IL BILANCIO IN ROSSO DELLA VECCHIA SINISTRA E IL PROGETTO DELLA NUOVA

CHI RAPPRESENTA DA ANNI LA SINISTRA ITALIANA, PRIMA DI DARE LEZIONI AL MONDO INTERO SU CHI E COME È DAVVERO “DI SINISTRA”, DOVREBBE RENDERE CONTO DEI RISULTATI CONSEGUITI FIN QUI: PIÙ INCONCLUDENTE DELLA NOSTRA NON CONOSCO ALCUNA ALTRA SINISTRA AL MONDO

Video e testo dell’intervento svolto alla convention per Matteo Renzi, alla Leopolda di Firenze, il 15 novembre 2012 – In argomento v. anche il mio intervento all’inaugurazione della campagna elettorale per le primarie del Comitato milanese per Matteo Renzi, 14 ottobre 2012

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A me sembra che chi rappresenta da anni – se non da decenni – la sinistra italiana, prima di dare lezioni al mondo intero su come si è davvero “di sinistra”, dovrebbe rendere conto dei risultati conseguiti fin qui.

Se sinistra in politica significa essenzialmente costruire un sistema capace di grarantire pari dotazioni di partenza e pari opportunità per tutti, chi ha guidato la sinistra nell’ultimo mezzo secolo, snobbando le grandi socialdemocrazie del nord-Europa (vi ricordate? “noi non ci accontentiamo di redistribuire la ricchezza: vogliamo controllare i mezzi e i modi in cui la si produce”) dovrebbe render conto, per esempio, dei risultati conseguiti nel nostro Paese sul piano della riduzione delle disuguaglianze: nel nord-Europa su questo terreno hanno raggiunto risultati enormemente migliori dei nostri e noi abbiamo uno degli indici di disuguaglianza più alti del continente. Dovrebbe render conto anche di un tasso di occupazione complessivo che è tra i più bassi del mondo: se da noi lavorasse la stessa percentuale di persone in età attiva che lavora in Gran Bretagna, avremmo cinque milioni in più di italiani nel mercato del lavoro, di cui quattro milioni donne; e se il tasso fosse quello dei Paesi scandinavi, sarebbero sette milioni in più, di cui cinque e mezzo donne. Avremmo il doppio di occupati nella fascia tra i 18 e i 30 anni; e il doppio nella fascia tra i 55 e i 70. Dovrebbe render conto, ancora, di un diritto del lavoro che si applica soltanto a metà dei lavoratori dipendenti, escludendo dal proprio campo di applicazione un’intera nuova generazione. E poi perché questi troppo pochi italiani che lavorano devono avere retribuzioni che sono mediamente, a parità di mansioni, la metà di quelle degli svizzeri e dei tedeschi, pagando su queste retribuzioni le tasse più alte d’Europa già nella fascia dei mille euro al mese?

Se chiedete conto di questi risultati a uno qualsiasi dei dirigenti della nostra sinistra, potete stare sicuri che vi risponderà: “ma noi non ne siamo responsabili, perché siamo stati al governo complessivamente per poco tempo e solo per periodi brevissimi”. Non si rendono conto che anche questo dato concorre al bilancio fallimentare della stessa sinistra: perché tanta difficoltà a raccogliere il consenso della gente? Non sarà, per caso, che proprio la parte più povera del Paese a 60 anni dalla Liberazione non si è ancora convinta della nostra capacità di fare davvero i suoi interessi?

Se chi ha guidato la sinistra italiana per questi 60 anni, dal Pci al Pds ai Ds, fino al Pd di oggi, si ponesse questa domanda con un minimo di umiltà – che in politica si chiama capacità di autocritica – e quindi cercasse davvero risposte vere e credibili, forse si accorgerebbe che i più deboli e i più poveri non votano più a sinistra da molto tempo, che sei operai italiani su dieci che votano scelgono partiti di destra o di centro, che le roccheforti elettorali della sinistra non sono tra i precari, ma nell’impiego pubblico e tra i pensionati; non tra i più giovani, ma tra i più vecchi; non tra chi rischia di più, ma tra chi rischia di meno.

Non potrebbe essere diversamente; perché da anni ormai questa sinistra, a ben vedere, al di là delle grandi enunciazioni astratte pratica soprattutto una parola d’ordine: “difendere”, e se si va a vedere da vicino si constata che è sempre un difendere l’esistente. Difendere prioritariamente i diritti esistenti – anche se sono piccole rendite – senza chiedersi mai se questo renderà più facile o più difficile l’accesso a quegli stessi diritti da parte di chi ne è escluso. Ma difendere anche vecchie norme, vecchie strutture amministrative, vecchie strutture produttive, vecchi posti di lavoro regolari; mai una volta che, in concreto, venga messa al primo posto per davvero la costruzione delle pari opportunità, cioè l’interesse di chi da quei diritti, da quel tessuto produttivo è permanentemente escluso.

Questa è la sinistra che negli anni ’70 difendeva a spada tratta il modello esclusivo del lavoro a tempo pieno opponendosi al riconoscimento del part-time; che negli anni ’80 e ’90 difendeva come un baluardo fondamentale di civiltà il monopolio statale dei servizi di collocamento (come se in questo campo il discrimine tra buono e cattivo fosse quello che passa tra pubblico e privato, e non quello che passa tra servizio efficiente fornito alla luce del sole e servizio inefficiente o fornito clandestinamente); la sinistra che fino al giugno 2011 ha difeso come chiave di volta irrinunciabile per la protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori la regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale da parte del contratto aziendale (salvo cambiare idea nel giugno dell’anno scorso, dieci anni dopo rispetto alla sinistra tedesca e a quella svedese, senza chiedere scusa per il ritardo); la sinistra che fino al luglio scorso ha difeso fino alla morte il vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come garanzia irrinunciabile della dignità e libertà dei lavoratori. Ma non abbastanza irrinunciabile perché quella stessa sinistra si preoccupasse di una metà abbondante dei lavoratori dipendenti italiani che ne era permanentemente esclusa; e negli ultimi tre decenni la quota di lavoratori protetti sul totale era andata costantemente riducendosi.

È la stessa sinistra che di fronte a qualsiasi crisi aziendale si schiera sempre, a priori, inflessibilmente, non in difesa della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, ma in difesa della conservazione delle strutture esistenti, incurante del fatto che conservare sistematicamente strutture obsolete e rapporti di lavoro ormai poco o per nulla produttivi ha necessariamente un effetto depressivo sulle retribuzioni. È la sinistra che ha difeso fino allo stremo il diritto della mia generazione di andare in pensione a cinquant’anni o anche prima, pur essendo perfettamente consapevole della insostenibilità di quel regime, che infatti è stato debitamente riformato già nel 1995, ma solo per le nuove generazioni. E che, più in generale ha considerato perfettamente “di sinistra” (pardon: keynesiano), per finanziare le pensioni della mia generazione, prendere a prestito per un quarto di secolo l’equivalente di 30 miliardi l’anno, lasciando il debito da ripagare a figli e nipoti.

Nei seminari internazionali ciascuno degli studiosi che incontro può presentare, magari per criticare, qualche cosa che la sinistra del suo Paese ha sperimentato nell’ultimo mezzo secolo: che porti il marchio Mitterrand, Zapatero, Blair, Schroeder,  Clinton od Obama; che porti un segno più liberal o più socialdemocratico, o persin0 vetero-socialista, ma pur sempre qualche cosa che ha connotato il governo di quel Paese per almeno una stagione. La nostra vecchia sinistra è bravissima nel pontificare e nel criticare le altre, ma quanto a  fatti di governo del Paese ha un palmarès desolatamente vuoto. Non può vantare neppure la nazionalizzazione dell’energia elettrica degli anni ’60 o lo Statuto dei Lavoratori del 1970, perché non li ha votati: era all’opposizione. L’achievement più rilevante che può vantare è l’aver smontato lo “scalone Maroni” nel 2007, ponendo le premesse per rendere più traumatica la riforma delle pensioni che il Governo Monti ha dovuto fare a rotta di collo quattro anni dopo per rimettere il Paese in linea di galleggiamento.

È la sinistra che – come ha osservato Abravanel – ha tacitamente accettato di dividersi i compiti con la destra lasciando a questa la difesa delle grandi rendite e riservando a se stessa la difesa di quelle piccole. Non c’è proprio da stupirsi che questa sinistra abbia perso da tempo sia il sostegno degli esclusi, dei più poveri, sia quello dei più produttivi.

Se è così, per favore, che i rappresentanti di questa sinistra abbiano almeno il buon gusto di non impancarsi ad arbitri su chi e che cosa sia “di sinistra” e chi e che cosa “di destra”: hanno mostrato di avere le idee confusissime in proposito. E, soprattutto, non si mettano di traverso se una nuova generazione si propone di costruire una sinistra diversa: meno verbosa e retorica, più pragmatica e attenta ai dati di fatto, più capace di confrontarsi con le migliori esperienze straniere (dalle quali abbiamo moltissimo da imparare, invece di giudicarle, come usiamo fare, dall’alto in basso), più esigente riguardo ai risultati.

Questa nuova sinistra si porrà per primo il problema di riunificare il mercato del lavoro, smettendo di difendere con le unghie e coi denti le 2000 pagine della nostra legislazione attuale, ipertrofica, caotica, letteralmente illeggibile per coloro che devono applicarla quotidianamente, e varando un nuovo statuto della materia – il Codice del Lavoro semplificato – che, come lo Statuto dei Lavoratori del 1970 sia conciso, semplice, immediatamente leggibile e comprensibile da tutti. Quando fu varato – lo ricordo bene perché erano i primi anni della mia vita adulta –  riproducemmo lo Statuto dei Lavoratori in milioni di copie, lo distribuimmo in ogni angolo d’Italia, e dopo tre mesi lo avevano letto e capito benissimo tutti; e cambiò la cultura del lavoro nel nostro Paese. Ecco, con questo nuovo Codice del Lavoro di 59 soli articoli vogliamo compiere la stessa operazione. E a chi ci accusa di aver messo insieme un programma raccogliticcio, solo in vista di queste primarie, rispondo che Matteo fu tra i primi, nel 2010, a organizzare a Firenze un seminario su questo disegno di legge, che avevo presentato da poco in Senato, con altri 54 senatori del Pd; ed esso è stato poi affinato attraverso centinaia di incontri con i sindacati, con gli imprenditori, nelle università di tutta Italia. Un nuovo statuto capace di applicarsi a tutti, e non soltanto a metà dei lavoratori dipendenti italiani: tutti a tempo indeterminato, a tutti le protezioni fondamentali, di cui oggi un’intera nuova generazione è privata, ma nessuno inamovibile; la sicurezza economica e professionale non si può fondare sull’ingessatura del posto di lavoro, ma sulla garanzia di continuità del reddito e professionale, in caso di perdita del posto. Un nuovo statuto allineato ai migliori standard internazionali e suscettibile di essere agevolmente tradotto in inglese: un biglietto da visita formidabile per dare agli investitori stranieri il segno di un cambiamento profondo del nostro Paese, della nostra volontà di aprirlo ai migliori piani industriali.

Questo dell’apertura del Paese agli investimenti stranieri è un punto fondamentale della nostra strategia per la crescita, che la vecchia sinistra non ha mai capito. Se soltanto fossimo capaci di allinearci per questo aspetto alla media europea, questo significherebbe un maggior flusso di investimenti in entrata nel nostro Paese pari a 50-60 miliardi ogni anno: centinaia e centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, con piani industriali capaci di valorizzarlo, il nostro lavoro, mediamente molto meglio di quanto avviene comunemente nelle nostre aziende. Certo, ci sono anche i settori in cui abbiamo noi gli imprenditori eccellenti; e lì non abbiamo alcun bisogno di proteggerli. Ma nella maggior parte dei casi l’eccellenza imprenditoriale dobbiamo imparare a importarla; dobbiamo imparare a ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale per portarla in casa nostra. Nella cultura della nostra vecchia sinistra, invece, le multinazionali sono ancora il braccio operativo dell’imperialismo, sono soggetti pericolosi, da cui tenersi alla larga. Certo, ci sono anche tra gli stranieri dei pessimi imprenditori dai quali tenerci alla larga; ma se per paura di questi ci chiudiamo ermeticamente, finiamo col subire tutto il peggio (per noi) della globalizzazione, in particolare la concorrenza della manodopera dei Paesi emergenti, privandoci dei suoi aspetti per noi potenzialmente più positivi. Guardiamo come è andata con l’ultimo grande investimento di una multinazionale in Italia: quello deciso da Ciampi e Prodi nel 1993, con la vendita del Nuovo Pignone alla General Electric: in quindici anni il fatturato dell’azienda è quadruplicato e i suoi dipendenti hanno retribuzioni che sono del 50 per cento superiori a quelle degli altri metalmeccanici italiani, a parità di mansioni.

Per aprirci agli investimenti stranieri, certo, non basta semplificare il nostro sistema delle relazioni industriali e allinearlo rispetto ai migliori standard europei. Occorre anche migliorare le nostre infrastrutture, tra le quali metterei anche il nostro senso civico diffuso, quella civicness della quale noi italiani difettiamo rispetto agli altri popoli del centro e nord-Europa; e migliorare molto le nostre amministrazioni pubbliche, incominciando da quella della giustizia. Anche questo è un capitolo del programma di Matteo Renzi che nasce da anni di osservazioni comparatistiche, di studi e di elaborazioni: vogliamo amministrazioni organizzate prioritariamente in funzione degli interessi degli utenti, e non – come accade oggi – in funzione degli interessi dei propri addetti. Amministrazioni i cui dirigenti vengano ingaggiati in funzione del raggiungimento di obiettivi precisi, specifici, misurabili, collegati a scadenze temporali ben definite; e vengano immediatamente valutati in relazione al raggiungimento o no di quegli obiettivi, controllabile immediatamente on line da tutta la cittadinanza. Amministrazioni sottoposte in modo capillare al controllo immediato della cittadinanza su ciascun loro atto, anche quello di minimo rilievo, mediante l’applicazione rigorosa del principio della full disclosure, della trasparenza totale, cioè dell’accessibilità in rete di ogni atto e ogni documento, anche di uso soltanto interno, di ciascun ufficio. Come da tempo si fa in Svezia, in Gran Bretagna e negli U.S.A. sulla base dei Freedom of Information Acts.

Anche su questo terreno si misurerà la nuova sinistra che vogliamo costruire: sulla sua capacità di perseguire, attraverso l’efficienza e la trasparenza delle amministrazioni,  l’interesse dell’ultimo dei cittadini, del più debole, più e prima rispetto all’interesse, pur legittimo, degli addetti alle amministrazioni stesse. Con la piena consapevolezza che i primi a soffrire dell’inefficienza di queste sono i più poveri e i più deboli.

Queste sono le sfide che ci attendono. Buon lavoro a tutti noi. E buona fortuna, Italia!
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