PERCHÉ È NECESSARIO POTENZIARE LA CONTRATTAZIONE AZIENDALE

 IL SIGNIFICATO DELL’OPZIONE ESPLICITATA NEL DEF A FAVORE DI UN SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI NEL QUALE IL CONTRATTO PIÙ VICINO AL LUOGO DI LAVORO PREVALE SU QUELLO PIÙ LONTANO

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata su Libero il 18 aprile 2014.

 

Professor Ichino, con il decreto lavoro, il messaggio del governo sembra essere: ci concentriamo sui contratti a tempo determinato, reintroducendo quella flessibilità che la legge Fornero aveva tolto, e di fatto rinunciamo a intervenire radicalmente sui contratti a tempo indeterminato. È d’accordo?
No. Il disegno è molto più ampio. C’è dentro anche l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a protezioni crescenti. Indispensabile per evitare che la quota di contratti a tempo indeterminato sul flusso delle nuove assunzioni si assottigli ancora rispetto al rapporto attuale di uno a sette.

Il ministro Poletti sembra preoccupato proprio di questo quando parla di far costare di più il contratto a termine.
Il contratto a termine costa già di più rispetto a quello a tempo indeterminato. E non credo che si possano aumentare i contributi su questo tipo di contratto proprio nel momento in cui promettiamo di ridurre il “cuneo” sulle buste paga. Il problema va risolto in avanti, non ritornando indietro. Occorre accelerare la riforma.

Già, ma per il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti bisognerà invece attendere il Jobs Act, ovvero la legge delega. I tempi (entro giugno 2015, dice il ministro Poletti) la convincono?
Per l’opera impegnativa di semplificazione generale della normativa, fra legge-delega e decreto delegato ci vorranno effettivamente diversi mesi. Proprio per questo Scelta Civica ha presentato alla Camera un emendamento che consentirebbe di anticipare, collocandolo già in questo decreto, il contratto a protezioni crescenti. Questo renderebbe il decreto al tempo stesso più incisivo, e più equilibrato, sdrammatizzando quasi del tutto l’alternativa tra assunzione a termine e a tempo indeterminato.

Nella sua idea, tra le tutele di questo nuovo contratto non deve comunque rientrare l’articolo 18?
La mia proposta è questa: ora, nel decreto, stabiliamo soltanto che nel primo triennio dopo l’assunzione a tempo indeterminato il licenziamento può avvenire senza controllo giudiziale sulla motivazione di natura economico-organizzativa, col solo pagamento di un’indennità: per esempio, un mese per anno di anzianità. Per far questo basta un emendamento aggiuntivo di quattro righe. In questo modo, applicandosi la norma soltanto per le nuove assunzioni, avremo poi tre anni di tempo per mettere a punto la nuova disciplina del contratto a protezioni crescenti, inserita organicamente nel nuovo codice semplificato del lavoro.

Su tempo determinato e apprendistato c’è margine in Parlamento per qualche modifica del contenuto del decreto-legge?
Sull’apprendistato sì: credo che alla fine si troverà un compromesso sulla previsione di un programma di formazione definito in modo più generico nel contratto iniziale. Quanto al contratto a termine, credo che verrà soltanto ridotto un poco il numero delle possibili proroghe o rinnovi, sempre con il limite dei 36 mesi.

Lei è recentemente tornato sulla vicenda Fiat, definendola “una svolta epocale” e “non ancora compresa per intero”. Che cosa non si è ancora capito?
Che nell’economia globalizzata il nostro Paese deve porsi in condizione di poter “ingaggiare” il meglio dell’imprenditoria mondiale, cioè essere attrattivo per le multinazionali. Quando queste decidono di insediare uno stabilimento da noi, si deve consentire loro di applicare qui la stessa organizzazione del lavoro che praticano in tutto il resto del mondo. E ciascuna di esse ha il proprio modello. Se per caso quel modello non si adatta al contratto collettivo di settore italiano, occorre consentire loro di discostarsene, con un contratto aziendale che prevalga su quello nazionale.

Dovremo dunque puntare sempre meno sulla contrattazione nazionale e sempre più su contratti scritti in azienda. Sul modello Fiat, appunto. Ma, in pratica, che cosa dovrebbe essere possibile fare a un’impresa che oggi non è possibile?
Negoziare al livello aziendale, purché con una controparte sindacale dotata di rappresentatività maggioritaria nell’impresa, non soltanto un sistema di inquadramento professionale completamente diverso, un’estensione e una distribuzione dell’orario diverse pur entro i limiti fissati dalla legge, una diversa disciplina dei permessi, e così via, ma anche eventualmente una struttura diversa della retribuzione, con una diversa ripartizione tra parte fissa e parte variabile.

Non vede il rischio di una competizione (tra imprese, tra nazioni) fondata su una corsa al ribasso sui salari?
Le sembra che in Svizzera o in Germania si paghino retribuzioni inferiori rispetto a quelle italiane? Eppure in Svizzera e in Germania il contratto aziendale può sovranamente determinare il trattamento dei lavoratori, a 360 gradi. Quello che serve, per aumentare le retribuzioni, non è una tabella dei minimi salariali fissata da un contratto nazionale, che sarà sempre un po’ troppo alta per la Calabria e un po’ troppo bassa per la Lombardia; servono i piani industriali innovativi, che valorizzano meglio il lavoro degli italiani. E questi, per lo più, li portano le grandi multinazionali.

Ultima domanda: come ci stiamo preparando all’avvio di Garanzia Giovani?
Se davvero il piano nazionale parte il primo maggio, il ritardo sarà di quattro mesi. Un ritardo già sconcertante, in un Paese con il 40 per cento di disoccupazione giovanile. Ma ancor più sconcertante è che al primo maggio, per quel che mi risulta, le sole regioni che saranno pronte a partire davvero in modo congruo rispetto al programma europeo saranno soltanto il Lazio, il Trentino Alto Adige e forse la Lombardia.

 

 

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab