LETTERA APERTA DI UN MAGISTRATO AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

SULL’ASSURDITÀ DI UNO STATO CHE CONDANNA SE STESSO A RISARCIRE IL DANNO PRODOTTO DA UNA DISFUNZIONE, SENZA FAR NULLA PER CORREGGERLA, COME SAREBBE POSSIBILE IN TEMPI BREVI E CON COSTI MOLTO RIDOTTI

Lettera aperta del giudice Francesco Tripodi al ministro della Giustizia, 6 giugno 2012 – Sul progetto Themis per una migliore organizzazione del lavoro degli uffici giudiziari, v. Misure per accelerare i processi a costo zero, articolo di Andrea Ichino pubblicato sul Sole 24 Ore il 30 aprile 2010

Caro Ministro Severino,
Sono un magistrato della Repubblica al quale, dopo venticinque anni di serio ed onesto lavoro, è toccato di fare l’esperienza più mortificante che si possa concepire nell’amministrare la giustizia: far parte di uno dei cosiddetti collegi di Corte di appello incaricati di trattare i ricorsi della ben nota legge “Pinto”.
Sapevo ovviamente, da cittadino prima ancora che da giudice, la strana modalità con la quale, al fine di garantire il diritto alla ragionevole durata dei processi (come richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo), invece di procedere in primo luogo a qualche sana riforma a costo zero, si decise nel 2001 che era il caso, lavando i panni sporchi in famiglia, di indennizzare un po’ tutti per frenare la corsa alle ulteriori inevitabili condanne che fioccavano a Strasburgo.
So anche com’è andata e cioè che, per motivi che non stiamo a rivangare, il Parlamento ha trovato in questi anni più “ragionevole” occuparsi d’altro.
Quello che non immaginavo è che si è creata, come forse era possibile prevedere, una vera e propria “industria” della legge Pinto che – ora capisco perché – blocca da qualche anno tutti i tentativi di modifica, da ultimo quello che a inizio anno aveva fatto capolino con la legge di stabilità. La legge Pinto è diventata una miniera – più per gli avvocati che per i cittadini, ho iniziato a capire –  e dunque non si tocca.
Se si pensa che specie al Sud i tempi medi di definizione delle cause (penso al civile e al fallimentare, ma soprattutto ai giudizi amministrativi davanti ai TAR) superano tutti o quasi, di gran lunga i parametri europei, noi avremmo la possibilità di vedere rovesciato sui tavoli delle Corti di Appello – e questo sta già in piccola parte accadendo – valanghe di ricorsi con la sostanziale “clonazione” di tutto l’arretrato già spaventoso del sistema che si trasforma in “legge Pinto”.
La sensazione della partecipazione a questi collegi è veramente umiliante: tre giudici sono ineluttabilmente impegnati settimanalmente a stabilire il quasi ovvio cioè gli anni di ritardo, se ognuno debba valere 500, 750 o mille euro, a seconda di criteri assai opinabili come l’importanza della lite e il comportamento delle parti. Colpevoli e innocenti, prescritti e condannati, creditori e debitori, falliti e fornitori sul lastrico, causidici di ogni genere, tutti hanno diritto al sacro diritto alla riparazione. Di fatto anche chi ha contribuito al massacro.
Nell’incertezza di questi criteri poi (quando è in gioco solo qualche centinaio di euro di differenza tra un caso e l’altro) frequentissimi sono i ricorsi in Cassazione e cinque giudici moltiplicato cento devono accomodarsi a stabilire una serie di allucinanti micro-criteri del caso concreto con arcigna quanto vacua precisione. Prosperano massime, note a sentenza, libri, convegni, formulari, ecc… Interi studi legali si specializzano a rastrellare le cause dimenticate, autentici depositi bancari in cerca di beneficiario.
Eppure, come diversi sensati osservatori dentro e fuori la magistratura dicono da tempo, essendo quasi scontate larga parte delle liquidazioni  basterebbe solo applicare a queste liti la famosa “mediazione” con qualche accorgimento per liberare risorse personali e materiali in favore della giustizia “reale”. Si potrebbe dare alla Corti solo un controllo di congruità. E al tempo stesso sedersi a “trattare” con la Corte Europea un “pacchetto” effettivo di misure sulla riduzione dei tempi dei processi, fermando l’emorragia della legge Pinto, a sua volta paradossalmente sfiancata ormai nei pagamenti dalla notoria esiguità degli stanziamenti di bilancio. Pinto su Pinto negli anni a venire?
Veniamo all’aspetto personale, che mi ha indotto a scrivere questa lettera. Non mi era mai capitato seduto sui banchi del giudice di sentirmi prigioniero di qualcosa che non era più una domanda di giustizia, ma un giuoco spregiudicato e per giunta “promosso” dalla legge, per spremere soldi sulle disgrazie di un sistema giudiziario ridotto a mero simulacro. Di sentirmi a metà tra un bancomat e un droghiere, pressato da clienti impazienti e spregiudicati ai quali non si può dire di andare a quel paese. Di avvertire che al cittadino non stiamo dando quanto gli era dovuto (al di là della retorica dei diritti fondamentali che tanti furbi cavalcano) ma, facendo tutto un fascio del bene e del male, stiamo dicendo solo che avere una vecchia causa pendente non importa di cosa è un conto in banca che dividerà con l’avvocato.
Non posso non credere che queste cose, Signor Ministro, non le sappia e non la facciano stare male. Faccia qualcosa.
Non si preoccupi per me. Per quanto la depressione possa far capolino e per quante ulcere possa beccarmi, danni morali e materiali alla Repubblica in cui credo non ne chiederò mai. Solo faccia presto.
Francesco Tripodi, magistrato

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