LA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI CAMBIA LE COSE ANCHE PER I VECCHI RAPPORTI

LA NUOVA DISCIPLINA FINISCE COLL’OPERARE ANCHE COME UNA SORTA DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA DELLE NORME CONTENUTE NELLA LEGGE FORNERO DEL 2012, CHE IN UN PRIMO TEMPO ERANO STATE SVUOTATE DA UN ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE FORTEMENTE CONTRARIO

Intervista a cura di Attilio Barbieri, pubblicata da Libero il 23 ottobre 2015

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Professor Ichino, come giudica nel suo complesso il Jobs Act?
Per dare una risposta seria a questa domanda proporrei di distinguere i sei decreti attuativi che operano direttamente e immediatamente, per effetto della pubblicazione delle nuove disposizioni nella Gazzetta Ufficiale, dai due decreti la cui efficacia dipende dalla capacità di implementazione delle strutture amministrative competenti: quello che istituisce l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, l’ANPAL, e quello che unifica i tre vecchi ispettorati del lavoro in un unico Ispettorato nazionale. Su questi ultimi due è doveroso sospendere il giudizio.

E sui primi sei?
Complessivamente ne do un giudizio molto positivo: un mutamento profondo del nostro diritto del lavoro, nella direzione giusta. Cioè un allineamento ai migliori modelli europei.

Possiamo aspettarci che ne esca, oltre che un diritto del lavoro, anche un mercato del lavoro più europeo?
Sul mercato del lavoro si sta già verificando un effetto di maggiore fluidità. Non soltanto in entrata, dove si registra un aumento massiccio delle assunzioni a tempo indeterminato, 300.000 in più nei primi otto mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014: segno che le imprese questa volta si fidano dell’effettività della riforma dei licenziamenti applicabile ai nuovi contratti. Ma anche in uscita.

La nuova disciplina dei licenziamenti, però, si applica solo ai rapporti di lavoro nuovi.
Sì, ma la nuova disciplina finisce coll’operare un po’ come una sorta di interpretazione autentica della legge Fornero del 2012. Infatti nelle sentenze che applicano il vecchio articolo 18 si sente già chiaramente che molti giudici stanno aggiustando i loro criteri di applicazione di quella legge, avvicinandone molto gli effetti rispetto a quelli della nuova disciplina. Per altro verso, influisce sull’orientamento dei giudici anche il fatto che il nuovo trattamento di disoccupazione, molto più robusto, e il contratto di ricollocazione si applicano a tutti i licenziati, anche quelli il cui rapporto è incominciato prima della riforma.

Dalle politiche passive a quelle attive: come si vince la sfida in concreto?
Sul terreno dei servizi al mercato dobbiamo proprio costruire il nuovo sistema quasi da zero. Il sistema attuale è per la massima parte autoreferenziale, nel senso che funziona esclusivamente al servizio di se stesso, ovvero di chi vi è addetto. Manca totalmente il controllo circa i risultati, che invece è la regola nel centro e nord-Europa. D’ora in poi abbiamo bisogno di vertici politici che si impegnino al conseguimento di risultati precisi, specifici e misurabili; e di dirigenti ingaggiati sulla base della fissazione di obiettivi altrettanto precisi e misurabili. E che vengano sostituiti se non li raggiungono. Per questo, ovviamente, occorre che essi recuperino le proprie prerogative manageriali. E poi occorrono anche organi indipendenti di valutazione

E la riforma dei servizi sarà decisiva per questi aspetti?
Decisivo sarà il modo in cui essa verrà implementata.

Parliamo, allora, dell’Anpal. L’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro riuscirà ad entrare a regime dal 1° gennaio del 2016?
A muovere i primi passi, credo proprio di sì. Per entrare a regime occorrerà probabilmente qualche tempo in più.

Non sarebbe stato preferibile affidare alle Agenzie private per il lavoro l’attività di profilazione dei disoccupati, invece che affidarla ai Centri per l’Impiego?
Si sarebbe potuto. Ma la profilazione, in realtà, la fa direttamente il computer sulla base dei dati individuali inseriti: non attribuirei un peso eccessivo a questo aspetto procedurale.

Già, ma la nuova norma lascia le Agenzie private al palo per quatti mesi prima di poter entrare in partita: non le sembra un po’ troppo.
In tempi normali, la maggior parte dei lavoratori che perdono il posto ritrovano una occupazione in due o tre mesi senza gravi problemi; sarebbe dunque fuori luogo attivare il servizio di assistenza intensiva prima che se ne sia verificata la effettiva necessità nel caso singolo. Vero è che in alcuni casi è facilmente prevedibile fin da subito che di quel servizio ci sarà bisogno: in quei casi è sbagliato attendere dei mesi prima di attivarlo. Nel nostro caso, poi, la determinazione del requisito in quattro mesi di disoccupazione è nata da una necessità di copertura finanziaria posta in modo molto stringente dalla Ragioneria generale: si è voluto rafforzare il requisito al fine di ridurre l’impegno di spesa. Concordo con lei che sarebbe stato meglio ridurre a due mesi, come in Germania.

Il severance cost, almeno per i dipendenti assunti con il contratto a tutele crescenti è certo. Viene meno uno degli ostacoli storici che hanno rallentato il flusso degli investimenti esteri in Italia?
Non era l’unico ostacolo, certo. Ma uno dei più rilevanti, sì.

Il governo sta lavorando a uno Statuto del lavoro autonomi con l’obiettivo di separare le vere prestazioni occasionali dal finto lavoro indipendente. Cosa ne pensa?
Ne penso molto bene: mi sembra che l’intervento di alleggerimento fiscale e del contributo previdenziale e l’estensione di una assicurazione generale per le malattie più gravi corrispondano esattamente a quello di cui i lavoratori autonomi hanno maggiore necessità oggi.

Nell’intervento al convegno di Gi Group e British Chamber of Commerce sul Jobs Act lei ha detto che sarebbe sciocco pretendere di giudicare gli effetti della riforma guardando i dati sugli occupati diffusi dall’Istat. Che cosa ha inteso dire?
I dati forniti dall’Istat riguardano lo stock degli occupati e quello dei disoccupati. Le variazioni di questi stock dipendono dall’aumento dei consumi e degli investimenti. Ora, è difficile pensare che una riforma entrata in vigore per metà a marzo e giugno, per l’altra metà a settembre, abbia avuto un effetto così immediato su consumi e investimenti da produrre aumenti dell’occupazione già nei primi due terzi dell’anno. La riforma può invece avere influito sulla qualità del flusso delle nuove assunzioni: quel 34,6 per cento in più di assunzioni a tempo indeterminato non si spiega se non come un suo effetto. Ed è un effetto di enorme rilievo, sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale.

E quando si vedranno gli effetti della riforma e del nuovo contratto a tutele crescenti sul tasso di occupazione?
Nell’arco del prossimo anno e dei successivi. Ci penseranno allora gli econometristi a distinguere quanto dell’aumento sarà imputabile alla sola inversione della congiuntura economica e quanto alla riforma.

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