UN BILANCIO DEI DECRETI ATTUATIVI: I PUNTI DEBOLI DELLE NOSTRE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO

È VERO CHE SUI SERVIZI DI ASSISTENZA PER LA RICOLLOCAZIONE SIAMO ANCORA INDIETRO, MA QUESTO NON BASTA PER SOSTENERE LA TESI DELLA CGIL E DI TIRABOSCHI, SECONDO CUI AVREMMO DOVUTO RINVIARE LA RIFORMA IN ATTESA DI SUPERARE QUESTO RITARDO

Intervista a cura di Renato Bisceglie, in corso di pubblicazione sulla rivista mensile dell’AIF-Associazione Italiana Formatori, For, settembre 2015.

Professor Ichino, con l’approvazione dei decreti attuativi, il Jobs Act è ormai arrivato in porto e i primi risultati numerici, pur da verificare nel tempo, appaiono  positivi.
Gli indizi di un effetto positivo sia sul piano qualitativo sia su quello quantitativo dei nuovi flussi di assunzioni effettivamente ci sono. Attenzione, però, a non scambiare una sequenza temporale con un rapporto causale: per questo occorrerà attendere l’analisi degli econometristi, che non potrà compiersi se non su serie statistiche più lunghe e con dati più disaggregati.

D’accordo. Ma quest’anno l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato e delle stabilizzazioni di contratti a termine c’è stato, e in misura nettissima. Almeno questo può già considerarsi come un effetto delle nuove norme.
C’è stato, e c’è stato anche uno scalino significativo in corrispondenza dell’entrata in vigore della nuova disciplina dei licenziamenti: indizio, questo, dell’importanza decisiva anche di questa disciplina – e non soltanto dell’incentivo economico – per il superamento del dualismo tra stabili e precari nel tessuto produttivo. Ma appunto, per ora possiamo parlare soltanto di indizi. Il rapporto di causa/effetto e l’entità dell’effetto stesso potranno essere oggetto di una valutazione seria non prima dell’anno prossimo.

Lei ha anche più volte sostenuto che uno dei punti deboli di questa riforma è nelle politiche attive. Che cosa ha inteso dire?
Ho detto pure che le nuove norme producano già una condizione di sicurezza economica, per i lavoratori che perdono il posto, molto maggiore rispetto all’ordinamento precedente: la nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego è ora davvero universale e non sfigura nel panorama europeo, né per entità né per durata. Inoltre, la sdrammatizzazione del licenziamento ordinario, sia esso di natura economico-organizzativa o disciplinare, renderà molto più facile per chi perde un lavoro a tempo indeterminato ritrovarlo. Anche il decreto sui nuovi servizi per l’impiego delinea un sistema di assistenza intensiva molto promettente, strutturato su linee condivisibilissime; su questo piano, però, la legge non basta proprio: l’efficienza di questi nuovi servizi dipende da una capacità di loro implementazione che anche nel migliore dei casi possibili le nostre amministrazioni del lavoro non riusciranno a esprimere in tempi brevi.

Quali sono le innovazioni previste dalla legge su questo terreno di cui lei prevede difficoltà di decollo effettivo?
La collaborazione tra servizio pubblico e operatori privati nel settore del collocamento ha già incominciato a essere sperimentata, e con successo, in alcune regioni come la Lombardia, il Trentino-Alto Adige e il Lazio. Ora si sono aggiunte anche Sicilia, Sardegna e Veneto. Ma si tratta soltanto dei primi passi su di una strada lunga, disseminata di ostacoli che occorre imparare a superare e trappole che occorre imparare a evitare. In particolare, l’idea del “contratto di ricollocazione” è ottima; ma la sua sperimentazione avrebbe dovuto partire dall’inizio del 2014, e invece sta partendo soltanto ora e su di un singolo caso: quello della crisi occupazionale di Alitalia.  Anche la buona imitazione di esperienze straniere eccellenti su questo terreno, come quella olandese, richiede del tempo. Lo stesso discorso vale per la formazione professionale: dobbiamo ancora dotarci di un sistema capillare e trasparente di rilevazione a tappeto dell’efficacia di ciascun corso di formazione.

Come dovrebbe funzionare?
Occorrerebbe che un’agenzia indipendente rilevasse sistematicamente gli sbocchi occupazionali effettivi per ciascun frequentatore di un corso di formazione comunque finanziato con denaro pubblico, in modo da poter individuare il tasso di coerenza degli sbocchi stessi con il contenuto della formazione impartita. E tutti i centri, le scuole, le facoltà universitarie, dovrebbero essere tenuti a pubblicare il tasso di coerenza rilevato negli anni precedenti per ciascuno dei propri corsi. Questo consentirebbe di fornire agli utenti un’informazione preziosa, che oggi in Italia manca quasi del tutto. Ma consentirebbe, soprattutto, di orientare il finanziamento pubblico solo sui corsi efficaci, così riqualificando la spesa pubblica in questo campo.

Le nuove norme che cosa prevedono a questo proposito?
La rilevazione dei dati e la valutazione circa l’efficacia di ciascuna misura di politica attiva sono previste nel cosiddetto “decreto Anpal”, che attribuisce all’Isfol il compito del monitoraggio. Ma, come dicevo prima, qui la legge non basta: occorre acquisire un know-how che oggi ci manca.

Qualcuno sostiene che, proprio per questo motivo, sarebbe stato più opportuno rinviare la riforma della disciplina dei licenziamenti a dopo che la capacità operativa di cui lei parla sia stata acquisita.
È la tesi di Michele Tiraboschi e dei vertici della Cgil. I quali, però, non considerano tre cose. La prima è che la riforma della disciplina dei licenziamenti, in Italia, costituisce un passaggio obbligato per rendere più fluido il mercato del lavoro e consentire un migliore funzionamento dei servizi di collocamento: non la si poteva rinviare a una fase due. La seconda è che l’avere fatto per prima la riforma dei licenziamenti applicandola soltanto ai nuovi assunti non ha tolto nulla a chi aveva già un posto di lavoro stabile, mentre ha presumibilmente reso molto più facile per i new entrants l’ottenimento di un lavoro a tempo indeterminato, che prima era per loro un miraggio. La terza è che – come dicevo prima – anche soltanto la nuova assicurazione contro la disoccupazione rende molto meno drammatico di quanto non fosse in precedenza la perdita del posto: la flexsecurity è fatta anche di questo.

Già, ma i sindacati obiettano che sulle altre misure in cui dovrebbe concretarsi la nuova security nel mercato del lavoro, e in particolare sul contratto di ricollocazione, il Governo non ha messo una lira.
Guardi che il contratto di ricollocazione si finanzierà da solo. Perché i casi sono due: o questa misura funziona, e allora per ogni voucher pagato a un operatore privato specializzato lo Stato risparmierà molto di più sulla spesa per il sostegno del reddito al disoccupato interessato e incasserà contributi e imposte sulla retribuzione attivata. Oppure l’operatore specializzato non riesce a ricollocare la persona interessata, e allora non verrà retribuito.

Oggi si parla molto di Jobs Act,  ma altri  elementi concorrono al cambiamento del contesto, tra i primi l’allungamento della vita lavorativa  e attiva di milioni di persone, la necessità di aggiornamento o di adattamento, quali implicazioni intravede?
Questa domanda apre un capitolo completamente diverso: quello delle politiche di active ageing, volte cioè a promuovere l’invecchiamento attivo delle persone. Su questo terreno non siamo solo indietro rispetto ai Paesi del centro e nord-Europa: siamo proprio all’anno zero.

In un’intervista al Corriere della Sera del 2 settembre scorso, però, il ministro Poletti ha detto che il drastico aumento dell’età del pensionamento disposto dalla riforma Monti-Fornero ha avuto un alto costo in termini di occupazione giovanile e che occorre consentire alla gente di andare in pensione prima, per fare spazio ai giovani nel tessuto produttivo.
Qui il ministro Poletti, a mio avviso, sbaglia. I Paesi dove è più alto il tasso di attività nella fascia dei cinquanta-sessantenni sono anche quelli nei quali è più alto il tasso di occupazione dei giovani. Questo si spiega agevolmente col fatto che in quei Paesi la spesa sociale non è destinata – come lo è da noi in larghissima prevalenza – a coprire il deficit di bilancio previdenziale causato dal pensionamento dei cinquantenni, bensì è destinata al finanziamento di servizi alle famiglie e alle comunità locali, per i quali vengono attivati molti posti di lavoro per i più giovani. Con questo non voglio dire che sia sbagliato consentire una maggiore flessibilità nell’età del pensionamento: al contrario, proprio il passaggio al regime contributivo consentirebbe di attivare molto più facilmente quella flessibilità, a costo zero per lo Stato. Ma non cadiamo nell’errore di pensare che un finanziamento statale del prepensionamento degli anziani favorirebbe i giovani: al contrario, li danneggerebbe, perché accollerebbe loro una quota aggiuntiva di debito da ripagare nei decenni futuri. Se fossi un ventenne o un trentenne, non voterei mai per un partito che predichi questa grave ingiustizia.

Già oltre due anni fa lei sottolineava che, in un crescente  contesto di debolezza occupazionale, centinaia di migliaia di posti di lavoro rimangono scoperti per la non corrispondenza tra le competenze richieste e quelle disponibili sul mercato: vede delle evoluzioni in questo campo?
È il fenomeno dello skill shortage: in Italia si stima l’esistenza di mezzo milione di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per difetto di manodopera con le attitudini richieste. Ventimila imprese artigianali ogni anno chiudono i battenti per raggiunti limiti di età dei loro titolari senza che sia possibile la trasmissione del loro know-how professionale e dell’avviamento commerciale alle nuove generazioni, male orientate nel mercato del lavoro. Sono interi giacimenti occupazionali che sprechiamo, soprattutto per il difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale, dei servizi di formazione e di quelli di collocamento.

Buona parte delle competenze richieste potrebbero essere  costruite e indirizzate, ma l’impressione è che il 60-70% delle  imprese si lamentano di una mancanza di competenze, ma poi i meccanismi per analizzare, rilevare questi gap e per applicare soluzioni effettive, rimangano molto vischiosi.
È così. La prima cosa da fare è attivare un data-base aperto a tutti, contenente un censimento permanentemente aggiornato di tutte le posizioni nelle quali si registra uno skill shortage, in modo che ogni operatore titolare di un contratto di ricollocazione possa avvalersene per individuare la posizione più vicina alle capacità della persona affidatagli e delineare un percorso di riqualificazione da proporle. Ma lo strumento fondamentale per risolvere il problema è un sistema di formazione professionale non più strutturato come un sistema scolastico di serie B, con i suoi corsi che si ripetono di anno in anno sempre uguali a sé stessi e le sue “cattedrine” strutturate per assicurare ai titolari un posto fisso e inamovibile; ciascuna iniziativa di formazione deve essere ideata in funzione di un’esigenza specifica espressa dal tessuto produttivo, e attuata con l’utilizzazione degli stessi strumenti e le stesse tecniche che la persona interessata dovrà utilizzare nel rapporto di lavoro.

Dalle evidenze emergenti sembra che siano sempre più necessarie azioni di rivitalizzazione e di evoluzione delle competenze e dell’apprendimento, ma, nel complesso, il sistema dedica sempre meno risorse ed è sempre più difficile applicarle adeguatamente. Non pensa che in questo modo aumenti la percezione di inadeguatezza della formazione quando più ce ne sarebbe la necessità?
Sì. E il modo per uscirne è costruire un sistema di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, centrato prioritariamente sugli interessi degli utenti – lavoratori e imprese – e non, come accade oggi, sull’interesse di chi vi è addetto a evitare l’obbligo di aggiornamento e lo stress da esame, o peggio all’inamovibilità. Un sistema di rilevazione capillare a tappeto della coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi metterebbe sotto stress tutto il sistema; ma sarebbe uno stress molto positivo. Oggi è proprio l’assenza totale di stress che condanna almeno metà del nostro sistema della formazione professionale all’inefficacia.

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