ARTICOLO 18, RAGIONIAMO SUI DATI

L’USO EFFETTIVO DELL’ARTICOLO 18 PER IL REINTEGRO DEL LAVORATORE LICENZIATO NON VA VALUTATO IN BASE AL NUMERO DI DECISIONI GIUDIZIALI SULLA NORMA IN QUESTIONE: GLI IMPRENDITORI SI ASTENGONO DAL LICENZIARE RITENENDO ALTAMENTE PROBABILE CHE IL LICENZIAMENTO POSSA ESSERE ANNULLATO DAL GIUDICE

Intervista a cura di Federico Grignaschi per il sito Datodifatto.it, 16 febbraio 2012

In queste settimane si parla con grande frequenza della situazione del mercato del lavoro in Italia. E sui giornali vengono pubblicati numerosi dati, spesso apparentemente contraddittori. Il tasso di disoccupazione appare in linea con il livello europeo. Il tasso di occupazione è invece molto basso. Sulla flessibilità c’è chi dice che il sistema è già molto flessibile e chi invece dice che è molto rigido. Quali sono secondo lei le caratteristiche peculiari della realtà italiana e ci potrebbe descrivere, attraverso pochi dati fondamentali, la realtà della geografia del lavoro in Italia in oggi?
Il tasso di disoccupazione italiano ufficiale, attualmente intorno all’8,5 per cento della forza-lavoro complessiva, è più basso della media europea. Ma se a questo aggiungiamo i “disoccupati mascherati”, cioè il mezzo milione di lavoratori collocati in Cassa integrazione a zero ore, in situazioni nelle quali non vi sono prospettive di ripresa del lavoro presso l’azienda dalla quale essi formalmente ancora dipendono, allora il nostro tasso di disoccupazione sale oltre l’11 per cento, e si colloca al di sopra della media europea. Questo tasso, comunque, dice poco circa l’efficienza di un mercato del lavoro; conta molto di più – a questo fine – il tasso di occupazione, che corrisponde alla percentuale di lavoratori occupati rispetto alla popolazione totale. Per questo aspetto l’Italia è in grave difetto rispetto a tutti i Paesi del centro- e nord-Europa. Bassissimo, in particolare, è il nostro tasso di occupazione giovanile (poco più di un giovane su tre fra i 18 e i 30 anni di età), femminile (meno di una donna su due) e nella fascia di età tra i 55 e i 70 anni (meno di uno su tre).
Quanto al nostro indice di flessibilità o mobilità, che ci vede abbastanza allineati rispetto alla media dei Paesi europei e a quella dei Paesi dell’OCSE, esso costituisce la media tra una metà della forza-lavoro molto protetta e l’altra metà, poco o per nulla protetta. La mobilità del lavoro è nettamente più bassa della media nella prima metà, molto più alta nella seconda. È questo uno degli effetti del dualismo fra protetti e poco o per nulla protetti che caratterizza il mercato del lavoro italiano.

Il nodo fondamentale da sciogliere per la riforma del lavoro del governo Monti appare a molti la modifica dell’articolo 18. I sindacati sostengono che l’uso effettivo dell’articolo 18 per il reintegro del lavoratore licenziato è limitatissimo. Gli imprenditori affermano che è un elemento di freno alla competitività del sistema. A suo avviso è questo un punto dirimente all’interno una possibile riforma o è solo un elemento simbolico?
Il dato disponibile più recente è quello relativo al 2009, anno nel corso del quale sono state emanate in Italia poco più di 8000 sentenze in controversie relative alla cessazione del rapporto di lavoro. Se si confronta questo dato con il totale delle posizioni di lavoro dipendente, che si colloca tra i 18 e i 19 milioni, può apparire che la norma giuridica disciplinante la materia sia scarsamente rilevante, venendo essa applicata da una sentenza in meno dello 0,5 per mille dei rapporti di lavoro in corso. In realtà le cose stanno diversamente. La teoria dell’autoselezione delle parti litiganti, infatti, insegna che il numero delle decisioni giudiziali basate su di una determinata norma non dipende affatto dal grado di effettività dell’applicazione della norma stessa, ma soltanto dal grado di incertezza circa l’interpretazione che può darne il giudice investito da una controversia. Così per fare un esempio-limite – potrebbe determinarsi una situazione nella quale sull’interpretazione ed applicazione di una determinata norma non ci sia alcuna incertezza, dunque non ci sia alcuna controversia e conseguentemente neppure alcuna sentenza: in questo caso avremmo una norma con un altissimo grado di effettività, cioè rispettata da tutti, senza che si registri alcuna sentenza applicativa di quella norma. Nel caso dell’articolo 18, a fronte di circa trentamila controversie giudiziali che si concludono con una sentenza in meno di un caso su tre, si può ben pensare a un numero indefinito di casi (in teoria potrebbero essere anche milioni) nei quali gli imprenditori si astengano dal licenziare ritenendo altamente probabile che il licenziamento verrebbe annullato dal giudice.

Nel suo più recente libro, Inchiesta sul lavoro (Mondadori), lei propone una strada di riforma basata sui modelli scandinavi. Come si può descrivere in sintesi questo sistema e come è possibile realisticamente applicarlo in un paese “latino”, con altre caratteristiche economiche e culturali?
Il modello scandinavo, comunemente indicato con il termine flexsecurity, consiste nella coniugazione della massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato, cioè nel passaggio dal vecchio al nuovo posto di lavoro. È diffusa l’idea che questo modello non possa essere sperimentato nel nostro Paese, a) per difetto delle risorse pubbliche necessarie per garantire la sicurezza economica del lavoratore, b) per difetto di servizi efficienti di assistenza nel mercato al lavoratore che perde il posto e c) per un difetto generale di senso civico. Si può pensare, tuttavia, di: a) risolvere la questione del difetto di risorse, reperendole per una parte coll’eliminazione degli sprechi che oggi si concretano nell’utilizzazione sistematica della Cassa integrazione “a perdere”, nelle situazioni di crisi occupazionale aziendale; per un’altra parte con l’azzeramento dei ritardi con cui normalmente si consente alle aziende di affrontare le crisi stesse (se si azzera il costo connesso al ritardo, si può chiedere all’impresa di destinare una parte del risparmio così realizzato per integrare il trattamento di disoccupazione dei lavoratori licenziati); b) sopperire alla bassa qualità dei servizi offerti dalle strutture amministrative competenti, coll’incentivare l’impresa che licenzia ad ingaggiare le migliori agenzie di outplacement e i migliori servizi privati di riqualificazione mirata dei lavoratori licenziati: il costo standard di mercato potrebbe agevolmente essere coperto dalle Regioni, anche utilizzandosi per questo i contributi del Fondo Sociale Europeo (ai quali oggi l’Italia riesce ad attingere in misura inferiore alla metà rispetto alla quota che le sarebbe riservata); c) quanto, infine, al difetto di senso civico diffuso, a questo si può ovviare coll’affidare all’impresa stessa che licenzia il compito di occuparsi dell’assistenza intensiva del lavoratore e della sua riqualificazione, nonché del controllo sulla disponibilità effettiva del lavoratore, incentivandola a scegliere i servizi migliori disponibili sul mercato (perché più breve è il periodo di disoccupazione, più ridotto sarà il costo per l’impresa del trattamento complementare di disoccupazione). Queste sono le opzioni delineate nel disegno di legge n. 1873/2009, che reca la mia prima firma insieme a quella di altri 54 senatori del Pd.

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