“ALL’UNIVERSITÀ TUTTI 30, ORA AGGRAPPATA ALLA MIA COLLABORAZIONE A PROGETTO”

LA PROTESTA DI UNA GIOVANE LAUREATA, DA ANNI OPERANTE NELLA STESSA AZIENDA COME “CONSULENTE AUTONOMA”, SENZA DIRITTI E SENZA PROSPETTIVE DI CRESCITA PROFESSIONALE – ORA LE COSE DOVREBBERO CAMBIARE IN MEGLIO, MA OCCORRE UN IMPEGNO FORTE E RESPONSABILE DA PARTE DELLE CONFEDERAZIONI SINDACALI MAGGIORI

Lettera pubblicata dal Corriere della Sera del 24 ottobre 2012 – Segue la mia risposta, nella quale sottolineo l’importanza della svolta che può determinarsi in questo campo con l’applicazione della legge Fornero, a condizione che la contrattazione collettiva assecondi una migrazione senza traumi dall’area della collaborazione autonoma simulata a quella del lavoro dipendente regolare, soprattutto nelle situazioni caratterizzate da una elevata elasticità della domanda di manodopera

Quando ho deciso che mi sarei iscritta a Lettere ho sollevato un putiferio. Famiglia, amici, professori del liceo. Tutti a rimproverarmi per la scelta «assurda e non produttiva». Io ho deciso di farlo lo stesso. Il risultato? Mi sono laureata perfettamente nei tempi, e parlo di laurea quinquennale, del famigerato 3+2. Non ho mai preso un voto inferiore al 30. Non sono mai stata rimandata a un esame. Mi sono laureata con una tesi in Filologia latina umanistica, perché sognavo il dottorato di ricerca. Mi è stato risposto che sì, sarei stata molto brava, ma che erano due anni e poi (testualmente) «un periodo indefinito, tipo una decina d’anni, da passare facendo lavoretti in attesa che qualcuno ti richiami». Non essendo ben chiaro cosa fossero i «lavoretti» e chi fosse il «qualcuno» ho scelto di iscrivermi a un master in Comunicazione culturale. Sono approdata a Milano, per uno stage di sei mesi non pagato e con zero prospettive. E, piano piano, mi sono ritagliata uno spazio nell’ufficio. Prendendo 400 euro, poi 500. Poi 600. Fino al sospirato primo contratto a progetto, il primo di una lunga serie, tutti uguali… ma non era illegale? Comunque. Una storia a lieto fine? Magari rispetto a quella di tanti altri sì. Perché io, almeno, a fine mese qualche soldo lo prendo. Io mi sono distinta da studentessa, e non è servito, a conti fatti. Mi sono distinta nel lavoro, perché altrimenti non sarei stata confermata, e a cosa serve? Se faccio un bilancio, io vedo una ragazza di quasi 29 anni con un contratto a progetto, che si sente dire dal datore di lavoro di stare ben attenta a non restare incinta perché altrimenti te ne vai a casa, che fa orari da incubo, che se sta male al lavoro deve andarci lo stesso perché non c’è nessuno che la sostituisce, che fa le trasferte nei weekend che non le vengono pagate né rese come giorni di recupero, che non può andare dal dentista o a fare le analisi del sangue «perché ora proprio non è momento, c’è tanto da lavorare». Che si sente dire (e sottolineo: ho un contratto a progetto, quindi io non avrei l’obbligo della presenza fissa in ufficio): «Ti riposerai il 25 e 26 dicembre, cara». Che, quando arriva agosto, viene apostrofata con un «a te non spettano le ferie, il tuo contratto non le prevede». Che dice sempre di sì per non perdere questa miseria di posto, perché in mesi e mesi di curriculum inviati non ha ottenuto altro che silenzi. Che lavora in un ufficio dove ci sono solo stagiste senza neppure l’assicurazione. Dove non c’è l’acqua, né vengono fatte le pulizie. E io sarei una fortunata? E questo dovrebbe starmi bene, perché almeno io lavoro? Invece, secondo me, tra «lavoro» e «sfruttamento» c’è differenza. Questo clima di paura generale per cui restiamo attaccati con le unghie e con i denti a lavori pagati con retribuzioni da fame, che non ci permettono nemmeno di pagare un affitto, come dovrei definirlo? Normale? Io mi aspettavo tanto altro, tanto di più dal mio Paese.
Giovanna

Cara Giovanna, potrei risponderti che devi ricorrere al Giudice del Lavoro per ottenere che il tuo rapporto di lavoro venga qualificato come si deve, in termini di lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato (come sicuramente avverrebbe, se tu scegliessi quella via, perché, se le cose stanno come le descrivi, la scorrettezza del tuo datore di lavoro, nel negarti il riconoscimento corretto della natura del rapporto, è grave ed evidentissima). Ma comprendo molto bene il motivo per cui tu non lo fai, così come non lo fa quasi nessuna delle persone che si trovano nella tua stessa situazione: il rapporto di lavoro comporta una profonda e continuativa implicazione personale, che si concilia malissimo con una pesante lite giudiziale tra prestatore e imprenditore. Questo è il motivo per cui da tempo sostengo che occorre, in questa materia, un regime che consenta l’accertamento immediato del rapporto di dipendenza del lavoratore dall’impresa – dove di questo effettivamente si tratti – sulla base di elementi di fatto immediatamente desubibili dai tabulati dell’Inps e dell’Erario, senza necessità dell’indagine in loco dell’ispettore e di complesse disquisizioni giuridiche. A questo mira la nuova definizione del “lavoro dipendente” contenuta nel Codice del Lavoro semplificato, che ho proposto con il d.d.l. n. 1873/2009 (art. 2094), dove gli elementi essenziali della “dipendenza” sono individuati nel carattere continuativo della prestazione, nella situazione di monocommittenza e nel livello medio-basso del reddito che il prestatore trae dal rapporto (il limite, lì, è individuato in 40.000 euro annui): tutti elementi, appunto, immediatamente rilevabili dai tabulati dell’Inps e dell’Erario, con conseguente possibilità di intervento correttivo dell’autorità amministrativa sulle situazioni del tipo della tua, indipendentemente dall’iniziativa giudiziale del lavoratore. Criteri di qualificazione dei rapporti di lavoro sostanzialmente molto simili a quelli proposti nel mio disegno di legge – sia pure con alcune rilevanti restrizioni del campo di applicazione – sono ora previsti dalla c.d. legge Fornero. Rispetto al mio disegno di legge, nella l. 18 luglio 2012 n. 92 il limite di reddito è abbassato a 18.000 euro annui; e sono esclusi dal campo di applicazione delle nuove regole i rapporti con lavoratori iscritti ad albi o ordini professionali; ma, salve queste esclusioni, tutti i rapporti caratterizzati come il tuo da continuità, monocommittenza e inserimento materiale nell’organizzazione aziendale (la “postazione di lavoro fissa”) sono destinate a essere qualificate immediatamente in termini di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La speranza è che le amministrazioni competenti si attivino d’ufficio, come possono e devono, affinché queste nuove regole vengano applicate con il dovuto rigore. Resta, certo, aperto l’interrogativo circa l’impatto di questo nuovo regime più severo nelle situazioni caratterizzate da una marcata elasticità della domanda di lavoro, cioè da una forte sensibilità della domanda stessa all’aumento del costo: qui c’è evidentemente il rischio che l’applicazione rigorosa dei nuovi criteri porti con sé una perdita di posti di lavoro. Spetterà alle confederazioni sindacali maggiori, se sapranno fare bene il loro mestiere, utilizzare tutti i poteri negoziali di cui dispongono in sede di definizione collettiva delle condizioni di lavoro per favorire la migrazione più ampia possibile di lavoratori dall’area della collaborazione autonoma simulata a quella del lavoro dipendente regolare. Auguro a te, e a tutti coloro che oggi si trovano nella tua situazione, che questo accada in ciascuno dei settori interessati.   (p.i.)

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