ALCUNE ALTRE VALUTAZIONI SULLA SIDERURGIA A TARANTO

Riavviare una fabbrica ferma, ferita e senza un mercato, non è operazione semplice – Occorrerà trovare nuovi privati disponibili ad affiancare lo Stato nel capitale e nella gestione, perché lo Stato non ha alcuna competenza né nella produzione, né circa il funzionamento e le prospettive del mercato dell’acciaio

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Considerazioni inviate il 6 aprile 2020 da Roberto Pensa, ingegnere, dirigente nell’acciaieria di Taranto sia nel periodo della gestione pubblica, sia in quello della gestione Riva, sia in quello della gestione commissariale, prima del 2017 – In argomento v. anche gli interventi precedenti di R.P. su questo sito:
La gestione dell’ILVA non va demonizzata, del 1° dicembre 2019, e Ancora sull’inquinamento atmosferico prodotto dall’ILVA, del 6 dicembre
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Dopo circa 5 anni di  difficile gestione commissariale della fabbrica, nel novembre 2018 Arcelor Mittal subentra a tutto titolo nella gestione della fabbrica con un discutibile contratto d’affitto, fermamente convinta di rilanciare la fabbrica.
La prima operazione è la immediata sostituzione dello storico logo ILVA  della fabbrica con quello ARCELOR MITTAL è l’arrivo di un top management estero  proveniente da altri stabilimenti. Toni trionfalistici, rassicuranti ed una buona comunicazione in tal senso.

Ma la realtà è  ben diversa: mancanza di mercato, perdita di competitività, logiche politiche, assenza di competenza, scarsa qualità, poca fiducia nel capitale umano, difficoltà di ogni genere, assenza di assetto industriale, indirizzo tecnologico confuso, paura nel rapporto con le istituzioni, assenza dei migliori fornitori, crisi gestionali, ambientalismo ottuso, sorda burocrazia, inesperienza, inadeguatezza, manutenzione inefficace, inefficienze diffuse e, o altro ancora.

Ecco le ragioni  alla base di un fallimento globale e della possibile chiusura dello stabilimento, che  sino al 2012 era una efficiente macchina da soldi che ha prodotto nel rispetto delle leggi,  raggiungendo nell’ultimo periodo della gestione Riva, l’obbiettivo di zero incidenti.

È  anche possibile ipotizzare  che le leggi dello stato sull’ambiente, nei parametri, nei limiti e nei risultati, seppur rispettati, non hanno favorito e difeso la salute pubblica a sufficienza, determinando, in oltre cinquanta anni, la situazione che prima di ogni altra persona o istituzione, chi ha lavorato per anni seriamente, mai avrebbe voluto,  per sé e i propri cari.

È abbastanza evidente che già dal novembre 2019, dopo appena un anno di gestione, Mittal ha messo in campo la sua strategia di “exit” che molti di noi ritengono si concluderà entro il corrente anno.

Oggi non va chiesta   la chiusura dell’ex ILVA,  perché è già così, perché  ci stiamo ugualmente e lentamente arrivando;  chiediamoci invece perché siamo arrivati a tanto e cosa fare per recuperare questa fabbrica che è  vitale per il territorio e per il paese.

Queste considerazioni sono condivise da molti esperti nel settore e da molti tecnici, quadri e dirigenti tarantini che operano ed hanno operato nella fabbrica, a conferma che la parte silenziosa, di fatto non si astiene da informare e condividere; purtroppo questo contributo è  stato sempre scarsamente utilizzato ed apprezzato dal territorio, poiché  la volontà estesa di voler chiudere lo stabilimento ha preso il posto della razionalità.

Quando a fine anno Mittal lascerà lo stabilimento, è possibile che lo restituisca allo Stato con gli impianti fermi ma in condizione da ripartire. È bene essere consapevoli anche  che riavviare una fabbrica ferma, ferita e senza un mercato, non è un’operazione semplice. Occorrerà trovare nuovi privati disponibili ad affiancare lo Stato nel capitale e nella gestione (perché lo Stato non ha alcuna competenza né nella produzione, tantomeno in quella ecologicamente corretta, né circa il funzionamento e le prospettive del mercato dell’acciaio).

Tutto questo in  una Italia dove con i Riva è stato fatto un’ esproprio senza indennizzo, dove con facilità è  stato possibile distruggere un bene che produceva ricchezza con sequestri prima di impianti, poi dei prodotti e dei beni aziendali.
In un paese  dove si ritiene rischioso investire per le  complesse normative ed un colossale potere ed autonomie delle procure affiancate da governanti e politici non sempre all’altezza. (*)

Inoltre l’ultima, ma non meno determinante, è l’azione della locale politica degli amministratori,  che poco rappresenta le reali dimensioni del problema, rinunciando a una prospettiva di sviluppo economico e di un  futuro vivibile.

Completo evidenziando che la fabbrica siderurgica di Taranto resta l’unica siderurgia in Italia a ciclo integrale e ha potenzialità ed impianti moderni per sviluppare volumi di rilievo occorrenti per l’industria meccanica del paese. (**)

Con la chiusura degli impianti l’Italia resterebbe fortemente dipendente da altri paesi. Nella UE invece Francia, Germania, Austria, Spagna, Olanda, Belgio, Svezia, Finlandia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bosnia, Serbia manterrebbero le loro siderurgie a ciclo integrale.

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(*)  Per completare il significato di quanto esposto e rafforzare l’allarme su questa perdita di produzioni del paese, ritengo utile diffondere il link di una interessante tavola rotonda tenuta   all’assemblea annuale Federacciai del 18 Ottobre 2018  con il  Prof. Giulio Capelli, Prof. Alberto Clò ed  il Dott. Carlo Nordio  sulla situazione dell’industria italiana vista da tre esperti che esprimono pareti ed opinioni sulle cause del declino della nazione conseguenti ad azioni o non azioni di magistrati, governi, politici. Purtroppo la discussione è  sviluppata in un video  di lunga durata e richiede pazienza ed attenzione, ma di questi tempi, che siamo obbligati a casa per il Covid-19, si può anche fare.
https://www.youtube.com/watch?v=sekisb18dXs&feature=share

(**) Un altro danno all’economia del paese e del suo apparato industriale siderurgico viene causato in questi giorni dalla fermata della  Ferriera di Trieste, rilevata alcuni anni fa dal gruppo  Arvedi con una storia di 123 anni dove erano operative cokerie, impianti di agglomerazione e un altoforno nonché una centrale termica che recuperava i gas prodotti.
Continuiamo così… Sino al decennio 1980/90, erano presenti in Italia  ben 5 impianti a ciclo integrale con circa 13-14 altiforni. Oggi in Italia ci sono 2 altiforni in marcia a Taranto dal futuro incerto. Quanto costruito con fatica in oltre 70 anni, con enorme esborso di denaro, è stato demolito con rapidità, nell’ultimo ventennio ( vedi Bagnoli, Cornigliano, Piombino).
Riporto due link dove si parla della fermata della Ferriera  di Trieste: https://www.ansa.it/sito/videogallery/italia/2020/03/27/trieste-si-spegne-la-ferriera-finisce-una-storia-di-123-anni_2a5c0203-00e8-42e6-a9bb-171df6e60890.html: video rappresentativo  del lavoro di quattro generazioni, del loro impegno, sacrificio  e fonte di mantenimento per tante famiglie e di sviluppo economico.
Purtroppo il sindaco di Trieste ha liquidato la faccenda in modo sbrigativo, dichiarando che Trieste non ha più interesse nella produzione della ghisa.
https://www.ilfriuli.it/articolo/economia/ferriera,-laddio-di-giovanni-arvedi/4/205607
Giovanni Arvedi, imprenditore dell’acciaio fra i più solidi al mondo, si congeda da Trieste con una lettera colma di amarezza. La città e le istituzioni non hanno compreso, né apprezzato l’enorme sforzo compiuto per bonificare un sito da decenni inquinato.

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