LA QUESTIONE DELL’IMPIEGO PUBBLICO

I DIPENDENTI DELLE AMMINISTRAZIONI STATALI E LOCALI COSTANO MEDIAMENTE 47.000 EURO L’ANNO PER CIASCUNO, MA HANNO UN RENDIMENTO MEDIO TROPPO BASSO RISPETTO A QUESTO COSTO: LA RIFORMA DEVE PARTIRE DA UN RECUPERO DELLE PREROGATIVE E RESPONSABILITÀ MANAGERIALI DA PARTE DEI DIRIGENTI

Testo integrale dell’intervista a cura di Agostino Riitano, pubblicata dal quotidiano on line L’Indro insieme ad altri interventi sullo stesso argomento, 13 ottobre 2011

Partiamo dai numeri. Quanti sono oggi i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, mettendo insieme quella centrale e quelle locali?
I dipendenti delle amministrazioni pubbliche italiane, nel loro complesso, sono oggi poco più di tre milioni e mezzo. Ma andrebbe aggiunto qualche centinaio di migliaia di collaboratori autonomi continuativi, che sono in realtà dei dipendenti di serie C.

Quanto costano?
Il costo complessivo dei dipendenti delle amministrazioni statali, cioè di quelli che fanno capo ai ministeri, esclusi i collaboratori autonomi veri o finti che siano, è di 91 miliardi, che salgono a 95 se aggiungiamo i dipendenti degli organi costituzionali: Parlamento, Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della Magistratura, Cnel, e alcune altre. Se poi aggiungiamo anche le amministrazioni regionali e locali, il totale del costo del lavoro pubblico italiano ammonta a 172 miliardi. Questo significa che il costo medio per dipendente, calcolato in riferimento a tutte le amministrazioni e comprensivo ovviamente dei contributi, è di circa 47.000 euro.

La Grecia dovrebbe tagliare 30mila statali. Crede che in Italia si arriverà un giorno a una tal misura così draconiana?
Quello che occorre nelle nostre amministrazioni pubbliche è innanzitutto una maggiore mobilità del personale, che consenta di trasferire gli impiegati dagli uffici nei quali sono troppi o comunque poco produttivi a quelli in cui essi mancano o comunque potrebbero essere molto più produttivi. Inoltre occorrerebbe con urgenza che i dirigenti degli uffici pubblici recuperassero le proprie prerogative manageriali, ivi compresa quella di un controllo più stringente sulle prestazioni individuali, che potrebbe portare al licenziamento di alcuni nullafacenti totali. Una frazione molto piccola rispetto al totale, certo, ma la cessazione della loro impunità avrebbe un significato rilevantissimo. La contropartita di questo maggior potere dei dirigenti dovrebbe essere costituita da una loro responsabilità molto più stringente circa gli obiettivi da raggiungere; che significa rimozione del dirigente che non raggiunge gli obiettivi fissati. Naturalmente occorrerebbe che gli obiettivi fossero specifici, misurabili, ripetibili, realistici e collegabili a scadenze temporali precise. Come per lo più oggi non sono. L’articolo 21 del Testo unico consente il licenziamento del dirigente per mancato raggiungimento degli obiettivi: perché questo non accade mai? Forse abbiamo un esercito di dirigenti pubblici tutti bravissimi e amministrazioni caratterizzate da efficienza smagliante?

C’è una furia ideologica contro gli statali o, in effetti, rappresentano parte del problema?
L’errore grave, nel quale è caduto anche il ministro Brunetta, è prendersela indiscriminatamente con un’intera categoria. Occorre invece imparare a valutare e distinguere, istituendo gli incentivi giusti ed efficaci tanto per i dirigenti quanto per chi lavora alle loro dipendenze. È proprio il terreno sul quale la riforma Brunetta si è cimentata ed è fallita, per i suoi difetti di impostazione iniziale e per gli errori gravissimi commessi dal ministro in fase di attuazione. La produttività dei dipendenti pubblici è mediamente troppo bassa; ma questo è, appunto, un dato medio. Finché non impareremo a distinguere tra quelli che tirano la carretta e quelli che scaldano la sedia, ammesso che sulla sedia ci stiano fisicamente, faremo soltanto del gran polverone e non risolveremo il problema. Anzi, semmai lo aggraveremo.

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