RIVOLUZIONARI DI CENTRO PER LE RIFORME

TRA I QUATTRO ESITI POSSIBILI DI QUESTA FASE POLITICA ANOMALA VA CONSIDERATO ANCHE QUELLO DI UN AUMENTO DEI CONSENSI PER UN POLO RIFORMATORE, AL CENTRO DELLO SCHIERAMENTO POLITICO, CAPACE DI FARSI INCISIVAMENTE PROMOTORE DELLA RIFORMA EUROPEA DI CUI L’ITALIA HA URGENTE BISOGNO

Editoriale di Franco Bruni su la Stampa del 26 maggio 2013

Quando l’emergenza finanziaria portò all’insediamento del governo Monti, alla fine del 2011, il Pd dovette digerire l’idea che, rinunciando ad andare subito a elezioni, sacrificava la vittoria che le stime assegnavano al centrosinistra. La digestione fu aiutata dalle divisioni interne del polo allora favorito dalle previsioni.
Dopodiché il centrosinistra sopportò l’impopolarità dei severi provvedimenti del governo dei tecnici e, passato un anno, subì il rifiuto improvviso della corresponsabilità di governo da parte del centrodestra. Seguirono le elezioni e il vantaggio della sinistra andò svanendo senza che il Pd sapesse reagire tempestivamente. Il successo di Grillo fu sorprendente e, nel nuovo Parlamento, le divisioni del centrosinistra crebbero fino alla tragicommedia dell’elezione del capo dello Stato, risolta dalla straordinaria disponibilità di Napolitano. Ed ecco il governo Letta: nuove fragili larghe intese, come soluzione d’emergenza allo stallo di tre forze quasi equipollenti.
E’ un governo con tecnici e politici, come non fu permesso a Monti, con un programma di medio termine diretto sia all’emergenza economica che a indispensabili ritocchi istituzionali. Ma nel Pd il malumore è rimasto, si grida all’inciucio, si alimentano tensioni fra chi è più coinvolto dal governo e chi vuole presto nuove elezioni sognando l’arrembaggio di una sinistra più decisa e combattiva contro il centrodestra, contando anche sul ritorno a casa di molti voti ceduti ai cinque stelle. Il malumore anti-inciucio agisce come collante e fa sembrare concordi Vendola, Renzi, Barca, D’Alema, Veltroni e quant’altri. Sicché il Pd sta creando più problemi dei falchi della destra alla sopravvivenza del governo. Ciò nuoce all’economia, anche per l’incertezza che causa nei mercati e a Bruxelles.
Quattro scenari alternativi potrebbero emergere nei prossimi mesi. Uno è la fine del governo e il ritorno di quello che molti definiscono con espressioni tipo “lo scenario salutare di una democrazia moderna”, cioè la spietata competizione bipolare, possibilmente col permanere di un esagerato premio di maggioranza e altri ostacoli contro terze forze che disturbino il derby che dovrebbe appassionarci.  Un derby che viene cantato come un traguardo di novità salvifica, dimenticando che è stato lo sfondo dei tre lustri di malgoverno che hanno preceduto l’arrivo dei “tecnici” d’emergenza.
Il bipolarismo, con la sua decantata alternanza, ha dato brutta prova di sé in Italia. Anche all’estero non mancano esempi di competizioni bipolari che acuiscono artificiosamente la conflittualità politica fino a impedire agli eletti di governare con efficacia mettendo a frutto e mantenendo il consenso conquistato nelle urne. Ma la più grave debolezza della prospettiva bipolare in Italia è quella dei poli che dovrebbero animarla, perché la destra è quasi “solo Berlusconi” e la sinistra è un’accozzaglia di idee spesso contraddittorie. Inoltre è debole l’ambiente dove svolgere la competizione, perché sono fragili i fondamenti della civile convivenza e scarse le regole del gioco condivise; il Paese è segmentato dai campanilismi e dal dualismo nord-sud, incapace di discutere serenamente il rapporto fra pubblico e privato. Senza due robusti giocatori e un buon campo di gioco, la partita è artificiale, diventa teatro mediatico inconcludente, produce esecutivi fragili e alternanze sterili, delude la gente, incentiva il populismo e le astensioni.  Se proprio si vuol tentare la partita bipolare si può solo giocarla in modo soft, tentando continuamente convergenze dei poli su provvedimenti urgenti e condivisi e corteggiando l’elettorato meno schierato, quello più pronto a spostare il suo voto per applaudire il bel gioco anziché insistere sul tifo di parte.
Gli altri tre scenari mi paiono più vaghi ma tutti migliori del primo: in ciascuno c’è un briciolo di speranza per l’Italia.
Scenario due: il governo Letta ha successo. Approfittando della sottile distanza che lo ripara dagli istinti bipolari che lo circondano, forte di qualche appoggio europeo e di alcuni ottimi ministri, riesce presto a varare qualche provvedimento economico urgente e a impostare qualche riforma istituzionale.  Dopodiché è più difficile fermarlo, ostacolare in modo velleitario e confuso la continuazione dei suoi programmi e delle sue riforme. Sarebbe la prova della validità, almeno temporanea, della formula delle larghe intese per affrontare l’emergenza economico-istituzionale. La stessa formula che era alla base del governo Monti.
Vedo soprattutto due ostacoli, fra loro collegati, al realizzarsi di questo scenario. Innanzitutto la cosa è tecnicamente difficile, richiede tattiche e diplomazie politiche che non possono, data la situazione, essere completamente trasparenti e vanno attuate tenendo l’occhio, senza farsi accorgere, sulle convulsioni interne ai due poli, che guadagnerebbero tempo per darsi un contegno e prepararsi a giocare una partita meno selvaggia. Il presidente del consiglio e il suo vice non sono sprovveduti di capacità e sottigliezze politiche: ma la difficoltà rimane acrobatica. Il secondo ostacolo è che la formula delle larghe intese è un’arma a doppio taglio: può servire a supportare meglio le riforme ma anche a bloccarle da due lati, senza scampo. Lo abbiamo visto con Monti: prima la strana maggioranza ha supportato, poi ha bloccato. 
Il terzo scenario è l’evoluzione del polo più tormentato, quello di sinistra e, in particolare, del partito democratico. E’ l’avanzata del blairismo alla Renzi: un Pd che smette di barricarsi in insostenibili alleanze fra diversi e di concentrarsi sul suo elettorato tradizionale; che non cerca grandi alleanze ma insegue grandi consensi, risparmia energie nel delegittimare la destra e le riversa nel proporre con pragmatismo ciò che al Paese serve senz’altro, anche se non suona in modo appariscente “di sinistra”; che non fa finta che la destra non esista ma non la considera inconquistabile, che non ha paura di lasciarsi qualcosa a sinistra, pur di soddisfare la maggioranza degli elettori e perseguire l’“interesse generale”, anche quando questo sembra troppo trasversale per essere cantato come la sconfitta dei cattivi. Non sono capace di valutare la plausibilità di questo scenario. Né mi è chiaro perché un’evoluzione del genere non sia possibile anche da destra dove non mi sembra covino renzismi ma dove, negli esercizi bipolari dell’ultimo ventennio, la sterilità dell’anticomunismo berlusconiano non è stata minore di quella dell’anti-berlusconismo della sinistra.
Il quarto scenario è quello di cui non si parla. A molti può apparire la resurrezione di brutti aspetti della prima repubblica. E’ il crescere, per ora imprevisto e improbabile, di un raggruppamento di centro. Ho sempre pensato che i partiti di centro fossero tanto indesiderabili quanto sono preziosi gli elettori di centro. Ma la situazione attuale fa riflettere se non vi sia un modo nuovo e utile di intendere il centro. Non quello di equivoci signori “moderati”, pronti a spregiudicate politiche dei due forni per rimanere sempre al potere, propagandando la paura populistica degli opposti estremismi. Piuttosto una formazione politica che accentri gli sforzi di chi vuol fare riforme radicali la cui necessità è tale da renderle largamente condivisibili. Un centro dove si ritrova chi vede i suoi privilegi sacrificati da una delle riforme e, confrontandosi con altri come lui, comprende che il sacrificio va sopportato perché altre riforme sacrificano altri interessi speciali e corporativi che a lui nuocciono e quel che risulta è il perseguimento dell’interesse generale. Ho sempre pensato che a queste riforme si potesse arrivare con convergenze limitate, fra partiti distinti. Forse lo penso ancora, e lo spero. Ma trovo che l’originale riflessione politica con cui Mario Monti ha accompagnato la creazione di Scelta Civica sia stata sorvolata e censurata con ingenerosa superficialità.  Fra gli scenari per risistemare il Paese, soprattutto se gli altri falliscono, c’è anche un considerevole – ancorché improbabile – aumento dei consensi per un centro non di moderati ma di riformisti, tanto “rivoluzionari” e privi di pregiudizi da non trovar posto né a destra né a sinistra.

 

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