SULL’INFERNO DEI MIGRANTI IN LIBIA

Siamo abituati a criticare la giustizia del nostro Paese, imputandole le molte piaghe che effettivamente la affliggono; ora una sentenza della Corte d’Assise di Milano ci offre un buon motivo per sospendere le critiche e prendere atto di una pagina straordinaria che è stata scritta in un’aula giudiziale italiana

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Estratto dal resoconto stenografico della sessione pomeridiana del Senato del 12 dicembre 2017 – In argomento v. anche il testo della sentenza della Corte d’Assise di Milano 1° dicembre 2017, cui l’intervento si riferisce
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ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, siamo abituati a criticare la giustizia del nostro Paese, imputandole le molte piaghe che effettivamente la affliggono. Ora, però, la pubblicazione di una sentenza della Corte d’Assise di Milano ci offre un buon motivo per sospendere per un giorno le critiche e prendere atto di una pagina straordinaria che è stata scritta in un’aula giudiziale italiana.

Straordinaria, innanzitutto, è la vicenda di un gruppo di immigrati somali che in un centro di accoglienza italiano riconoscono uno dei loro aguzzini: un membro dell’organizzazione che in Africa, col pretesto di aiutarli a raggiungere l’Europa, ha organizzato il loro sequestro in diversi lager libici, dove li ha sottoposti alle sofferenze più atroci per estorcere dalle loro famiglie una sorta di riscatto, condizione per consentire loro poi di affrontare la pericolosissima traversata del Mediterraneo. Il gruppo di rifugiati a Milano blocca il connazionale, gli contesta le atrocità commesse, ma decide di non farsi giustizia da solo, bensì di denunciarlo alla polizia. Si tratta di un atto civilissimo e di fiducia nell’amministrazione giudiziaria del Paese che li ospita; un atto cui l’amministrazione della giustizia risponde nel modo migliore, con straordinaria competenza, efficienza e tempestività, applicando una norma del codice penale che attribuisce al giudice italiano, su richiesta del ministro della Giustizia, la giurisdizione su crimini commessi ai danni dei rifugiati, che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di essere perseguiti. Il fermo dell’imputato è avvenuto nel gennaio di quest’anno e la sentenza della Corte d’Assise è stata depositata il 1° dicembre di questo anno: dunque nel giro di meno di un anno non solo un’indagine complessa viene portata a compimento dalla Polizia giudiziaria e dalla Procura, ma si svolge anche fino alla conclusione un dibattimento che pone sotto gli occhi di tutto il mondo civile il massacro cui sono sottoposti i profughi africani nelle mani delle organizzazioni dedite – complice talvolta purtroppo la polizia libica – alla “gestione” e allo sfruttamento spietato del loro tragico viaggio verso le coste siciliane e calabresi.

La sentenza, che condanna l’imputato per le atrocità commesse, conclude un processo il cui svolgimento è stato caratterizzato da un’altissima tensione emotiva per la drammaticità delle vicende e l’enormità delle sofferenze che l’istruttoria ha fatto rivivere nell’aula della Corte d’Assise di Milano. La tensione emotiva è stata determinata anche dalla scelta della corte di sottolineare, nel governo del processo, la considerazione di tutte le persone coinvolte – non solo le parti lese, ma anche l’imputato, sua moglie e la sua figlia bambina – come persone umane, soggetti di emozioni e affetti familiari. La stampa aveva dato notizia a suo tempo della decisione della Corte di offrire all’imputato, in una pausa delle udienze, il tempo e lo spazio riservato, fuori dalle sbarre, in cui incontrarsi con le due familiari.

La sentenza, di oltre 100 pagine, è un vero e proprio trattato sull’inferno attraverso il quale passano gli immigrati che vengono dal cuore dell’Africa verso le coste del Mediterraneo. Credo che di ciò vada dato atto a una giustizia di cui troppo spesso vediamo solo i difetti. (Applausi della senatrice Puppato).

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