L’IGNAZIO MARINO PER CUI VOTAI AL CONGRESSO PD DEL 2009

LA MIA SCELTA, DETTATA ANCHE DA SIMPATIA E STIMA PERSONALE, FU DEETERMINATA SOPRATTUTTO DAL SUO SOSTEGNO CONVINTO ED ESPLICITO ALLA MIA BATTAGLIA PER LA RIFORMA DEL LAVORO (MA IL MARINO DI ALLORA NON AVEVA ANCORA SPOSATO LE SIRENE DELL’ANTIPOLITICA) – NO, COMUNQUE, AL LINCIAGGIO IN PIAZZA

Lettera pervenuta il 9 ottobre 2015 – Segue la mia risposta del giorno seguente.

Caro Ichino, ricordo che al congresso del Pd del 2009 per l’elezione del segretario lei diede pubblicamente il suo sostegno alla candidatura di Ignazio Marino, contrapposta a quelle di Pierluigi Bersani e di Dario Franceschini. Oggi confermerebbe quella scelta?
Guido Ceriani

La mia scelta congressuale del 2009 fu determinata principalmente da un’esigenza di coerenza rispetto alla battaglia per la riforma del lavoro, cui avevo dedicato l’intera mia vita adulta e per la quale avevo accettato l’elezione al Senato propostami da Veltroni l’anno prima: Ignazio Marino – che allora non aveva ancora sposato le sirene dell’antipolitica – era l’unico dei tre candidati alla segreteria del Pd che condivideva (e lo faceva con piena convinzione) il mio progetto di riforma del lavoro. In particolare, era stato tra i primi a firmare i miei disegni di legge per il Codice semplificato del lavoro e in diverse occasioni aveva preso pubblicamente le distanze dal conservatorismo della vecchia sinistra politica e sindacale sulla materia. Con questo stesso intendimento, per la segreteria regionale lombarda del Pd in quell’occasione appoggiai la candidatura di Maurizio Martina (nonostante che fosse collegata a quella di Bersani): anche l’attuale ministro dell’Agricoltura aveva sostenuto fin dall’inizio il mio progetto di riforma del lavoro. Allora i sostenitori della politica del Lingotto contestarono quelle mie scelte, dal momento che in quel frangente era Franceschini l’erede designato di Veltroni; il fatto è che Franceschini non mi appariva un interprete convinto della politica del Lingotto, tanto che in materia di lavoro aveva fatto sue le posizioni di Cesare Damiano. A distanza di sei anni non sono affatto pentito della scelta congressuale compiuta all0ra, poiché essa mi consentì di continuare apertamente la mia battaglia per quella che consideravo e tuttora considero la più importante tra le riforme; contribuì inoltre non poco a mettere in crisi le posizioni conservatrici della sinistra Pd in materia di lavoro, ponendone in rilievo le contraddizioni. Quanto, infine, alla vicenda del sindaco di Roma, osservo soltanto che nelle elezioni comunali del 2013 Marino prese a cavalcare insistentemente l’onda dell’anti-politica, sottolineando con forza il suo essere espressione della società civile e non del ceto politico: il suo slogan elettorale fu “Non è politica, è Roma”. Ebbene, il suo tracollo inglorioso di questi giorni mostra, per un verso, come anche chi si presenta come espressione della società civile possa soffrire, eccome, dello stesso difetto di civic attitudes di cui soffre tanta parte del ceto politico; per altro verso come la professionalità politica, nella gestione della cosa pubblica, non sia affatto un optional: se non ne disponi personalmente, devi almeno avvalerti di chi invece la possiede. Ignazio Marino ha fallito non solo per l’uso a dir poco disinvolto di una carta di credito comunale, ma anche e soprattutto per la sua velleità di fare ostentatamente a meno del minimo indispensabile di professionalità politica. Lo scrive uno che si è sempre considerato un politico di complemento.
Detto questo in doverosa risposta alla domanda che mi viene posta circa la mia scelta di sei anni or sono, aggiungo soltanto che tutto vorrei in questo momento, tranne accodarmi al linciaggio che Ignazio Marino sta subendo. Valgano in proposito le parole di Claudio Magris sul
Corriere di domenica: Nulla autorizza la canea coatta e gregaria, l’accanita, compiaciuta e vomitevole ferocia con la quale ci si eccita giulivamente a distruggere un uomo […]  Se Marino ha compiuto illeciti, negligenze gravi o leggerezze inammissibili in un Sindaco, è giusto che ne paghi le conseguenze. Giudicato, se possibile dalla magistratura e non dal branco.     (p.i.)

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