IL DOVERE DI NON ESSERE FAZIOSI

Intervento di Pietro Ichino
nel quinto anniversario della morte di Marco Biagi
Bologna, 19 marzo 2007

Non so perché i promotori di questo nostro incontro abbiano scelto di affidare a me il compito di ricordare qui Marco Biagi: non ho infatti alcun titolo per farlo (so perché ho accettato di farlo, ma è un altro discorso, su cui tornerò fra breve).
Non mi dà certo titolo per assumere questo compito un legame che è nato tra me e lui nella seconda metà degli anni ’90: troppo tardi, visto il poco tempo che i suoi persecutori gli avrebbero lasciato ancora da vivere. Abbiamo incominciato a collaborare con una certa continuità nel 1996, quando ci trovammo entrambi a dirigere una rivista giuslavoristica: lui “Diritto delle relazioni industriali”, io la “Rivista italiana di diritto del lavoro”. Poiché avevamo idee molto simili sulla linea editoriale da tenere, avviammo una cooperazione tra le due riviste e incominciammo anche a studiare una possibile fusione fra di esse. Poco dopo, ciascuno dei due venne cooptato nel comitato scientifico della rivista dell’altro. Poi, col primo numero del 2002 della “Rivista italiana” ebbe inizio una rubrica tenuta da Marco, dedicata al diritto comunitario, che poté uscire solo in quello e nel numero successivo. Nel 1999 avevo avviato il Master Europeo in Scienze del Lavoro dell’Università di Milano e avevo chiesto a Marco di svolgere l’insegnamento del diritto comunitario del lavoro; lui accettò e tenne poi quell’insegnamento nei tre anni successivi.
Tentai di sottrargli il primo dei suoi assistenti, chiamando a Milano Michele Tiraboschi, che entrambi apprezzavamo molto; ma lui se lo tenne stretto a Modena.
Tra le cose che ci accomunavano c’era anche l’impegno giornalistico: in quegli anni lui collaborava con “Il Sole – 24 Ore”, io con il “Corriere della Sera”; e qualche volta ci scambiavamo le prime versioni degli articoli che scrivevamo, ne discutevamo prima di licenziarli per la stampa. Ricordo una volta che lui mi inviò per posta elettronica la bozza di un suo articolo, di commento a una notizia che era apparsa quel giorno; io gli risposi a ruota inviandogli l’articolo che avevo appena scritto per il “Corriere”, dove scrivevo all’incirca le stesse cose. La pensavamo davvero in modo molto simile.
Era molto simile anche il modo in cui ci proponevamo di vivere la nostra fede cristiana, il modo laico in cui cercavamo di coniugarla con il nostro impegno politico.
Ci accomunava, infine – si licet parva… – il modo in cui amavamo e praticavamo entrambi la bicicletta: ci eravamo riproposti di trovare l’occasione per fare, una volta, una gita insieme sull’Appennino; ma non ce ne è stato dato il tempo.

Tutto qui: davvero troppo poco per legittimarmi a ricordare Marco davanti a persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo molto più e meglio di me, di stargli vicine molto più a lungo. Ma se è davvero breve il cammino che ho potuto fare con lui, a cavallo del passaggio del millennio, posso dire che l’intreccio tra la mia vita e la sua si è straordinariamente intensificato dal momento della sua morte.
Quella tragica sera del 19 marzo di cinque anni fa ebbi subito la percezione – poi confermatami dal fatto che due giorni dopo ero già stato messo sotto scorta che se Marco fosse stato protetto, come sarebbe stato doveroso proteggerlo, avrei potuto essere io il bersaglio dei terroristi; che comunque le pallottole degli assassini erano destinate a tutti e due; che morendo, in un certo senso, lui aveva consentito di vivere a me. Fu, dunque, come sentire che tra lui e me ci fosse stata una sorta di passaggio del testimone, che fosse mio compito proseguire la sua battaglia; e restituirgli, attraverso la mia, la vita che a lui era stata tolta, almeno per quel poco che era ed è nelle mie possibilità.
Qualcuno ogni tanto mi chiede: “ma perché ti esponi tanto, affidando le tue idee al tritacarne mediatico che le semplifica, le banalizza, talvolta le distorce? Perché lasci che la tua immagine divenga bersaglio di contumelie da ogni parte? Perché rinunci alla vita serena dello studioso, dal momento che non hai ambizioni politiche di sorta?” A queste domande oggi rispondo: prima e più di me lo ha fatto Marco, che è arrivato a sacrificare la sua vita per questa battaglia. A me è stato dato in sorte di sopravvivergli; ma proprio per questo la mia vita non è soltanto mia: è per una parte importante dedicata a lui, a quella sua battaglia.

Proseguire la sua battaglia, io che avversavo il Governo con cui lui collaborava?
Sì; perché la parte essenziale di quella battaglia non stava in questo o quell’orientamento di politica del lavoro, ma nella rivendicazione di un metodo nuovo per l’impostazione stessa del dibattito di politica del lavoro, quale che fosse il colore del Governo in carica:

  • sul piano dell’elaborazione programmatica, il metodo della massima valorizzazione dei risultati degli studi empirici economici e sociologici, della comparazione internazionale;
  • sul piano operativo, quello che lui chiamava il metodo del try and go, il metodo della sperimentazione pragmatica in tutte le direzioni plausibili, senza tabù e senza scelte dettate dal partito preso.

Del resto, quante volte con Marco ci eravamo detti che le tecniche di protezione del lavoro non sono, in sé, né “di sinistra” né di “destra”, perché la loro valenza effettiva, la loro capacità di proteggere efficacemente chi ne ha necessità, dipende dal contesto in cui vengono applicate; perché misure nate per la protezione dei più deboli possono in un nuovo contesto ritorcersi contro di loro, trasformarsi in fattori di esclusione da un lato, in protezione di posizioni di rendita dall’altro. Perché, infine, sul terreno della politica del lavoro la contrapposizione tradizionale fra destra e sinistra ha sempre meno senso, le linee di demarcazione tra i veri interessi in gioco sono profondamente cambiate rispetto agli schemi prevalenti del secolo scorso e del XIX.

So dunque perché, nonostante che io non ne abbia alcun titolo, ho accettato tuttavia di intervenire qui stasera per parlare di lui con voi.
Della vita di Marco, del valore del suo contributo alla nostra cultura giuslavoristica, della sua spinta all’apertura di questa nostra cultura alla comparazione internazionale e alla contaminazione con le altre scienze sociali, è stato già detto e scritto tutto. Io non potrei proprio aggiungere nulla. Posso solo dire di quello che mi ha legato a Marco in quegli ultimi anni della sua vita e, di ciò che dopo la sua morte mi ha fatto percepire quasi un debito verso di lui: quello di difendere la sua opera, il frutto del suo impegno, ciò per cui ha ritenuto che valesse la pena di mettere a rischio la sua vita.
È stato impegno etico, il suo, prima ancora che impegno intellettuale, culturale e politico. Ricordo uno dei nostri martedì in cui, consumando, come sovente facevamo, il panino meridiano al bar davanti all’Università, prima della sua lezione al Master, Marco proruppe in un vero e proprio grido di indignazione contro il nostro establishment politico-accademico, incapace di scuotersi e di reagire di fronte alle macroscopiche disfunzioni e ingiustizie causate o consentite dal nostro ordinamento del lavoro o dal nostro sistema delle relazioni sindacali: assurdità che emergono con grande evidenza dalla comparazione con gli altri sistemi, ma alle quali molti dei nostri studiosi, politici e sindacalisti si sono per lo più acconciati e assuefatti. Essi non vogliono aprire gli occhi su di esse perché questo li costringerebbe a mettere in discussione mezzo secolo di politiche del lavoro. Forse è stata proprio la riluttanza ad aprire gli occhi su quelle gravissime inefficienze e ingiustizie del nostro sistema, che Marco metteva in evidenza soprattutto attraverso il confronto con i sistemi dei nostri partner europei più evoluti, a indurre quello stesso establishment a stendere intorno a lui una sorta di cordone sanitario politico-culturale: un “cordone sanitario” di cui fu Marco a parlarmi con sofferenza, negli ultimi tempi.
È stato ancora un impegno etico, prima ancora che politico-intellettuale, a spingerlo a mettersi in gioco fino in fondo per uscire dall’autoreferenzialità dei nostri dibattiti accademici, affiancando l’impegno giornalistico a quello dello studio e dell’insegnamento; ma soprattutto accettando di sporcarsi le mani nel ruolo del tecnico al servizio della politica.
Nella primavera del 2001 mi propose di impegnarmi anch’io, con lui, in quel ruolo; allora non accolsi il suo invito, ma gli promisi che, da studioso e opinionista, avrei fatto tutto quanto avrei potuto per rompere il “cordone sanitario” che era già ben percepibile intorno a lui, per stimolare e alimentare un confronto non fazioso sulle sue iniziative. Allora non immaginavo quanto più ferocemente fazioso sarebbe diventato invece il confronto nei mesi e anni successivi!

La faziosità non necessita della mala fede, anche se a questa sovente si accompagna: la faziosità è essenzialmente figlia della paura. Così come, di fronte a un nemico alieno col quale non c’è modo di comunicare, la paura ci spinge a cercare soltanto di sparargli per primi, allo stesso modo, di fronte a ragionamenti che sconvolgono il nostro modo di pensare schemi concettuali nuovi e procedimenti complessi che spiazzano il nostro catechismo semplificatore proviamo la tentazione di squalificare preventivamente chi li propone per chiudere il dibattito prima ancora che esso si apra. È la tecnica del tabù, del “cordone sanitario”, contro la quale non c’è ragionamento efficace.
Per superare quella barriera, le argomentazioni raffinate servono poco o nulla: l’arma più efficace è una testimonianza di disinteresse personale e di spirito di servizio – e di sacrificio che induca gli interlocutori a comprendere intuitivamente la necessità del confronto. È questa la testimonianza che Marco ha dato al massimo grado.

Tanto forte è stata questa sua testimonianza – spinta fino al punto di mettere consapevolmente a rischio la vita anche quando ogni difesa gli era stata tolta , che, dopo la sua morte, squalificare la sua persona non è più stato possibile. È stato qui che si è assistito a un capitolo nuovo nella fenomenologia della faziosità: dal momento che non era più possibile squalificare lui, si è tentato di separare da lui la sua opera, negando che fosse opera sua. Quante volte, e da quanti esponenti anche eminenti dell’establishment politico e accademico, abbiamo sentito dire in questi anni: “Marco Biagi era persona troppo intelligente, colta e per bene per poter scrivere quella legge”! E quanti, pur senza pronunciare questa frase – che oltraggiosamente implica la squalifica totale di quella riforma sul piano dell’intelligenza, della cultura e dell’onestà morale , ancora oggi tentano sostanzialmente proprio questa operazione, rifiutando di chiamare col suo nome la legge che lui ha scritto di suo pugno (la chiamano “legge 30”), per paura che l’ammirazione o anche solo il rispetto suscitati dalla sua straordinaria testimonianza possano indurre la gente a guardare senza pregiudizi ai contenuti e agli effetti di quanto lui ha elaborato e proposto!

Ma il tempo è galantuomo; e i fatti si sono incaricati di mostrare quanto le accuse mosse a quella riforma fossero frutto di preconcetti, di un rifiuto aprioristico: oggi tutti sono costretti a riconoscere che quella riforma non ha prodotto alcun aumento del lavoro precario; e coloro stessi che continuano a chiamarla “legge 30” per paura che l’autorità morale di chi l’ha scritta si riverberi su di essa, oggi sono costretti a far leva sulle norme in essa contenute nella lotta contro le simulazioni fraudolente e il precariato abusivo (con questo non voglio certo cadere nella faziosità simmetricamente opposta di fare di questa legge un tabù intoccabile: Marco stesso lo rifiuterebbe come una sciocchezza imperdonabile).

Ho menzionato questo fatto, apparentemente marginale, del rifiuto di tanta parte degli oppositori delle idee di Marco di chiamare la sua legge col suo nome, perché credo che questo dettaglio terminologico sia la punta del grande iceberg di una faziosità non superata. Marco ha già vinto la sua battaglia sul piano della politica del lavoro: l’abrogazione – totale o parziale – della sua legge non è più nell’agenda del Governo di centro-sinistra, perché i fatti hanno mostrato che quell’abrogazione non farebbe fare un solo passo avanti per la protezione dei lavoratori più deboli. Ma potremo dire che Marco avrà vinto la sua battaglia anche sul piano del costume politico quando tutti, anche i suoi oppositori, si renderanno conto della stupida ingiustizia commessa rifiutando di chiamare la sua legge col suo nome.

In molti oggi si chiedono perché la commemorazione della morte di Marco, ad anni di distanza, sia ancora accompagnata da tante polemiche, incomprensioni, contrapposizioni tra persone e schieramenti, soprattutto in questa città. Forse una risposta può essere questa: perché ancora molti hanno paura che l’onore reso alla sua memoria possa intaccare il “cordone sanitario” con cui ancora essi tentano di impedire un dibattito sereno sulla sua opera. Forse potremmo assumere proprio questo come il segno del superamento definitivo di un capitolo infelice della nostra storia politica: che tutti, a sinistra come a destra, ai vertici dell’Amministrazione municipale come del Governo centrale, dei partiti e dei sindacati di tutti gli orientamenti, incomincino a parlare della sua legge chiamandola con il suo nome.

Non parlo – lo ripeto perché sia ben chiaro – di una rinuncia a modificare e migliorare quella legge, che come tutte le leggi ha i suoi difetti; e neppure di una rinuncia da parte dei suoi oppositori a criticarla radicalmente, a chiederne l’abrogazione. Parlo del riconoscimento che quella legge è il frutto genuino dello studio e del lavoro di una persona animata soltanto dal desiderio di servire il suo Paese, di accelerarne il progresso civile, convinta che questo progresso si misura essenzialmente sul benessere e sulla sicurezza che il Paese sa garantire ai più deboli, agli ultimi della fila. Parlo dell’onore dovuto a chi per le idee in cui credeva ha messo in gioco la propria vita e l’ha persa. Parlo del suo diritto a che almeno le sue idee e le sue opere non gli vengano sottratte.
Discutere di quelle idee e di quelle opere con rispetto, respingendo ogni tentazione di chiusura preventiva del dibattito, è un dovere civile e morale per chiunque abbia a cuore il progresso e la democrazia. La battaglia contro il terrorismo si vince anche in questo modo.

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