PER NON AGGRAPPARSI AL VECCHIO LAVORO

LA VICENDA DELL’INNSE DI LAMBRATE COME QUELLA DELL’ALFA ROMEO DI ARESE: E’ MAI POSSIBILE CHE, DOPO MEZZO SECOLO IN CUI LE VICENDE DI QUESTO GENERE SI SONO SUSSEGUITE SEMPRE SECONDO LO STESSO LOGORO SCHEMA, ANCORA NON ABBIAMO IMPARATO AD AFFRONTARE LE CRISI INDUSTRIALI CON METODI UN PO’ PIU’ MODERNI?

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 5 agosto 2009

Sull’esito della vicenda Innse v. l’intervista pubblicata sul Sole 24 Ore il 13 agosto.

Che brutto spettacolo quello dello sgombero della Innse di Lambrate, la gloriosa fabbrica della Lambretta alle porte di Milano, con le forze dell’ordine che per disposizione del giudice allontanano gli ultimi 49 lavoratori (dei 2000 dei tempi d’oro) rimasti a difendere il posto con le unghie e coi denti! È mai possibile che, dopo mezzo secolo in cui vicende di questo genere si sono susseguite sempre secondo lo stesso logoro schema, ancora non abbiamo imparato ad affrontare le crisi industriali con metodi un po’ più moderni?

            Oggi la Innse di Lambrate, domani forse la Ideal Standard di Brescia, ieri cento altri casi analoghi, primo per importanza quello dell’Alfa Romeo di Arese. E sempre lo stesso copione: con il titolare che vuole chiudere lo stabilimento o ridurre l’attività, i lavoratori che vedono la prospettiva del licenziamento come una catastrofe economica e professionale, i loro rappresentanti sindacali che denunciano il carattere speculativo della manovra e dimostrano dati alla mano gli orizzonti di riconversione ecologica e immancabile prosperità che si dischiuderebbero all’azienda se solo non fosse in mano a un imprenditore inetto e vorace. Talora l’imprenditore è effettivamente incapace o inaffidabile; ma il problema si pone proprio perché non se ne trova uno migliore, pronto a rilevare l’azienda. Se l’imprenditore è incapace o inaffidabile, invitare i lavoratori a rimanergli attaccati a tutti i costi equivale a condurli in un vicolo cieco.

Le crisi industriali vanno affrontate in modo totalmente diverso. Pensiamo a come potrebbero andare le cose se i lavoratori coinvolti non vedessero la sola possibilità di salvezza nell’aggrapparsi al vecchio posto di lavoro. Se, come accade nei Paesi del nord-Europa, la perdita del vecchio posto non significasse affatto una catastrofe personale e familiare, ma fosse accompagnata, al contrario, da un robusto sostegno del reddito e soprattutto da un investimento sulla professionalità del lavoratore capace di incrementare il suo appeal nel mercato del lavoro. In Italia questa prospettiva stenta a prendere piede, perché prevale l’idea che il mercato del lavoro funzioni malissimo, sia una trappola infernale per i lavoratori. Ma le cose non stanno così. In un articolo in corso di pubblicazione nel prossimo quaderno della rivista ItalianiEuropei  (“L’essenza della flexsecuritty: ricollocare chi perde il posto, non limitarsi a indennizzarlo”) Gabriella Lusvarghi – capo di una delle maggiori società italiane di outplacement – mostra convincentemente come, in tempi normali, qualsiasi lavoratore che abbia perso il posto possa essere ricollocato in modo appropriato nel giro di tre-sei mesi. E . Nel corso di una recessione grave come quella attuale questi tempi medi si allungano, ovviamente; ma anche nella congiuntura negativa il mercato del lavoro continua a produrre quotidianamente contratti in grande quantità. Solo in provincia di Milano, in un anno normale come il 2007, i nuovi contratti di lavoro sono stati 200mila. In un anno di crisi nera come il 2009 si stima che la riduzione sia intorno al 15 per cento: quest’anno a Milano le assunzioni risulteranno dunque pur sempre intorno alle 170mila. Perché mai, in questo mercato, non dovrebbe essere possibile ricollocare appropriatamente gli ultimi 49 lavoratori della Innse? Perché non si tenta neppure di farlo, come se fosse un obiettivo irrealistico?

Pensiamo, per esempio, a un ordinamento e a un sindacato che, invece di proporsi di impedire i licenziamenti per ragioni economiche od organizzative, li subordinassero all’obbligo per l’imprenditore di attivare a sue spese un servizio efficiente di outplacement e di integrare il trattamento di disoccupazione dei lavoratori licenziati per il tempo necessario al reperimento della nuova occupazione: in questo modo si responsabilizzerebbe sul serio l’imprenditore riguardo al costo sociale delle sue scelte di ristrutturazione o di chiusura dell’azienda. E si attiverebbe un potente incentivo economico all’efficienza ed efficacia dei servizi di ricerca del nuovo posto e di riqualificazione mirata: se l’operazione sarà gestita bene, nel giro di sei mesi o un anno i lavoratori saranno tutti appropriatamente ricollocati e ampiamente indennizzati, con un costo accettabile per l’impresa.

Contro questa soluzione milita un’idea vecchia e molto inadeguata ai tempi: quella secondo cui le scelte di ristrutturazione o chiusura di un’azienda non dovrebbero essere lasciate all’imprenditore, perché spettano, in realtà, alla collettività. Di fatto, questa idea si traduce nell’antica prassi di ritardare il più possibile anche i licenziamenti inevitabili ricorrendo alla Cassa integrazione, così disincentivando i lavoratori dall’attivarsi per il reperimento della nuova occupazione e dando spazio alle loro illusioni circa la possibilità che il vecchio lavoro riprenda, anche quando le probabilità che questo accada sono ridotte a zero. Non sarebbe meglio per tutti rispettare la libertà dell’impresa, vincolando quest’ultima soltanto, ma seriamente, a farsi carico fino in fondo dei costi sociali delle sue scelte?

 

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