ENRICO MORANDO: LO “SVILUPPO EQUO” E LA GLOBALIZZAZIONE

Per uscire dalla crisi in cui sono caduti, i riformisti di centrosinistra non devono perseguire la deglobalizzazione, ma por mano a costruire istituzioni globali in grado di “imbrigliare“ la distruzione creatrice prodotta dalla globalizzazione, in modo da ridurre drasticamente le sofferenze sociali e i rischi che essa porta con sé

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Lezione tenuta da Enrico Morando, presidente di
LibertàEguale, al termine dell’incontro sul Lessico della politica svoltosi nei giorni 27 e 28 maggio 2023

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Enrico Morando

“Sviluppo” è qualcosa di più – e di qualitativamente diverso – rispetto a “crescita economica”. Perché c’è sviluppo quando alla crescita economica si associa il benessere, che coinvolge sfere che vanno oltre l’economia. Di più: per esserci “sviluppo“, bisogna che anche il benessere sia -e sia avvertito- come crescente. Possiamo dunque concludere: crescita ha a che fare col PIL; sviluppo a che fare col PIL e con altri indicatori, i BES, gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile.
Con la legge n.163 del 2016 -la riforma della Legge di bilancio (curata, per il Governo, da un certo viceministro dell’Economia di cui non faccio il nome, per non essere accusato di interesse privato) il BES -coi suoi indicatori- entra nel processo di definizione delle politiche economiche. Abbiamo sfruttato il lavoro di raccolta dati e informazioni che l’Istat ha sviluppato dal 2010. Oggi abbiamo possibilità di comparare il benessere equo e sostenibile (o il malessere iniquo e insostenibile) del 2010 con quello del 2019. Raccogliendo informazioni utili per il decisore politico, per i ricercatori, per i giornalisti e per tutti i cittadini che vogliono capire ed agire per migliorare la vita di se stessi e degli altri.
Cosa misurano gli indicatori? Mi limiterò, per rispondere, alla definizione dei campi di applicazione, indicando a fianco di ciascuno di essi il numero di indicatori previsti. Sicurezza (con 7 indicatori); qualità dei servizi (con 12); lavoro e conciliazione (con 11); politica e istituzioni (con 9); innovazione, ricerca e creatività (con 6); ambiente (con 13); patrimonio culturale e paesaggio (con 7); istruzione e formazione (con 12); salute (con 11); benessere economico (con 9); relazioni sociali (con 8); benessere soggettivo (con 4). Un così elevato numero di indicatori dimostra di per sé che è più facile misurare la crescita-Pil che il miglioramento del benessere-BES, ma stiamo facendo passi nella direzione giusta, aiutati da un lavoro di elaborazione e ricerca che si è sviluppato in tutto il mondo (per tutti, ricordiamo le indicazioni contenute nel Rapporto della Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi).
Bene. Ora che sappiamo che sviluppo è qualcosa che va oltre la crescita, è lecito chiederci: va oltre, certo. Ma può esserci sviluppo senza crescita? La mia risposta è un convinto no. Per una ragione semplice, che ha a che fare con alcune componenti fondamentali del benessere qualitativo: fiducia in se stessi e negli altri; aspettative positive sul futuro, prossimo e meno prossimo. In una società che non cresce economicamente (PIL a +0,0) è matematico: il mio eventuale progresso ha come condizione sine qua non l’arretramento di un altro. In una società che cresce, chiunque può pensare che la sua “crescita” sia compatibile con quella di altri, perché la dimensione della torta di cui vuole ritagliarsi una fetta un po’ più grande cresce. Nella situazione di stagnazione assoluta, la fiducia di ciascuno negli altri tenderà a diminuire, e l’invidia sociale a crescere ma mano che si svilupperà il conflitto tra individui, gruppi, classi, generazioni, in lotta tra di loro per strapparsi fette di una torta che non cresce. Lo aveva capito Adam Smith, nella sua “Teoria dei sentimenti morali”: “È nello stato di progresso, quando la società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa acquistato tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora – della gran massa del popolo – sembra più felice e confortevole”. Fiducia nel prossimo, aspettative positive sono fondamentali per la crescita in generale, e per la crescita felice -lo sviluppo- in particolare. Soprattutto, se il benessere e la felicità di cui parliamo riguardano la parte della società che ha -in partenza- una minore dotazione di reddito, patrimonio e istruzione. Dovremmo cercare di non dimenticarcene, quando discutiamo di strategie per la riduzione della disuguaglianza (la missione fondamentale della sinistra): operando in un contesto di stagnazione, l’impresa è assai più ardua.

È questa la ragione per la quale la sinistra si è sempre posta il problema -per dirlo con un linguaggio antico- dello “sviluppo delle forze produttive“. Pensate all’Italia dell’ottobre 1949: al Congresso di Genova della CGIL, Giuseppe Di Vittorio ha di fronte a sé una grande platea di delegati da lavoratori la cui paga, nella maggioranza dei casi, non consente di dare da mangiare, da vestirsi, da scaldarsi alle loro famiglie… E avanza -tra gli applausi entusiasti di quella platea (registrano le cronache)- la proposta di un grande Piano del lavoro, alla cui realizzazione si dichiara pronto a dedicare addirittura una quota di quei magri (eufemismo) salari. La sinistra di allora era in ritardo nel comprendere e nel fare i conti con le modificazioni strutturali in corso nell’economia e nella società. Ma aveva chiaro che senza crescita economica non ci sarebbe stato spazio per conquiste in termini di salario e di diffusione del benessere. Mutato il molto che c’è da mutare, vale anche per oggi: redistribuzione più egualitaria della ricchezza e produzione di ricchezza vanno tenute insieme, in un’unica strategia di politica economica e sociale… Non basta occuparsi di redistribuzione, lasciando ad altri il compito di far crescere la produzione ( riassumo qui dal libro “La casa nella Pineta” l’illuminante frase rivolta, in transatlantico, da Emilio Pugno, grande leader sindacale torinese, a Pietro Ichino: tu Ichino sei uno serio, uno che studia e sa le cose degli operai: ma perché insisti a volerti occupare anche della produttività? Facciamo il nostro, che a quella c’è già chi ci pensa). Nè basta occuparsi di accrescere la produzione, senza preoccuparsi della redistribuzione: nel medio-lungo periodo, la domanda effettiva cade, la fiducia e le aspettative cadono con lei… E anche la crescita del PIL si arresta.

Nella sinistra contemporanea -anche nel PD italiano, negli ultimi tempi- questa alternativa tra chi assegna priorità alla redistribuzione, pretendendo che la crescita segua gli interventi redistributivi in via pressoché automatica (un po’ come l’intendenza napoleonica); e chi sostiene l’esigenza di costruire sistematicamente un equilibrio tra redistribuzione e produzione, ha preso i caratteri di una discussione tra chi propone interventi pubblici dal lato della domanda e chi riconosce priorità a quelli dal lato dell’offerta. In ultimo, è accaduto con l’articolo di Ceccanti, Morando e Tonini su Repubblica e la replica di Visco su Domani. Intendiamoci: c’è solo da rallegrarsi se il PD passa dal far parlare di sé per ragioni “di colore“ e per la sua acritica

partecipazione a manifestazioni di protesta (perlopiù organizzate da altri), al far parlare di sé per l’aprirsi, al suo interno, di una discussione di questo tipo… Nel merito, invece, è difficile non vedere che -ferma la distinzione dei due punti di vista- c’è una scelta di politica pubblica che li ricompone, costruendo un ponte che in una certa misura li riunifica: è la scelta di sviluppare buoni investimenti pubblici, aiutando contemporaneamente gli investimenti privati… Infatti, gli investimenti piacciono agli “offertisti“, perché aumentano la dotazione di capitale delle presenti e delle future generazioni, anche quando vengono finanziati in deficit. E gli investimenti, nel presente, piacciono ai “domandisti”, perché sostengono la domanda effettiva, di cui sono una componente fondamentale.

Oggi, in Italia, abbiamo una grande occasione, il Programma europeo Next Generation EU, tradotto nel PNRR, perché può dare luogo ad una svolta: riforme che sorreggono investimenti e possono realizzarsi perché hanno dotazioni di bilancio adeguate (Pubblica Amministrazione; Servizio Sanitario Nazionale); investimenti che possono far crescere la produttività, perché si accompagnano a riforme strutturali.

Non voglio dare l’impressione di farla facile. Se la crescita è una componente insopprimibile dello sviluppo; e se lo sviluppo non si determina se non in un contesto di attività e istituzioni che utilizzano la crescita a fini di diffusione del benessere, abbiamo due problemi: il primo, nasce dal fatto che “la crescita economica è un processo destabilizzante, che porta a cambiamenti radicali e si associa a fenomeni di distruzione creatrice“ (Acemoglu e Robinson.Perché le nazioni falliscono- Il Saggiatore). Il secondo, nasce dal fenomeno che chiamiamo globalizzazione: in buona sostanza, si tratta di quel processo che ha condotto la distruzione creatrice propria del capitalismo ad assumere come proprio teatro non più la dimensione dello Stato-nazione, ma quella dell’intero globo.

Vediamo i due problemi partitamente. Perché la distruzione creatrice è un problema? Lo dice la parola stessa: perché è distruzione dello status quo… E la distruzione porta con sé sofferenze, lutti, privazioni. In sostanza, produce perdenti, soggetti (individui, gruppi, classi) che perdono, almeno in parte, almeno in un primo tempo, il potere e i privilegi connessi o, più semplicemente, lo status sociale in cui si trovavano. E lo perdono perché altri individui (l’imprenditore Schumpeteriano, nella teoria del grande economista austriaco che ha visto nella distruzione creatrice la fonte del dinamismo economico del capitalismo), gruppi, classi innovano processi produttivi e prodotti e li espellono dal mercato. Non è solo questione di imprenditori. Nelle imprese che “perdono” ci sono lavoratori, le loro famiglie, e tanti altri che intrattengono relazioni economiche con le vittime della distruzione creatrice. Certo, al posto di quelle imprese ce ne sono altre -e quindi altri lavoratori, famiglie, ecc.- che hanno successo, conquistano e allargano i mercati. Ma la presenza dei vincenti non annulla la presenza dei perdenti. Anzi, la presuppone. Di qui, spesso, nella storia, lo sviluppo di grandi movimenti di resistenza alla crescita, all’innovazione. Il Luddismo… Ma abbiamo già visto che non c’è sviluppo senza crescita. Se la crescita nasce dalla distruzione creatrice, non possiamo arrestare la distruzione stessa, che induce sofferenze, senza arrestare anche la crescita… E, con essa, lo sviluppo.

La fuoriuscita da questo dilemma si chiama Stato Sociale. Alla fine della seconda guerra mondiale, dall’incontro di un liberale inglese (Beveridge) con la forza organizzata del movimento operaio (il partito laburista di Attlee) scaturisce – progressivamente – una sorta di “miracolo“: fornire alla distruzione creatrice del capitalismo, senza ucciderla, un contesto che la imbrigli, mitigando drasticamente – nell’utopia, eliminando – le sofferenze sociali indotte dalla stessa. Nasce la protezione dai rischi fondamentali provocati dal dinamismo capitalistico: disoccupazione, ignoranza, malattia, vecchiaia. In perfetta corrispondenza: politiche attive e passive del lavoro; pubblica istruzione; sistema sanitario e sistema previdenziale pubblici. È così che nel secondo dopoguerra, per lungo tempo, abbiamo avuto crescita e sviluppo. Più PIL e più BES, per tornare agli acronimi da cui abbiamo cominciato.
Poi, progressivamente, così come si era affermato, il meccanismo entra in crisi. “Tradimento” dei chierici? Chi lo sostiene pensa che basti tornare alle vecchie politiche per mettere tutto a posto. Sarebbe bello: sostituiti i chierici, riportate in auge le vecchie scelte, il modello socialdemocratico tornerebbe a imporsi. Hanno provato e provano in molti (da ultimo, nel Regno Unito, Corbyn), ma hanno dovuto prendere atto che non funziona. Non riusciamo più a imbrigliare la distruzione creatrice, come abbiamo saputo fare nei trenta gloriosi del 900. Perché la creazione non avviene necessariamente dove c’è distruzione. Sia chiaro: la creazione c’è, e con essa anche un miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di donne e uomini. E chiunque si ispiri -nel suo agire politico e sociale- ai principi di libertà, eguaglianza e solidarietà, non può certo lagnarsi del fatto che miliardi di persone – in Cina, in India, in Brasile e in Africa -, siano entrate, grazie alla globalizzazione, nel novero di quanti sono stabilmente usciti da una situazione di fame e povertà estrema. Ma questo non cancella il fatto che, in Occidente, vivono un gran numero di vittime della distruzione creatrice. Persone che, anche quando non hanno perso – in assoluto – reddito e patrimonio (ciò che è accaduto per molti), sono entrate in un contesto di radicale incertezza circa il loro presente e, soprattutto, il loro futuro prossimo. Di qui il diffondersi di paure, di cui sono pronti ad approfittare, alimentandole, i partiti populisti di ogni risma. Che non cercano cause e soluzioni, ma colpevoli da rimuovere a furor di popolo e complotti da sconfiggere.
Per uscire dalla radicale crisi in cui la globalizzazione ha fatto precipitare il loro modello di governo, i riformisti di centrosinistra, se non vogliono rassegnarsi ad un destino di impotente nostalgia per il bel tempo che fu, non hanno alternative: debbono costruire le istituzioni, le organizzazioni, le attività che sono in grado di “imbrigliare“ la distruzione creatrice alla dimensione globale. Sì, non ci serve niente di meno: una nuova forma di governo globale, non per imporre un ritorno al passato, attraverso la “deglobalizzazione”, ma per collocare la “nuova” distruzione creatrice dentro un contesto ordinato, che riduca drasticamente le sofferenze sociali e i rischi che essa porta con sé (a partire da quello della guerra).

Capisco che il compito – così delineato – sembri troppo grande per le nostre attuali forze. Ma ci sono due ragioni di razionale ottimismo. La prima, si riferisce al passato: non doveva certo apparire meno arduo, a Giuseppe Di Vittorio, il compito di portare milioni di lavoratori privi di tutto, che non erano mai usciti dal piccolo paese in cui erano nati, a costruire – alla dimensione nazionale – le istituzioni, le organizzazioni e le attività che consentissero di “governare” il processo che li avrebbe condotti a vivere una vita migliore.

La seconda si riferisce al presente. Cos’è, se non l’embrione di nuove forme di governo globale, l’Alleanza delle democrazie che Biden sta costruendo, per scongiurare la minaccia che sulle nostre teste fanno gravare le autocrazie? E cosa è stata, se non questo, alla dimensione europea, la molla che ha portato a comprendere che la sfida della pandemia poteva essere vinta solo con un formidabile salto nel processo di cooperazione a livello globale (i vaccini in pochissimo tempo) e di integrazione a livello europeo (il Programma Next Generation EU)?

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