COSTRUIRE IL PARTITO NUOVO

LE RAGIONI CHE CI HANNO SPINTO (E TUTTORA CI SPINGONO) A IMPEGNARCI NELLA COSTRUZIONE DEL PD

Intervento introduttivo del Senatore Giorgio Tonini a un incontro di parlamentari del PD svoltosi a Roma il 26 febbraio 2009

Abbiamo organizzato questo incontro per corrispondere alle sollecitazioni di numerosi colleghi deputati e senatori.
Le dimissioni di Veltroni da segretario del PD hanno infatti sollevato molti interrogativi tra la nostra gente e nell’animo di ciascuno di noi, circa la tenuta del progetto di “Partito Nuovo” nel quale abbiamo creduto e per il quale ci siamo impegnati.
Veltroni ha detto di essersi dimesso per salvare il progetto del PD. Se mi passate un’immagine biblica, si è comportato come la madre vera del bambino conteso davanti a Salomone: la donna che sceglie di farsi da parte pur di salvare la vita del figlio, altrimenti destinato ad essere ucciso, diviso in due dalla spada del Re.
Se Veltroni fosse rimasto e la delegittimazione e il logoramento avessero potuto andare avanti ancora tre mesi, all’indomani delle elezioni europee e amministrative avremmo perso sia Veltroni che il PD, destinato ad essere diviso in due dalla strategia “Red &White, più volte pubblicamente declinata: un brusco spostamento a sinistra dell’asse del partito e una scissione al centro, per ricostruire un centrosinistra sue due gambe: l’eterno ritorno dell’identico.
La scelta di Veltroni di fare un passo indietro e di lanciare Franceschini come segretario ha dato al PD ancora una possibilità: come ha detto Dario concludendo l’Assemblea Costituente, Walter ha capito più di tutti noi che solo un passaggio traumatico avrebbe potuto dare al partito uno shock salutare e consentirgli di affrontare la sfida elettorale mettendo al lavoro un gruppo dirigente al tempo stesso rinnovato e unito.
Io penso che noi dobbiamo contribuire in modo leale e convinto al successo del tentativo di Franceschini. In gioco c’è il futuro del PD. E quindi, in una certa misura, in gioco c’è anche la qualità stessa della nostra democrazia: perché non può esserci vera democrazia dell’alternanza se muore nel Paese l’unica alternativa possibile alla destra, la casa comune dei riformisti.
Io penso peraltro che non possa esserci modo migliore per contribuire al successo del tentativo di Franceschini che quello di far vivere nel partito e nel Paese il progetto di “Partito Nuovo” nel quale tutti noi abbiamo creduto, per il quale ci siamo battuti per anni e ci siamo impegnati in questi due anni splendidi e terribili al tempo stesso.
Un progetto basato su tre capisaldi tra loro fortemente intrecciati e ugualmente imprescindibili: la vocazione maggioritaria del riformismo; il programma innovatore del Lingotto; un modello di partito radicato nella società, autenticamente popolare e per questo aperto alla partecipazione democratica dei cittadini elettori.
La vocazione maggioritaria – lo abbiamo ripetuto tante volte – non è presunzione di autosufficienza, o rimozione del nodo ineludibile delle alleanze. La vocazione maggioritaria è la determinazione a battersi per creare le condizioni necessarie a dar vita, anche in Italia, e ciò che il nostro Paese non ha mai conosciuto, se non per brevi momenti: il primo centrosinistra negli anni ’60, o il Governo Prodi, il governo dell’Ulivo nel 1996.
Mi riferisco ad un ciclo di governo riformatore, che abbia l’ambizione e la possibilità di affrontare i nodi irrisolti della questione italiana, che la crisi che viviamo ha reso più gravi e drammatici: dalla bassa e cattiva crescita economica, alle crescenti disuguaglianze sociali; dalla pervasività della criminalità organizzata, alla cronicizzazione della questione meridionale; dalla crisi della mobilità sociale, anche a causa di un sistema formativo obsoleto, alla incapacità di integrare nella società i lavoratori immigrati che l’economia del Paese chiede.
La vocazione maggioritaria del riformismo non può esprimersi se non in un contesto di democrazia aperta, competitiva, capace di decisione. Per questo si sposa col bipolarismo e con un bipolarismo nuovo, basato su grandi forze politiche e su alleanze corte ed omogenee politicamente e programmaticamente, non su coalizioni sterminate e frammentate, che qualche volta possono perfino vincere, ma poi non riescono a governare, tanto meno a riformare davvero lo Stato e la società.
È in nome di questo disegno che penso dobbiamo fare nostro l’appello del capogruppo del PD alla Camera, Antonello Soro, che si è augurato che tanti dirigenti del PD si schierino per il SI al referendum Guzzetta-Segni sulla Legge elettorale.
Penso che noi dobbiamo dire che siamo a favore del referendum, molti di noi lo hanno addirittura promosso, faremo campagna per il SI ed esprimiamo oggi tutta la nostra indignazione per la decisione del Governo di non associare il referendum all’election-day di giugno.
Una decisione che produce danni gravi al Paese: butta dalla finestra 400 milioni di Euro, il doppio della social card; punta a tenere in vita il Porcellum, l’attuale legge elettorale, la più odiata dagli italiani nella storia della Repubblica; e assesta un altro colpo all’istituto del referendum, accomunato dalla medesima insofferenza per tutti i contrappesi costituzionali al governo, che è propria della concezione illiberale del berlusconismo.
Non c’è vocazione maggioritaria del riformismo senza un grande programma fondamentale per il Paese, quale quello annunciato (e solo di parte poi elaborato) nel discorso di Veltroni al Lingotto.
Il riformismo del Lingotto non solo non è mai stato un cedimento subalterno ai valori della destra, ma è stato ed è esattamente il contrario: la riaffermazione, contro tutti i conservatorismi, le pigrizie, le paludose attitudini compromissorie, dei grandi valori progressisti, a cominciare da quello dell’uguaglianza, o meglio della libertà eguale per tutti.
Proprio perché ci muove la radicale fedeltà al valore programmatico, utopico perfino, dell’eguale libertà per tutti, dobbiamo renderci capaci di una altrettanto radicale innovazione degli strumenti programmatici.
Spendere meglio spendere meno, ossia conquistare la qualità, l’efficienza, la produttività della spesa pubblica, è un nostro obiettivo, un nostro valore, progressista e democratico. Così come è un nostro obiettivo strategico pagare meno, pagare tutti, ossia conquistare un fisco equo perché amico del lavoro, dell’impresa, dello sviluppo.
È per fedeltà ai nostri valori che vogliamo un sistema universale di ammortizzatori sociale e un contratto unico per tutti i lavoratori italiani, in modo da lasciarci per sempre alle spalle lo scandaloso dualismo tra protetti e precari, tra lavoratori che hanno tutta la sicurezza senza flessibilità e quelli che pagano per intero tutta la flessibilità senza alcuna sicurezza.
Così come è per fedeltà ai nostri valori che siamo impegnati a realizzare un federalismo fiscale solidale, fondato sul principio della allocazione delle risorse in base al criterio dinamico dei fabbisogni standard. Da ciascuno secondo le sue possibilità, si sarebbe detto una volta, a ciascuno secondo i propri bisogni. In un quadro di produttività ed efficienza, si deve oggi doverosamente aggiungere.
Questo è il posizionamento programmatico del PD, per come lo abbiamo pensato e voluto. Di più, questo è il posizionamento culturale del PD. Esprimere la vocazione maggioritaria del riformismo significa oggi, concretamente, conquistare alle ragioni del riformismo qualcosa come 2 milioni di elettori che in questi anni hanno votato a destra. Vuol dire ristrutturare i rapporti di forza nel Paese profondo, creare le condizioni per un riallineamento elettorale, come hanno saputo fare, con Barack Obama, i Democratici americani.
Per questo ci serve, come diceva Scoppola, molto più che un nuovo partito, ci serve un “Partito Nuovo”: non è un gioco di parole e neppure una banalità. Per fare un nuovo partito basta mettere insieme, l’uno accanto all’altro, due vecchi partiti, due vecchie culture politiche, gloriose quanto vogliamo ma stanche se non esauste.
Dunque incapaci di parlare con autorità al Paese. Perché se l’autorità, come diceva G.B. Vico, è “rendere certo il vero”, ossia costruire il consenso, un nuovo senso comune, attorno ad un discorso di verità sul Paese, è di un partito grande e autorevole che abbiamo bisogno per vincere la sfida col populismo della destra, ove per populismo si intende la capacità, invero assai più facile, di rendere certo il falso.
Per dare all’Italia un partito con queste ambizione, un  Partito Nuovo, è necessaria la consapevolezza che quel che ci serve è un pensiero nuovo, una nuova cultura politica, nuove categorie concettuali che si dimostrino meno inadeguate a capire il secolo nel quale siamo di quelle che abbiamo ereditato dal novecento.
Ce lo dimostra proprio il dibattito sulla bioetica: con un mondo cattolico che in molti settori fatica a coniugare il valore della vita con quello della libertà, e un mondo laico che fatica a concepire il valore della libertà, il sacrosanto principio di autodeterminazione, se non nell’ambito di quella cultura dei diritti degli anni settanta che la vicenda della Fecondazione assistita dovrebbe averci insegnato non essere più in grado di capire e di parlare alla società di oggi.
Solo una nuova sintesi potrà salvarci: un pensiero nuovo, figlio della comune consapevolezza che ciò che abbiamo alle spalle è prezioso, non va rinnegato, ma va dialettizzato, superato, attraverso la fatica del confronto, il dolore del conflitto, il fascino della ricerca.
È al servizio di questa impresa culturale che ci serve un Partito Nuovo, anche sul piano della forza organizzativa. Se abbiamo bisogno di una cultura politica democratica, che sia molto di più della giustapposizione di vecchie culture novecentesche, abbiamo bisogno di un partito che di questa cultura nuova diventi la fucina e il crogiolo.
Per questo dobbiamo mescolare e fondere culture, storie, biografie e non affiancare vecchie appartenenze e catene di comando correntizie, che non possono che riprodurre sterili riflessi identitari.
Per questo abbiamo bisogno di radicamento vero e quindi nuovo. Un radicamento nella società, dal basso verso l’alto, dal territorio al centro e non dall’alto in basso, dal centro alla periferia, per catene di cooptazione oligarchica. Per questo ci serve un partito di iscritti veri, che abitino e animino circoli vitali e non un partito di pacchetti di tessere e di signori delle tessere. E per questo ci serve un partito che riconosca agli iscritti il potere di definire l’agenda e l’ordine del giorno, che in politica, è, come è noto, il potere più importante, ma consegui  poi la parola conclusiva e decisionale alla più vasta platea della cittadinanza attiva, dei nostri elettori militanti.
Così come è per questo che abbiamo bisogno di un partito che faccia della contendibilità delle cariche monocratiche, sia di partito che istituzionali, uno dei propri punti fermi. Come abbiamo positivamente sperimentato in questa straordinaria stagione di elezioni primarie che per la prima volta hanno visto la partecipazione di centinaia di migliaia di cittadini. Solo la contendibilità delle cariche rende oltretutto possibile un rinnovamento generazionale che si affermi attraverso la lotta politica e non per il tramite della cooptazione dall’alto.
Cari Colleghi,
non ho detto nulla di nuovo. Mi sono limitato a riassumere, in modo certamente incompleto, le ragioni che ci hanno condotto in questi anni a batterci per dare vita al PD, poi a condividere il grande lavoro di Veltroni, oggi a sostenere il tentativo di Franceschini di salvare il progetto da una crisi che potrebbe essere fatale.
Ci daremo presto altre e migliori occasioni di approfondimento dell’analisi e di presenza efficace a sostegno del Segretario e poi, quando sarà il momento, perché c’è un tempo per ogni cosa, di partecipazione al dibattito congressuale.
 Giorgio Tonini

 
 

 

 

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