislazione del lavoro e allineandola agli standard europei, per altro verso riformando il nostro diritto sindacale, nella direzione in cui ha incominciato a farlo l’accordo interconfederale del 28 giugno: quello dello spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia.
Il potenziamento necessario della contrattazione collettiva non consiste nell’affidarle un ruolo sostitutivo del legislatore, che essa non potrà mai svolgere, ma nel liberarla dal vincolo centralistico che la ha soffocata fin qui. Lo ha già fatto qualche anno fa la Germania, che è stata per decenni la patria del centralismo contrattuale: oggi in Germania il contratto collettivo nazionale può essere sostituito dal contratto aziendale in parte o del tutto. Noi ne avremmo un bisogno ancor maggiore rispetto ai tedeschi, date le disuguaglianze interne più marcate che caratterizzano il nostro Paese. Potenziare la contrattazione aziendale significa “sgabbiarla”, consentendole di aprirsi di più non soltanto ai piani industriali innovativi che possono arrivare da oltr’Alpe od oltremare, ma anche alla cultura delle relazioni industriali dei Paesi che ci circondano. Abbiamo bisogno di un sindacato che sappia operare come l’intelligenza collettiva dei lavoratori, valutando il piano industriale e le soluzioni proposte dall’imprenditore straniero, valutando ovviamente anche l’affidabilità economica, tecnica ed etica di quest’ultimo; e che, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune su quel piano, negoziando a 360 gradi, senza preclusioni, su tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro, dell’inquadramento professionale, degli orari, della struttura delle retribuzioni. E anche sulla tregua sindacale.
Oggi i contratti collettivi nazionali stabiliscono degli standard che se vanno bene per il centro-nord sono troppo alti per il sud, incompatibili con uno start up in quelle regioni; se vanno bene per il sud sono insufficienti per il centro-nord. Ma dal punto di vista dell’afflusso di investimenti stranieri, più ancora dei minimi retributivi contano le disposizioni inderogabili in materia di struttura della retribuzione – cioè di distribuzione fra parte fissa e parte variabile, inquadramento professionale, turni e orari di lavoro: è normale che gli imprenditori stranieri portino con sé modelli organizzativi diversi dai nostri, che sovente sono incompatibili con quello imposto dal contratto nazionale. Il contratto nazionale svolge anche, in qualche misura, la funzione di limitare la concorrenza tra imprenditori: si dormono sonni più tranquilli sapendo che nessun concorrente potrà guadagnare un vantaggio competitivo sperimentando una struttura delle retribuzioni o sistemi di inquadramento diversi rispetto allo standard del settore. Ma questa protezione, essendo rimasta dimensionata entro i confini nazionali, non ha più alcun senso nell’era della globalizzazione.
Non avrebbe più senso, questa protezione, se fosse dimensionata in relazione ai confini dell’Unione Europea. L’innovazione per la maggior parte nasce fuori d’Europa: per questo chiudere i confini dell’UE non ci conviene affatto. È vero che c’è l’innovazione buona e quella cattiva. Però, se per paura di quella cattiva impediamo l’ingresso anche a quella buona, il risultato è la paralisi o comunque il ritardo della nostra crescita, l’indebolimento delle nostre imprese nella competizione internazionale, un trattamento dei nostri lavoratori peggiore di quel che essi possono, invece, ragionevolmente proporsi di ottenere.

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