QUANDO L’ERGASTOLANO NON SI REDIME

NEI CASI IN CUI IL RECUPERO DEL CONDANNATO SI PRESENTA PIÙ DIFFICILE, AL LIMITE DELL’IMPOSSIBILITÀ, L’UNICA VIA D’USCITA CONSISTE IN UN DISPIEGAMENTO STRAORDINARIO DI RISORSE PER LA RIEDUCAZIONE

Lettera pervenuta il 17 marzo 2016, a seguito della pubblicazione sul Corriere della Sera del 15 marzo del mio articolo Se la legittima difesa della società civile diventa feroce – Segue una mia breve risposta

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Egregio Senatore Ichino,
le scrivo queste righe di getto, dopo aver letto il suo intervento sul Corriere a proposito di ergastolo e recupero. Mi ha molto colpito, un po’ perché ho sul comodino, in attesa di essere letto, proprio il libro di Fassone, un po’ perché sento parlare di “incostituzionalità dell’ergastolo” sin dai miei anni universitari, quando un compagno di collegio discusse la tesi in Diritto Costituzionale su questo tema, impopolare per i grandi media; e a me, invece studente di Lettere, fece assai impressione.

Il suo pezzo è bellissimo: convincente, argomentato, a tratti perfino lirico; non avevo del resto bisogno di essere persuaso sui punti che lei ha svolto, e tralascio anche la citazione di alcune sentenze della Corte Costituzionale in merito.
Però così è troppo semplice.
Intendo: se prendiamo le storie di Salvatore e Carmine, che potremmo definire di redenzione, anche il più ottuso forcaiolo verrebbe convinto dai suoi ragionamenti.
Io penso invece a Franco, a Giuseppe, a Nicola e agli altri ergastolani che ho conosciuto, qualcuno passato anche dal 41-bis o dall’Alta Sicurezza . Ho trascorso con loro un anno; un anno scolastico per la precisione, avendo insegnato qualche tempo fa nel carcere di Porto Azzurro. In fondo solo un anno, per me lunghissimo, e in fondo solo una settantina di detenuti incrociati, il che è troppo poco per mettersi a pontificare; comunque è stato un punto di vista privilegiato, perché ho passato molto tempo tra loro, o almeno le mie 18 ore settimanali sono state un tempo maggiore rispetto ai due incontri annuali che hanno normalmente con gli educatori o con gli psicologi.
Ecco, Franco, Giuseppe, Nicola sono brutti, sporchi e cattivi; e irrecuperabili.
Tutti mi chiedono se le persone che ho conosciuto in carcere si sono pentite di quel che hanno commesso, ma se non hanno la percezione di avere sbagliato, come possono pentirsi? Non è la mia sfiducia nell’uomo, ma ho toccato con mano la loro morale quasi pre-omerica: servono soldi? faccio una rapina e ammazzo sette guardie giurate; mia moglie mi tradisce? sgozzo lei e il suo amante; il mio vicino di casa mi ha rubato un maiale? gli scanno i figli.
Questo mi pare il punto più onesto da cui si dovrebbe partire per concepire la funzione della pena: posto che per alcune persone (ma fosse anche una sola) non si può davvero parlare di rieducazione, come ci dobbiamo comportare? buttiamo la chiave? li ammazziamo? restano esseri umani, no? allora che ne facciamo? Come gestiamo noi, dalla parte dei giusti, belli e buoni, il grumo di male, che forse è anche nostro, che questi individui ci sbattono in faccia con le loro stesse esistenze?
Nel mio piccolo ho svolto un esperimento: la pesantezza della quotidianità in carcere mi aveva reso molto pessimista, ma poi ho invitato un attore per uno spettacolo tra le sbarre; ho chiamato uno dei migliori, che è venuto senza esitazione, e ha tirato fuori dai miei alunni risorse inaspettate, anche solo di attenzione. Ma ci è voluto davvero un campione del palcoscenico. Insomma, se a questo uomini si dà il meglio, anche loro danno il meglio di sé, qualsiasi cosa questo significhi; il fatto è che le carceri italiane oggi non sono certo “il meglio”, e anzi peggiorano notevolmente i loro ospiti forzati; ma questo è un tema arcinoto.
Grazie se mi ha dedicato qualche minuto di attenzione, e grazie soprattutto per tenere vivo il dibattito. Con stima,
S. S.

Sono io che ringrazio S.S. per questa testimonianza preziosa. È proprio così, e tante altre esperienze analoghe lo confermano: nei casi più difficili, nei quali il recupero del condannato appare quasi impossibile, l’unica via d’uscita consiste in un dispiegamento straordinario di risorse per la rieducazione.     (p.i.)

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