IL JOBS ACT SPIEGATO A ENRICO LETTA

In materia di lavoro il vertice del Pd sta manifestando la stessa sindrome del “pentimento per le cose buone fatte” che colpì il Centro-Sinistra di Romano Prodi dopo l’esperienza di governo del 1996-2001

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Articolo pubblicato sul quotidiano
Il Foglio il 6 settembre 2022, a seguito dell’uscita sul Manifesto di una intervista al segretario del Pd Enrico Letta – In argomento v. anche Un partito e due anime che non si parlano 

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Il segretario del Pd Enrico Letta

La risposta data domenica da Enrico Letta all’intervistatore del Manifesto sulla politica del lavoro del Pd è a dir poco sibillina. Dice che il partito intende “superare il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna”; ma il Jobs Act è composto di otto decreti delegati, emanati nel 2015, su materie che vanno dagli ammortizzatori sociali alla disciplina dei licenziamenti e delle dimissioni, dai servizi di collocamento e formazione a quelli di ispezione, dalla disciplina del contratto a termine a quella del part-time, dell’apprendistato, della somministrazione di lavoro, dai controlli a distanza al lavoro dei disabili: poiché immaginiamo che il segretario del Pd non intenda “superare” tutto l’insieme di queste disposizioni per adeguarle al “modello spagnolo”, sarebbe il caso che egli chiarisse meglio il proprio pensiero.

Vero è che, per l’uomo della strada, il Jobs Act si riduce a uno solo degli otto decreti delegati: quello sui licenziamenti (n. 23/2015), che ha voltato pagina rispetto all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ipotizziamo dunque che anche il segretario del Pd abbia inteso fare riferimento a questa parte della riforma del 2015. Senonché la disciplina dei licenziamenti in Spagna non prevede certo qualche cosa di analogo al nostro vecchio articolo 18: prevede invece un indennizzo per il lavoratore, quando il giudice ritenga il licenziamento non adeguatamente giustificato, fino al limite massimo di 24 mensilità della sua ultima retribuzione. Questo è precisamente il limite massimo dell’indennizzo previsto originariamente dal decreto n. 23/2015, che infatti si proponeva proprio di allineare la disciplina italiana della materia a quella degli altri Paesi della UE; poi è accaduto che il “decreto dignità” del 2018 ha aumentato questo limite a 36 mensilità. Possiamo escludere che il Pd di Enrico Letta intenda allinearsi per questo aspetto al modello spagnolo tornando al limite originario delle 24 mensilità. Ma allora in che cosa diavolo consiste il “superamento” di cui parla il segretario? Su quale altra materia il Pd intende allineare l’ordinamento italiano del lavoro a quello spagnolo?

In attesa di un chiarimento su questo punto, ci limitiamo a ipotizzare che in questa uscita del leader Letta, anticipata nei giorni scorsi da una analoga del vicesegretario Provenzano, si manifesti la stessa sindrome che nel Centro-Sinistra si manifestò vent’anni or sono. Il Pd è erede, nel bene e nel male, di quello stesso Centro-Sinistra che dal 1996 al 2001 ebbe tra gli uomini di punta dei suoi Governi Vincenzo Visco, ideatore e attuatore di interventi molto incisivi per l’ammodernamento del sistema fiscale italiano e contro l’evasione, odiato dunque dai molti evasori che ne furono colpiti e qualificato per questo da Giulio Tremonti come “il Dracula messo a capo delle Finanze”. Nel 2001 furono in molti a imputare al rigore fiscale del ministro Visco la sconfitta elettorale del Centro-Sinistra; cosicché nella cultura di questa parte politica si è radicata una valutazione negativa di quella stagione di politica fiscale. Della quale, invece, essa avrebbe dovuto andare fiera.

Quella stessa sindrome di “pentimento per le cose buone fatte” sembra colpire anche oggi il vertice del Pd. Il grave difetto di chiarezza delle dichiarazioni che ne provengono in materia di politica del lavoro non può stupire, dal momento che in questi ultimi anni il Pd è stato di fatto privo di un responsabile delle politiche del lavoro (questa carica è stata solo formalmente coperta dal vicesegretario Provenzano, che di politica del lavoro si è realmente occupato solo marginalmente). Per la parte relativa alla disciplina dei licenziamenti il Jobs Act ha completato l’opera avviata dalla legge Fornero del 2012, di armonizzazione del diritto del lavoro italiano rispetto a quello degli altri Paesi europei, col passaggio da un ordinamento fondato su di una property rule (un regime che rendeva assai simile la stabilità del dipendente dell’impresa con più di 15 dipendenti a quella dell’impiegato pubblico) a un ordinamento fondato su di una liability rule, cioè su di una sanzione indennitaria, per tutti i licenziamenti il cui motivo sia ritenuto dal giudice non sufficientemente dimostrato, limitando la sanzione reintegratoria ai licenziamenti dettati da un motivo illecito.

A questo allineamento del diritto del lavoro italiano a quello di tutti gli altri Paesi dell’UE non è conseguito alcun aumento dei licenziamenti: la probabilità di essere licenziati, per i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti, è rimasta invariata. Mentre è cessata un’altra grave anomalia italiana, il tasso elevatissimo del contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti, oltre che di contratti a termine: il quale dal 2012 al 2018  si è più che dimezzato. Anche di questo risultato il segretario e il vicesegretario del Pd sono pentiti? Anche rispetto a questo risultato si propongono di tornare indietro?

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