DIALOGO TRA GIUSLAVORISTI SUI RISULTATI DELLA RIFORMA: SECONDA PUNTATA

ANCORA SUI NON FACILI RAPPORTI TRA DIRITTO ED ECONOMIA DEL LAVORO E SUI LIMITI DEL DISCORSO ECONOMICO QUANDO SONO IN GIOCO I DIRITTI DELLA PERSONA – UN MIO INVITO AL COLLEGA A TROVARE NEI MIEI SCRITTI IL LUOGO COMUNE INFONDATO DI CUI MI ACCUSA

Replica di Valerio Speziale, 31 maggio 2016, alle mie chiose alla sua lettera del 23 maggio 2016 – Come a quella prima lettera, anche a questa rispondo con alcune chiose evidenziate con il paragrafo rientrato, il carattere corsivo e il colore blu..

 

Caro Pietro, grazie molte della tua risposte e delle tue osservazioni. Cerco di replicare alle tue chiose (anche se non a tutte).

1. Mi sembra che siamo d’accordo sul fatto che il poco tempo trascorso dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, la difficoltà di “isolare” la crescita dei rapporti stabili connessi alla riduzione delle tutele in materie di licenziamenti da altri fattori (incentivi economici che riducono il costo del lavoro, crescita del PIL, riduzione del costo delle materie prime, incidenza della pressione fiscale, aspettative positive di fuoriuscita dalla recessione ecc.) rendano impossibile delineare  delle conclusioni certe sugli effetti della nuova disciplina in materia di licenziamenti in relazione alla diffusione di contratti a tempo indeterminato.
Tu parli di “indizi” e “ipotesi”. Io direi che si tratta di “congetture” che, a differenza degli indizi – che sono una deduzione non certa ricavabile dall’analisi della realtà -, costituiscono osservazioni per le quali mancano riscontri seppure minimi nei dati economici a nostra disposizione.

A me sembra che se, per la prima volta in mezzo secolo, in corrispondenza con l’entrata in vigore di un forte incentivo economico (1° gennaio 2015), si registra un brusco aumento della quota delle assunzioni a tempo indeterminato, e poi in corrispondenza con l’entrata in vigore di una riforma dei licenziamenti (7 marzo 2015) si registra uno scatto ulteriore di quel tasso di aumento, questo possa essere considerato un indizio di una qualche correlazione causale tra ciascuna delle due misure adottate dal Governo e l’aumento delle assunzioni stabili. Allo stesso modo mi sembra che, se nell’arco del 2015 si registra un aumento generale delle assunzioni a tempo indeterminato di circa il 47 per cento rispetto all’anno preceedente e un aumento del 23 per cento delle trasformazioni da apprendistato in rapporto ordinario a tempo indeterminato, e se quest’ultimo fenomeno si verifica in un campo nel quale si applica soltanto la riforma dei licenziamenti e non l’incentivo economico, anche questo possa considerarsi almeno come un indizio del fatto che la riforma dei licenziamenti un qualche contributo all’aumento della quota delle assunzioni stabili sul flusso totale lo abbia dato. Si può e deve dire che un indizio non costituisce ancora una prova; ma non mi sembra che si possa dire che “mancano riscontri, sia pure minimi” di quella correlazione.

SpezialeNon va dimenticato, tra l’altro che le conclusioni dell’Inps, espresse nell’Osservatorio sul Precariato, attribuiscano un rilievo fondamentale, nella job creation di contratti stabili, al contributo economico (nella misura del 62%) e che il restante 38% potrebbe essere stato determinato da fattori che non hanno alcun rapporto con il contratto a tutele crescenti.
Tu dici che “nulla consente di escludere che, se non ci fosse stata anche la riforma della disciplina dei licenziamenti”, i nuovi rapporti stabili sarebbero stati inferiori. Si tratta di una osservazione, che in mancanza di prove “controfattuali” (non siamo in grado di dire cosa sarebbe accaduto in assenza di una nuova normativa che è invece stata emanata) e della possibilità di “misurare” l’effettiva incidenza delle tutele crescenti sui contratti stabili, è quella che io definisco appunto una “congettura” a cui non è possibile attribuire alcun significato.

Però l’aumento – per la prima volta dopo mezzo secolo di continua riduzione – di circa un quinto delle trasformazioni di rapporti di apprendistato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato ordinario, dove l’incentivo economico non ha operato, costituisce almeno un inizio di verifica controfattuale.

E mi pare che queste conclusioni siano estensibili anche al raffronto tra i dati del quadrimestre collocato “a cavallo del 2015” e quelli del quadrimestre “a cavallo della fine del 2014”. La non omogeneità dei dati impedisce un loro corretto raffronto. Tu ribadisci che si tratta sempre di “indizi”, a me sembra che si tratti di qualcosa di meno (semplici “congetture”, appunto).

Mi sono proposto di spiegare in un articolo del marzo scorso perché il confronto tra trimestri o quadrimestri posti a cavallo della fine d’anno è comunque molto più significativo del confronto tra un singolo mese del 2016 e il singolo mese corrispondente del 2015.

2. Partendo dal presupposto condiviso che è necessario “depurare” l’aumento dei contratti stabili dalla cause diverse dalla riduzione delle tutele in materia di recesso, affermi che “gli economisti stanno già lavorando su questo punto, proponendosi di isolare l’effetto dell’incentivo economico e quello della riforma dalle altre variabili che possono avere influito sulle variazioni quantitative e qualitative dell’occupazione”. Tuttavia, come sottolineato dal Rapporto sulla programmazione di bilancio del 2016 – che riporta, su tale aspetto, le conclusioni di molta letteratura economica in materia – è molto difficile “isolare” gli effetti delle riforme del lavoro da altri fattori macroeconomici che incidono sulla diffusione di contratti stabili. In definitiva questi modelli teorici – secondo molti economisti – sono altamente discutibili nei risultati a cui pervengono  e, quindi, le ipotesi eventualmente formulate hanno un grado di attendibilità scientifica alquanto limitato. Pertanto, quando e se queste ricerche verranno rese pubbliche, occorrerebbe essere cauti nell’attribuire ad esse un valore di verità che in realtà non possiedono.

ichinoPieno accordo su questo invito alla cautela. Questo, però, non significa che gli studi econometrici non aiutino a fare luce sulla realtà dei rapporti economici. La cautela è sempre doverosa, ma la cultura giuridica – e quella giuslavoristica in particolare – se vuole uscire dall’autoreferenzialità in cui si è pericolosamente isolata nei decenni passati (per non avere ascoltato come avrebbe dovuto la lezione di Gino Giugni), deve imparare a dialogare con la cultura economica e quella sociologica molto di più e meglio di quanto non abbia fatto fin qui. Se non altro perché la valutazione – di natura schiettamente giuridica – della conformità delle norme di rango inferiore rispetto a quelle di rango costituzionale o sovranazionale dipenderà sempre di più dal risultato dell’analisi degli effetti delle norme stesse.

3. Sostieni di non aver mai affermato che la riduzione delle tutele dei licenziamenti avrebbe avuto effetti positivi sui livelli occupazionali. Ritieni, peraltro, che la riduzione delle protezioni in questa materia può determinare: a) un incremento occupazionale legato a “un aumento degli investimenti esteri favoriti dall’allineamento dell’ordinamento lavoristico agli standard prevalenti nel panorama internazionale”; b) una “maggiore facilità di accesso delle nuove generazioni al contratto a tempo indeterminato e (il) superamento del dualismo fra stabilmente protetti e stabilmente non protetti nel tessuto produttivo“. In verità a me sembra che, nei tuoi scritti, abbia più volte collegato la riduzione della job employment protection e l’aumento dell’occupazione. Rilevo che adesso esprimi un’opinione diversa.

Qui non posso fare altro che… invitarti a essere più preciso nella o nelle citazioni. Quasi tutti i miei articoli e saggi, pubblicati dalla fine degli anni ’60 a oggi, sono agevolmente scaricabili dall’Archivio dei miei scritti, da dove si possono scaricare anche i miei libri non più in commercio. Se non riuscirai a trovare citazioni atte a sorreggere la tua “accusa”, dovrai riconoscere di avere proiettato sul mio pensiero quello che è un luogo comune diffuso. Niente di grave: lo hanno fatto per decenni numerosi altri miei critici. Sarà tuo merito aver contribuito, con questo dialogo aperto e sereno, a liberarmi da quell’imputazione. 

Non vi è dubbio che incrementare i rapporti di lavoro stabili sia un obiettivo molto importante anche se forse, in considerazione della nuova disciplina, bisognerebbe parlare di rapporti “semi stabili”, in quanto essi possono essere interrotti con un “costo di separazione” (per usare un termine da te spesso adottato) assai modesto, soprattutto nei primi anni di servizio. Vi potrebbero quindi essere conseguenze negative su “produttività e qualità” del lavoro che riconnetti alla stabilità dell’impiego, in considerazione proprio della precarietà intrinseca connessa a contratti di lavoro facilmente risolubili.

In Italia, a seguito della riforma del 2015, il “costo di separazione” – quello che gli economisti chiamano severance costfiring cost – si è molto avvicinato a quello degli altri maggiori Paesi europei, rimanendo tuttavia mediamente un poco  più alto. Basti considerare che l’importo massimo dell’indennizzo in Italia nel nuovo regime è di 24 mensilità, mentre è di 18 mensilità in Germania, di 6 mensilità più il costo della convention de conversion (mediamente 12 mensilità) in Francia, di circa una mensilità per anno di anzianità di servizio in Spagna e Olanda, e in Gran Bretagna gli indennizzi abituali sono nettamente inferiori rispetto a quelli dell’Europa continentale. A questo si aggiunga che in Italia il datore di lavoro che licenzia è tenuto a pagare all’Inps un cospicuo contributo una tantum per il finanziamento del trattamento di disoccupazione. Per non dire dell’apparato sanzionatorio contro il licenziamento discriminatorio, che in Italia resta nettamente più severo rispetto al resto d’Europa. Checchè ne dicano gli osservatori superficiali, dunque, anche se si considera soltanto la media dei casi di licenziamento non discriminatorio, il severance cost italiano resta superiore rispetto al resto del continente. E parliamo dell’Europa: cioè della regione del mondo dove la stabilità del rapporto di lavoro è tutelata più e meglio che in qualsiasi altra. Se vogliamo qualificare 300 milioni di lavoratori europei a tempo indeterminato come “semi stabili”,  facciamolo pure; purché lo facciamo soltanto nei nostri dibattiti fra italiani, con l’occhio rivolto al regime del vecchio articolo 18 St. lav.: all’estero non verremmo compresi.

Comunque, a parte queste considerazioni, gli effetti positivi da te descritti (incremento degli investimenti esteri; maggiore facilità di accesso a rapporti di lavoro stabile e superamento del dualismo nel mercato del lavoro) o sono del tutto da dimostrare o sono smentiti dai dati a nostra disposizione.

Smentiti, proprio no. Mi pareva che fossimo arrivati a un accordo sul punto che “sono ancora da dimostrare” e che è troppo presto per pretendere di dimostrare, sulla base dei dati disponibili, sia l’una tesi sia l’altra. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, in un saggio del 2012 (La riforma dei licenziamenti ed i diritti fondamentali dei lavoratori), hai sostenuto che, nel rapporto tra disciplina dei licenziamenti e capacità di attrarre investimenti esteri, “nessun nesso causale è stato dimostrato“, anche se una “qualche correlazione inversa tra grado di vischiosità del mercato del lavoro e attrattività del Paese per gli investimenti diretti esteri è abbastanza evidente” (p. 5). In realtà, non esistono studi che dimostrino tale nesso causale (come tu stesso rilevi) e, anche in questo caso, vi sarebbe il problema di “isolare” gli investimenti esteri determinati dalle minore tutela in materia di recessi da quelli che invece sono causati da fattori del tutto indipendenti sia in senso positivo (ad esempio la posizione geografica dell’Italia in relazione a determinati mercati; il regime fiscale di vantaggio garantito in alcune aree del paese; la tradizione manifatturiera in specifici settori ecc.), sia in senso negativo (la presenza della criminalità organizzata; l’eccessivo peso del carico fiscale ecc.).
Mi sembra quindi che la “correlazione inversa” da te affermata appartenga ancora una volta all’ambito delle “congetture”.
Quanto poi al secondo aspetto (la minore protezione contro i licenziamenti dovrebbe facilitare l’accesso al contratto a tempo indeterminato e superare il dualismo tra insiders – protetti –  e outsiders – i lavoratori non tutelati), rilevo che ciò che affermi è proprio quanto deve essere ancora dimostrato. Tra l’altro, vi sono studi che sottolineano come, anche nell’ambito delle imprese soggette alla stabilità obbligatoria della legge 604/1966 (con una tutela contro i licenziamenti illegittimi che esclude sempre la reintegrazione e prevede soltanto modesti indennizzi monetari) vi sia una utilizzazione assai ampia di contratti “precari” diversi da quelli a tempo indeterminato, con risultati che, almeno per quanto riguarda il passato (e per un lungo periodo temporale), non confermano le tue conclusioni.

Che i contratti precari siano aumentati anche nel settore delle piccole imprese italiane, e  che il fenomeno si verifichi anche negli U.S.A., dove la protezione contro il licenziamento è molto modesta, è verissimo. Questo però mostra soltanto che le differenze di produttività  fra individui sono in forte e continuo aumento, che questo aumento mette in crisi gli standard di trattamento dovunque, e che i più professionalmente deboli pagano diffusamente tale loro condizione con una minore stabilità del rapporto. In tema di evidenze empiriche, però, ti segnalo anche la correlazione abbastanza stretta che si registra, nel confronto tra i Paesi dell’OECD,  fra rigidità della protezione contro i licenziamenti e percentuale dei disoccupati di lunga durata sul totale dei disoccupati: per dare solo due dati ai poli opposti della rassegna, nell’Italia dell’articolo 18 i long term unemployed sono due ogni tre disoccupati, nel Regno Unito (cioè nel Paese europeo dove la tutela contro il licenziamento è più lasca) uno su sei, negli U.S.A. uno su dieci. Giustissimo andare cauti nell’attribuire a questa correlazione una valenza causale; ma la correlazione c’è, ed è di quelle che dovrebbero dare a tutti da pensare. Anche perché, come è noto, lo stesso tasso di disoccupazione può avere significati diversissimi a seconda della percentuale dei disoccupati di lunga durata.

Infine la tesi del dualismo tra insiders e outsiders (sempre determinata, secondo te, dalla disciplina dei licenziamenti) è smentita dall’elevato tasso del turn over italiano (la mobilità in entrata ed uscita dal mercato d el lavoro e la creazione/distruzione di occupazione), che è tra i più elevati in Europa in base a numerosi studi effettuati nel corso di oltre 25 anni. Ed anche in tempi recenti una importante ricerca effettuata dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dalla Fondazione Brodolini rileva che “il mercato del lavoro italiano sembra caratterizzato da una sorta di ‘liquidità‘” e da un’elevata mobilità “piuttosto che da una semplice segmentazione tra insiders e outsiders“.

Le stesse ricerche, però, osservano come i tassi maggiori di mobilità si registrino nel settore delle imprese che si collocano sotto la soglia dei 16 dipendenti, molto più numerose in Italia rispetto agli altri Paesi dell’OECD, e nel settore delle collaborazioni autonome, che in Italia “ospita” una quota di forza-lavoro altissima (seconda soltanto a quella greca): più di un quarto del totale dei lavoratori attivi.

4. Mi rimproveri di essere un giurista “tradizionale“, che lega “il benessere del lavoratore, la sua sicurezza, libertà e dignità… esclusivamente (alla) possibilità… di rivolgersi al giudice per far valere un proprio diritto“. Mentre non prenderei in considerazione i numerosi effetti negativi di questa impostazione (riduzione delle retribuzioni; dualismo tra insiders/outsiders derivante dalla tutela forte in tema di licenziamenti; mancata considerazione dell’impatto della disciplina del rapporto sulla produttività del lavoro). Senza dimenticare che, a tuo giudizio, il reddito ed il benessere del lavoratore sarebbero meglio garantiti da un mercato del lavoro “fluido” dove poter trovare migliori possibilità di occupazione, con il sostegno, nelle transizioni da un contratto all’altro, di un trattamento di disoccupazione veramente universale, robusto e di durata adeguata.
In realtà ho sempre ritenuto che l’analisi economica del diritto – a cui costantemente ti richiami nelle critiche che mi rivolgi – sia un elemento fondamentale per la comprensione del diritto del lavoro. Le riflessioni contenute nella mia lettera e quelle espresse in questa replica dovrebbero dimostrare esattamente il contrario. Tuttavia, se operiamo in un contesto di Law and Economics, dobbiamo prendere in considerazione tutti gli aspetti di questa disciplina, sottolineando i limiti teorici e dei risultati da essa raggiunti, senza cercare di attribuire all’analisi economica del diritto conclusioni che non è in grado di esprimere per utilizzarle strumentalmente a sostegno delle proprie tesi.

Di nuovo, ti chiedo – nell’interesse della chiarezza della nostra discussione – di precisare in quale mio scritto io abbia “cercato di attribuire all’analisi economica del diritto conclusioni che essa non è in grado di esprimere”. E di precisare a quali conclusioni ti riferisci. 

Oltre agli esempi già fatti, per tornare ad uno dei punti da te analizzati, vi sono numerosi studi teorici (inclusi quelli della Banca d’Italia e dell’Istat) che dimostrano come il problema della produttività del lavoro dipende in misura ridotta dalla disciplina normativa e sia soprattutto una funzione di altre variabili molto più importanti, quali l’innovazione tecnologica, lo stock di capitale investito e la Produttività Totale dei Fattori. Non solo. Vi sono numerose ricerche secondo le quali regolamentazioni severe in materia di licenziamenti – che rendono più difficile il recesso – contribuiscono alla stabilità del rapporto ed incentivano investimenti in formazione che hanno effetti benefici sulla produttività. Mentre contratti meno stabili e continuativi (come nel caso di rapporti a termine o di scarsa tutela dei licenziamenti) scoraggiano gli investimenti formativi e la formazione di capitale umano, con conseguenze negative sulla produttività. Come vedi, proprio in relazione a questo tema, la recente riforma del contratto a tutele crescenti potrebbe determinare risultati opposti a quelli da te auspicati.

Mi darai atto, almeno, che è del tutto negativo il contributo alla produttività del lavoro italiano di centinaia di migliaia di lavoratori tenuti in freezer con la Cassa integrazione a zero ore per cinque, dieci o persino quindici anni, e di altre centinaia di migliaia che vengono tenuti permanentemente, anche per una vita intera, in posizioni sostanzialmente improduttive pur di evitarne il licenziamento (pensa alle decine di migliaia di “partecipate pubbliche” tenute in vita soltanto in funzione di ammortizzatori sociali): tutti questi vengono – correttamente – computati nella contabilità della produttività del lavoro italiano. E il fenomeno è figlio proprio di un regime  ispirato alla job property.

A parte queste considerazioni, a me sembra che, nel tuo approccio, reddito e benessere del lavoratore sono valutati esclusivamente da un punto di vista economico, senza considerare altri aspetti essenziali. “Sicurezza, libertà e dignità” richiedono proprio “diritti”, non da utilizzare esclusivamente davanti al giudice, ma quali posizioni di vantaggio che sono riconosciuti al lavoratore in considerazione del fatto che, nell’adempimento del contratto, egli impegna la propria persona, con una sfera biologica e psicologica che non può essere presa in considerazione soltanto in base a un’analisi costi/benefici. Tutta la teoria dei diritti fondamentali di derivazione costituzionale nazionale ed europea si fonda su tale presupposto. E tali diritti devono ovviamente essere fatti valere anche nella relazione contrattuale, a meno di non voler leggere il rapporto di lavoro esclusivamente in una logica “assicurativa” o di costi, dimenticando che l’esecuzione del contratto di lavoro è uno strumento di realizzazione della personalità umana.

Certo. Ma come puoi sussumere l’apparato sanzionatorio dell’articolo 18 contro i licenziamenti ritenuti dal giudice ingiustificati nei “diritti fondamentali” dei lavoratori? I diritti fondamentali sono quelli di rango costituzionale e dotati di un carattere di universalità; quell’apparato sanzionatorio non è affatto costituzionalmente vincolato (Corte cost. n. 46/2000) e, nella forma in cui lo abbiamo conosciuto, non è conosciuto in alcun altro ordinamento nazionale, né tra i Paesi dell’OECD né tra gli altri.

Mi sembra paradossale che l’ordinamento giuridico accresca i diritti di contraenti deboli anche in contratti a contenuto puramente economico (tutela del consumatore o dei risparmiatori nei mercati finanziari) o aumenti i diritti coinvolti in relazioni personali (ad es. nella famiglia o nelle unioni civili) ed invece nel rapporto di lavoro – dove tutele economiche e diritti fondamentali hanno il massimo rilievo – si segua un approccio “recessivo”, con il costante ridimensionamento dei diritti dei lavoratori. I costi del diritto del lavoro sono innegabili e non possono essere trascurati anche in funzione della regolazione giuridica. Non penso peraltro che questo possa essere l’unico fondamento della nostra disciplina.

Non puoi dare per accertato che l’ingessatura del posto di lavoro per una metà della forza-lavoro (qella coperta in Italia, fino a ieri, dall’articolo 18) costituisca una protezione complessivamente migliore, da un punto di vista sociale, rispetto a un regime veramente universale, che assicura a tutti un trattamento di disoccupazione di livello adeguato agli standard europei, combinato con un indennizzo per la perdita del posto anch’esso allineato agli standard europei, e con un assegno di ricollocazione che consente a chi a perso il posto di ingaggiare l’operatore privato considerato migliore per le sue esigenze per ottenerne una assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione. Potrai obiettarmi che quest’ultimo “pezzo” del sistema soffre di un grave ritardo nell’implementazione della riforma; e su questo ti do pienamente ragione. Ma non mi convincerai mai che una protezione – quale che essa sia – strutturalmente riservata soltanto a metà della forza-lavoro possa essere complessivamente migliore rispetto a una protezione veramente universale, a cui tutti hanno ugualmente diritto e accesso.

 Qui peraltro il discorso diventerebbe troppo complesso, perché riguarderebbe il contenuto e la stessa funzione del diritto del lavoro. Non credo che questa sia la sede opportuna dove affrontare questo tema. Grazie, comunque, di avermi dato la possibilità di un confronto dialettico così interessante.
Valerio

Grazie a te, Valerio. Il discorso, ovviamente, non finisce qui: spero che esso possa continuare, con te e con chiunque altro intenda partecipare a questa discussione.
Pietro

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab