CHE COSA ACCADE SE NON SI ACCORDANO?

APPUNTI SUL DIFFICILE NEGOZIATO PER LA RIFORMA DELLA STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 30 settembre 2008

        Una parte della Cgil è convinta che sia sbagliato proprio l’obiettivo di fondo della trattativa aperta nel maggio scorso dai sindacati confederali con la Confindustria: cioè l’aumento del ruolo della contrattazione aziendale, per legare la retribuzione all’andamento dell’impresa, con corrispondente riduzione del salario negoziato al livello centrale. Così stando le cose, qualsiasi accordo venga raggiunto con questo negoziato, esso sembra destinato a essere considerato da quella corrente sindacale come una sconfitta. Per evitare la spaccatura, la segreteria della Cgil è andata alla trattativa indicando questo obiettivo: aumentare il ruolo della contrattazione aziendale, senza però ridurre il ruolo del contratto collettivo nazionale, che anzi va difeso. Ma, finché la torta da spartire non aumenta, come si fa a dare più spazio alla contrattazione aziendale, se non a spese di quella nazionale?

Ci si sarebbe potuti attendere che Confindustria, dal canto suo, si presentasse alla trattativa sottolineando l’opzione opposta, per un deciso decentramento del sistema della contrattazione collettiva. Invece, apparentemente, no: a metà settembre Confindustria ha presentato alle controparti una proposta di accordo nella quale la struttura centralizzata del sistema è sottolineata in modo addirittura arcigno (“sovietico”, lo qualifica Guglielmo Epifani). Il documento delinea, sì, un contratto collettivo nazionale più “leggero”, il cui compito è limitato a garantire un “salario minimo” o poco più, per far spazio al premio di produzione negoziato in azienda; ma, invece che allentare le redini sul collo della contrattazione aziendale, esso le tira quasi più di prima, limitando drasticamente le deroghe al livello di impresa in materia di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione. Nel documento di Confindustria ‑ a saperlo leggere in controluce – non si esprime tanto l’opzione per uno spostamento del baricentro della contrattazione verso la periferia, quanto semmai l’interesse di alcune imprese medie e grandi del nord a poter usare il contratto nazionale come scudo contro le “piattaforme rivendicative” aziendali ritenute eccessive: quelle che vengono presentate proprio dalle componenti più aggressive del movimento sindacale.

Quanto a Cisl e Uil, esse sostanzialmente accettano l’impostazione proposta nel documento di Confindustria, pur con qualche rilevante divergenza su singoli punti. Sta di fatto, però, che un accordo di questo genere cui rimanesse estranea la Cgil avrebbe ben poco senso sul piano pratico.

Non stupisce, dunque, che il negoziato ristagni, nonostante che, apparentemente, tutti i protagonisti della trattativa siano legati a un modello marcatamente centralistico del sistema di relazioni industriali. La cosa curiosa è che, se l’accordo non si raggiunge, la prospettiva è quella di un brusco e drammatico passaggio di fatto al modello opposto. Negli ultimi anni i contratti collettivi nazionali sono stati rinnovati con crescenti difficoltà, comunque nella maggior parte dei casi in grave ritardo; ora potrebbero moltiplicarsi le categorie – a cominciare dalla più grande, quella metalmeccanica ‑ nelle quali il contratto nazionale non si rinnova affatto: a quel punto gli aumenti contrattuali verrebbero interamente concessi o negoziati al livello aziendale. E probabilmente l’attuale Governo sarebbe pronto ad assecondare questa evoluzione del sistema varando autoritativamente per legge un meccanismo di determinazione amministrativa del “salario minimo”.

Così stando le cose, la Cgil deve decidere: se assecondare a sua volta questa evoluzione puntando al “non accordo”, oppure unirsi a Cisl e Uil (e ‑ perché no? – anche all’Ugl) nella ricerca di un accordo che concilii il ruolo del contratto nazionale, di difesa delle buste-paga anche là dove la contrattazione aziendale non arriva, con l’allargamento degli spazi per quest’ultima. Una soluzione potrebbe essere trovata sulla linea proposta dagli economisti de lavoce.info: prevedere nell’accordo interconfederale un “premio di produttività” di facile applicazione universale (per esempio, il monte-premio aziendale potrebbe essere determinato in percentuale sul margine operativo lordo risultante dal bilancio, o sulla sua variazione nell’ultimo anno); consentire che la struttura di questo premio sia liberamente adattata dai contratti nazionali alle esigenze particolari di ciascuna categoria; e soprattutto stabilire che il premio stesso si applichi soltanto se non ne sia contrattato uno diverso al livello aziendale. In altre parole: il contratto nazionale incomincia a collegare la retribuzione all’andamento aziendale, ma “si ritira” là dove il contratto aziendale viene stipulato davvero.

Altre soluzioni si possono inventare. Ma a una condizione: che alla base ci sia la volontà di mantenere in vita, col necessario intervento di manutenzione straordinaria, l’attuale sistema di relazioni sindacali. Ci possono essere anche buone ragioni per preferire il suo drastico superamento; ma, se questa è la scelta, sia essa di parte sindacale o di parte imprenditoriale, è bene che essa venga esplicitata chiaramente.

 

 

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