SERVE UN PATTO DI COALIZIONE PER AGGANCIARE LA RIPRESA

IL PROBLEMA NON È CONGIUNTURALE: OCCORRE UNA PROFONDA TRASFORMAZIONE STRUTTURALE DEL MERCATO DEL LAVORO E DEL TESSUTO PRODUTTIVO DI UN PAESE CHE IN SETTE ANNI HA PERSO IL 10% DEL PIL

Articolo di Franco Bruni pubblicato su la Stampa del 30 gennaio 2014

La politica italiana sta decidendo la riforma elettorale e costituzionale e cerca di liberarsi da varie urgenze allucinanti come la sistemazione del pasticcio delle tasse sugli immobili. Dopodiché le sarà più facile concentrarsi sulle riforme necessarie all’economia. Secondo alcuni si tratta di “agganciare la ripresa internazionale”. Ma è una ripresa precaria, fragile, gonfiata dall’espansione monetaria, ancora condizionata dagli insostenibili livelli di indebitamento di famiglie, imprese, banche e governi, accumulati nel mondo negli anni precedenti la crisi globale. Anche in Italia c’è qualche segno di svolta della congiuntura. Ma dovrebbe esser chiaro che il problema non è il rilancio congiunturale ma la profonda trasformazione strutturale del funzionamento dell’economia di un Paese che ha perso quasi il 10% del Pil dal 2007 ed è travolta dal disordine e dalla disoccupazione al punto che è scesa parecchio (di quasi l’1% annuo rispetto a cinque anni fa) la sua capacità di aumentare la produzione nel medio termine, cioè la capacità di offrire più prodotti anche se fosse pronta la domanda per assorbirli.
Ieri Mario Deaglio ha scritto giustamente su questo giornale che la scarsa produttività delle economie europee ha una “perversa molteplicità di cause”, dai sindacati alle banche alle burocrazie alle scuole alle infrastrutture, e che è pericoloso cercare di affrontarne una alla volta. Ma non lasciamoci bloccare dalla difficoltà di fare insieme tante riforme. Da qualche parte bisogna cominciare, scegliendo i progetti più adatti a trascinarsi dietro il resto facendo scattare circoli virtuosi nei meccanismi di decisione politica.
In Italia pare condivisa l’idea che la priorità è la riforma del mercato del lavoro, da vari punti di vista: dalle forme contrattuali alle modalità della contrattazione, dagli ammortizzatori della disoccupazione all’organizzazione del collocamento e della formazione professionale nonché alla drastica semplificazione della legislazione. Letta deve avere il coraggio di sposare con impeto renziano un disegno complessivo di riforma del lavoro, senza dar spazio agli infiniti dibattiti dilatori di chi vorrebbe disegni un poco diversi o fa finta di volerli mentre preferisce che niente di sostanziale cambi. Non occorre improvvisazione: in questi anni gli economisti alla Boeri e i giuristi alla Ichino hanno preparato tutto il preparabile; sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro hanno discusso il discutibile. Ora è il governo che deve decidere e combattere per guadagnare il consenso senza impaludarsi in tavoli e confronti inconcludenti.
E’ facile scegliere almeno un’altra priorità per avviare la rivoluzione delle riforme strutturali. Non può che essere la spending review che è in agenda da tanto tempo. Il problema è intenderla nel modo giusto.  Non si tratta solo di eliminare gli sprechi, ma di cambiare radicalmente la qualità delle spese e delle entrate e l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
La semplice ricetta macroeconomica di rilanciare l’economia tagliando la spesa pubblica per tagliare le tasse lascia perplessi. Come si fa a ridurre la spesa pubblica in un Paese che deve ricostruire il suo territorio, martoriato dall’edilizia speculativa, dall’incuria paesaggistica e dall’incredibile inquinamento del sottosuolo. Un Paese che deve evitare chele scuole crollino, i pendolari ferroviari piangano, la ricerca langua, il patrimonio culturale si degradi, i disoccupati manchino di assistenza nel riqualificarsi e ricollocarsi. Basterà smetter di sprecare e rubare? E così per le imposte: si può cercar di ridurne il totale ma la vera priorità è cambiare l’organizzazione del prelievo, non solo combattendo l’evasione ma semplificando la gamma di tasse e gli adempimenti relativi, variando le progressività, tassando di più la ricchezza e meno il reddito, più le persone e meno le imprese, più il consumo e meno l’investimento e il lavoro, eccetera. Tagliare privatizzando?  Certamente, purché si spenda abbastanza nel controllare bene come i privati gestiscono la produzione dei servizi pubblici privatizzati.
Fra le due priorità, la riforma del lavoro e della pubblica amministrazione, c’è più di un legame e sarebbe ingiusto e inefficace esser più conservatori nel lavoro pubblico che in quello privato. La riforma del settore pubblico si lega bene anche con quella, già in agenda, dell’articolazione delle competenze fra Stato e enti territoriali.
Ovviamente ci vuol tempo per realizzare queste riforme e alcuni loro aspetti hanno costi finanziari di breve, che poi si auto-rimborsano, e il costo politico di vincere grandi resistenze corporative, clientelari o semplicemente “moderate” nel senso negativo del termine. Ma un disegno impegnativo delle caratteristiche di fondo delle riforme si può fare svelto e si possono varare subito delle leggi quadro che leghino le mani anche ai prossimi governi. E’ il disegno di queste leggi quadro che Letta deve mettere con coraggio in un patto di esplicito che vincoli davvero il resto del suo tempo di governo. Dopodiché gli elettori giudicheranno, insieme alla sua capacità di leadership, la misura e la coerenza con cui i partiti della maggioranza hanno sottoscritto e mantenuto il patto, nonché la qualità del contributo dell’opposizione. Nel frattempo, un patto forte e chiaro migliorerà subito le aspettative, e quindi gli investimenti, la crescita, l’occupazione e l’atteggiamento sia dell’Europa che dei mercati nei confronti del nostro deficit e debito pubblico.

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