GLI EFFETTI DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE SUL LAVORO DEI RIDER

 

Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 25 gennaio 2020 – In argomento v. anche il mio articolo precedente in argomento pubblicato sullo stesso sito il 25 ottobre scorso, Per proteggere i rider si aboliscono le collaborazioni autonome (ivi i link a miei interventi precedenti sullo stesso tema).
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L’estensione ai rider della disciplina del lavoro subordinato

La sentenza della Corte di Cassazione pubblicata venerdì, n. 1663/2020, modifica in parte la motivazione ma conferma nel risultato pratico immediato la sentenza della Corte d’Appello di Torino del 4 febbraio 2019, che aveva accolto il ricorso di un gruppo di rider mirato a ottenere l’applicazione delle protezioni proprie del lavoro subordinato.

Una udienza della Corte di Cassazione

La sentenza torinese aveva applicato una norma del Jobs Act (l’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015) ritenendo che essa istituisse un tipo legale di lavoro intermedio tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo, quello del lavoro “etero-organizzato”: una sorta di tertium genus, al quale si sarebbero dovute applicare alcune tutele proprie del lavoro subordinato compatibili con la sua struttura, tra le quali gli standard retributivi minimi e le regole in materia di igiene e sicurezza, ma non la disciplina dei licenziamenti. La Cassazione nega che la norma legislativa istituisca il tertium genus di cui parla la Corte torinese, sostenendo che la norma si limita invece ad applicare l’intero insieme delle protezioni del lavoro subordinato – compresa dunque la disciplina dei licenziamenti – anche in un’area particolare del lavoro autonomo: quella caratterizzata appunto dalla etero-organizzazione. Per applicare l’intero insieme di quelle protezioni non occorre più, dunque, accertare il carattere subordinato della prestazione, cioè il suo assoggettamento pieno al potere direttivo dell’imprenditore: basta accertare il tratto distintivo dell’etero-organizzazione.

Mentre la Corte torinese – in linea con un orientamento prevalente anche nella giurisprudenza britannica e in quella statunitense – ricorre alla teoria del tertium genus per operare una selezione delle tutele applicabili, la Cassazione esclude che la norma legislativa consenta di operare questa selezione. Il lavoro dei ciclofattorini “etero-organizzati” mediante la piattaforma digitale, anche quando non ne venga accertata la “subordinazione” in senso tecnico e debbano quindi essere qualificati come “autonomi”, vengono comunque attratti nell’area di applicazione dell’intero insieme delle protezioni proprie del lavoro subordinato.

Si dà il caso che nelle more di questo procedimento giudiziario il legislatore sia intervenuto di nuovo su questa materia, con il decreto-legge n. 101 del 2019 del Governo M5S-Lega, convertito nella legge n. 128, a norma del quale l’elemento della “etero-organizzazione” si deve sempre considerare sussistente quando la prestazione lavorativa “è organizzata mediante piattaforme digitali”; con la conseguenza che il lavoro dei rider deve sempre considerarsi assoggettato all’intero insieme delle protezioni proprie del lavoro subordinato. La sentenza n. 1663/2020 della Cassazione, dunque, sul piano pratico non fa altro che estendere anche ai rapporti svoltisi prima del 2019 un trattamento sostanzialmente equivalente a quello disposto dal decreto n. 101.

Il problema della compatibilità della vecchia tutela con la nuova forma di organizzazione

Resta da chiedersi se l’insieme delle protezioni proprie del lavoro subordinato sia compatibile con la forma di organizzazione che caratterizza il lavoro dei rider: un fenomeno talmente nuovo, che nel 2013-14, quando sono stati elaborati i contenuti del Jobs Act, esso era ancora ai primi esordi in Europa e non era considerato da nessuno, né in Parlamento né fuori, meritevole di particolare attenzione sul piano del diritto del lavoro.

Uno degli effetti più rilevanti dell’assoggettamento del lavoro dei rider alla disciplina generale del lavoro subordinato è la necessità di una predeterminazione contrattuale dell’estensione e collocazione temporale della prestazione lavorativa nell’arco della giornata, della settimana, del mese e dell’anno. Un altro effetto rilevante è l’applicazione necessaria di uno zoccolo retributivo garantito, correlato all’unità di tempo – sia questa l’ora, la giornata, la settimana o il mese – non inferiore rispetto ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali: secondo la regola generale, l’eventuale “cottimo”, o retribuzione correlata al numero delle consegne, può dunque costituire solo un elemento aggiuntivo rispetto a quello zoccolo. È difficile considerare il combinato disposto di questi due capitoli del diritto del lavoro subordinato compatibile con i caratteri essenziali del modello di organizzazione del lavoro di cui stiamo parlando.

C’è chi plaude a questa incompatibilità, auspicando che l’orientamento giurisprudenziale confermato dalla Cassazione e la norma legislativa emanata nel 2019 producano la fine, almeno in Italia, del platform work nella forma in cui è stato sperimentato fin qui. Questo esito non è affatto apprezzato, invece, da chi considera che questa forma di organizzazione del lavoro, adeguatamente regolata, possa svolgere una funzione sociale ed economica positiva favorendo l’accesso al tessuto produttivo per una fascia di lavoratori marginali poco qualificati e consentendo una flessibilità della prestazione nell’interesse del prestatore, che in alcune situazioni può costituire una condizione sine qua non per l’impegno di una persona in un lavoro retribuito.

Se ci si colloca in questo secondo ordine di idee, non si può non auspicare che il sistema delle relazioni sindacali sciolga il nodo dettando, mediante la contrattazione collettiva, una disciplina che contenga le protezioni irrinunciabili, ma anche regole in materia di tempo di lavoro e di struttura della retribuzione compatibili con le peculiarità di questa forma di organizzazione del lavoro.

L’articolo 2 del decreto legislativo n. 81 del 2015, sia nella sua formulazione originaria, sia nella formulazione modificata dal decreto n. 101/2019, attribuisce alla contrattazione collettiva un margine amplissimo di manovra e anche di deroga alla disciplina legislativa, sia al livello nazionale di settore, sia al livello aziendale. Si profila dunque per la contrattazione collettiva un’occasione d’oro per affermare il proprio primato nel campo della tutela del lavoro. Per il sindacato è il momento di dimostrare la propria capacità peculiare di modellare le protezioni adattandole alle esigenze proprie di ciascun insieme dei propri rappresentati, di ciascuna azienda e di ciascun settore. E di riaffermare il proprio ruolo di intelligenza collettiva delle persone che lavorano, indispensabile anche alle imprese.

 

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