I FRUTTI AVVELENATI DELLA LINEA BERSANI OSTACOLANO L’ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO

I NODI IRRISOLTI CHE NEL DICEMBRE SCORSO MI HANNO SPINTO A LASCIARE IL PD SONO VENUTI TUTTI AL PETTINE IN QUESTA TORMENTATA VICENDA PARLAMENTARE

Intervista a cura di Giuseppe Sabella, pubblicata da ilSussidiario.net il 20 aprile 2013

In un articolo del 1 marzo scorso, scrivevamo su queste pagine quanto l’ambiguità che ha guidato il Partito Democratico in questi anni lo abbia condotto all’implosione e quanto tale disastrosa condotta si fosse rivelata dall’addio al partito di un suo uomo simbolo e di un vero riformista, il giuslavorista Pietro Ichino, oggi Senatore per Scelta Civica. Il partito capitanato da Pier Luigi Bersani ha avuto con le primarie l’occasione di rinnovarsi, ma alla fine è prevalsa, con la riconferma di Bersani, la linea della conservazione e dell’ambiguità. “Non si può essere europeisti in Europa e antieuropeisti in Italia”: con queste parole a quel punto il Professor Ichino aveva lasciato il partito, aderendo al nuovo progetto politico di Mario Monti. A distanza di quasi 2 mesi, il Pd è talmente travolto dalle tensioni tra le correnti interne che non riesce nemmeno ad eleggere Romano Prodi, il “suo” candidato Presidente della Repubblica. Siamo all’epilogo della gestione Bersani, che ha portato il Pd a perdere elezioni già vinte, a subire una clamorosa disfatta persino nella sua Bettola (Pc), dove è prevalso il centrodestra, e a questa triste e tormentata vicenda parlamentare.

Senatore Ichino, cosa c’è secondo Lei di antieuropeo nel Pd e cosa c’è di europeo in Scelta Civica?
Con quella frase, nel dicembre scorso, mi riferivo al fatto che, mentre Pierluigi Bersani girava per le capitali della UE cercando di rassicurare i nostri interlocutori europei circa l’intendimento del Pd di mantenere gli impegni presi, a Roma Stefano Fassina e Niki Vendola squalificavano quegli impegni, qualificandoli come “sciagurati” e indicando negli accordi europei del 2010 la causa prima della nostra gravissima crisi economico-finanziaria. Ma quello che, più in generale, imputo al Pd su questo terreno è un difetto di provincialismo.

Ovvero?
L’atteggiamento sbagliato di chi rifiuta il confronto aperto con le esperienze dei Paesi europei più avanzati, per esempio in materia di lavoro, di scuola, o di amministrazioni pubbliche, con l’argomento secondo cui “in Italia non si può fare”. Quanto a Scelta Civica, la sua ragion d’essere essenziale consiste invece proprio nella realizzazione di quella “riforma europea” della quale l’Italia ha urgente bisogno, per potersi integrare sempre di più nell’UE e mantenere in essa un ruolo di protagonista. Le ragioni del mio passaggio dal Pd a Monti, comunque, sono anche altre.

Ci interessano…
Dopo cinque anni di battaglie dure in seno al Pd sulla riforma del lavoro, avevo finito col diventare al suo interno una figura divisiva, il simbolo di uno scontro, di qualche cosa che una parte del partito non accettava più neppure di discutere perché intorno ad essa era stato costruito con successo un vero e proprio “cordone sanitario”. Negli ultimi due anni, in qualsiasi città d’Italia io venissi invitato da una struttura del Pd l’iniziativa veniva poi disdetta per ordine superiore, oppure accompagnata subito prima o subito dopo da un’iniziativa “ortodossa” volta a impedire il contagio delle mie idee e proposte.

È risaputo che nel novembre 2011 il Premier incaricato Mario Monti aveva considerato la sua candidatura a Ministro del Lavoro, tant’è che poi l’ha voluta con sé nella sua lista. Come mai il suo nome è rimasto solo un’ipotesi alla guida del Welfare?
Quando Mario Monti aveva ipotizzato che io potessi assumere il ruolo di ministro del Lavoro nel suo nuovo governo, un dirigente nazionale del Pd aveva dichiarato pubblicamente che questa scelta avrebbe determinato la morte di quel nuovo esecutivo prima ancora del suo nascere; e non ho sentito in proposito una sola parola di smentita o rettifica da parte di uno dei membri della Segreteria. Questo era il contesto nel quale, nel dicembre scorso, quando Vendola e Fassina dopo le primarie hanno incominciato a fare apertamente i discorsi di cui ho detto prima, rinunciai alla ricandidatura nelle liste del Pd: c’era una metà del partito, detentrice del comando, che non era più legata all’altra metà da uno spirito di solidarietà politica capace di superare i dissensi. E quando Mario Monti mi espresse in modo molto insistente l’invito a unirmi a lui nella sua iniziativa politica volta a rilanciare la sua Agenda come terreno di incontro tra le forze politiche più responsabili, accettai senza molti rimpianti: anche perché alla redazione di quell’Agenda stavo collaborando già da mesi; e tornare in Parlamento con lui apriva la prospettiva di poter trasformare quel programma in un insieme organico di disegni di legge. Come infatti sta avvenendo.

Cosa pensa in merito allo stallo politico che dura ormai da quasi due mesi?
Se è per questo, la situazione di stallo sta durando da molto più tempo. È il risultato di un centrodestra che ha sperperato tre anni e mezzo di governo facendo soltanto una mezza riforma, quella delle amministrazioni pubbliche, e poi azzerandola; e di un Partito democratico che sulle riforme di cui il Paese ha bisogno ragiona ancora sempre dal punto di vista degli addetti ai servizi e non dal punto di vista degli utenti. L’inconcludenza della politica italiana negli ultimi anni nasce da qui. In questi ultimi due mesi, poi, lo stallo si è aggravato per gli errori gravi commessi da Bersani, per mancanza di una linea strategica chiara: prima ha passato un mese a rincorrere il Movimento 5 Stelle, poi improvvisamente è passato a coltivare, con scarsa credibilità, l’intesa con il PdL.

Ha fatto bene Bersani a rassegnare le dimissioni?
Dopo che il Pd per ben due volte, incredibilmente, ha sbarrato la strada ad altrettanti candidati appartenenti alle proprie file, le dimissioni del segretario, le dimissioni sono davvero inevitabili. Esse comunque costituiscono un passaggio inevitabile perché si possa arrestare la tendenza all’entropia, alla disgregazione, che sta travolgendo la politica italiana.

Quali prospettive politiche vede oggi oltre l’elezione di un nuovo Capo dello Stato?
È difficile rispondere prima che questa elezione sia avvenuta. Da come essa avverrà dipende moltissimo del futuro politico di questo Paese, almeno nei prossimi tre o quattro anni. Quello che posso dire fin d’ora è che tutti i nodi irrisolti che nel dicembre scorso mi hanno spinto a lasciare il Pd sono venuti al pettine in questa tormentata vicenda parlamentare.

Si imputa alla recente riforma Fornero soprattutto l’aver scoraggiato le assunzioni. Quali risposte ha dato al lavoro e all’economia reale?
La legge Fornero ha molti difetti. Però due cose importanti le ha fatte: la riforma degli ammortizzatori sociali, con l’istituzione di una assicurazione universale di livello europeo contro la disoccupazione, e una riscrittura dell’articolo 18 dello Statuto, che riduce notevolmente il disallineamento della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto a quella dei maggiori Paesi europei. Nella parte in cui la legge si propone di contrastare il precariato abusivo vedo degli eccessi di rigidità e qualche errore tecnico; ma soprattutto mi sembra che sia stato sottovalutato lo shock di costo e di rigidità che le imprese dovrebbero affrontare per regolarizzare questi rapporti. Ora, se vogliamo evitare che si perdano centinaia di migliaia di posti di lavoro, abbiamo solo due strade possibili: tornare indietro, abrogando o depotenziando le norme della legge Fornero, oppure risolvere il problema in avanti, offrendo a imprese e lavoratori la possibilità di sperimentare un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato molto meno costoso e meno rigido rispetto al modello attuale. Questa è la scelta che propongo con il disegno di legge che ho presentato con gli altri senatori di Scelta civica proprio giovedì.

Sacconi e Tiraboschi hanno più volte denunciato il cambio di rotta della riforma Fornero rispetto alla riforma Biagi. Lei cosa ne pensa?
In realtà, la legge Biagi già conteneva una disciplina fortemente restrittiva in materia di collaborazioni continuative autonome, vietandole in tutti i casi in cui non fossero collegate a un preciso progetto, con un suo momento iniziale e un suo momento terminale. Poi fu subito il ministro Maroni, con la circolare n. 1 del 2004, a depotenziare la legge, dandone per questo aspetto una lettura molto lassista. Per questo stesso aspetto, la legge Fornero si è proposta sostanzialmente di rendere effettiva la previsione contenuta nella legge Biagi.

Recentemente Susanna Camusso si è unita alle dichiarazioni di Bonanni e Angeletti affermando che bisogna sostenere l’impresa per sostenere il lavoro. E’ di questi giorni oltretutto il protocollo per la competitività del gruppo Finmeccanica sottoscritto anche dalle rappresentanze sindacali, Fiom-Cgil compresa. Siamo all’inizio di un qualcosa di nuovo nelle nostre relazioni industriali?
Non sarebbe mai troppo tardi per inaugurare questo nuovo corso.
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