MA IL REDDITO È DAVVERO UN DATO PERSONALE PROTETTO DA SEGRETO?

Suscita preoccupazioni a mio avviso del tutto infondate la direttiva n. 2023/970 prevede l’obbligo per il datore di lavoro di rendere confrontabili le retribuzioni dei dipendenti che svolgono lavori di pari livello professionale

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Intervista a cura di Enrico Marro pubblicata dal
Corriere della Sera il 23 agosto 2023 – In argomento v. anche l’articolo di Sabino Cassese, pubblicato sullo stesso quotidiano il 21 giugno 2021,  L’uomo libero nella gabbia dei dati personali

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Professor Ichino, quali novità introduce la direttiva?
Non è certamente una novità, sul piano del diritto europeo, il divieto di discriminazione di genere, che riguarda anche le discriminazioni indirette. La novità maggiore è invece quella che riguarda il diritto dei dipendenti di confrontare la propria retribuzione con quella media degli altri dipendenti svolgenti lavoro di pari livello.

Verrà salvaguardato il diritto al riserbo sui livelli retributivi individuali?
Sì: oggetto dell’informazione dovuta dall’impresa ai dipendenti è il livello medio delle retribuzioni per posizioni comparabili; e in particolare l’eventuale loro differenza tra uomini e donne. Ma la direttiva stessa ricorda espressamente che il diritto al riserbo sulla propria retribuzione è pienamente disponibile: nulla vieta, dunque, che le singole persone – eventualmente rispondendo all’appello dei rappresentanti sindacali aziendali – rendano pubbliche le proprie buste-paga.

Conoscere le retribuzioni medie dei colleghi può aiutare a combattere le discriminazioni?
Penso che sì, questo possa essere uno strumento assai utile. Costringerà le imprese a verbalizzare il motivo delle differenziazioni. È lo stesso principio che in Italia è stato enunciato più di trent’anni fa dalla sentenza n. 103/1989 della Corte costituzionale.

Che cosa dice quella sentenza?
Che il datore di lavoro può differenziare i trattamenti al di sopra dello standard minimo secondo criteri non vietati, quali possono essere quelli attinenti ai titoli di studio o di formazione, alla produttività effettiva del lavoro, alla posizione della persona nel mercato, ai carichi di famiglia; ma, se richiesto, ha il dovere di esplicitare i criteri di differenziazione applicati. È questo dovere – ha chiarito la Consulta con quella sentenza – che distingue il corretto esercizio delle prerogative imprenditoriali dall’arbitrio signorile.

Quali sono invece i rischi?
Il rischio maggiore è quello dell’appiattimento dei trattamenti, là dove a una sana gestione del potere organizzativo dell’imprenditore si sostituisca una sostanziale burocratizzazione dell’impresa, con la conseguente omologazione del lavoro nell’impresa all’impiego pubblico. Ma non è certo questo ciò che la direttiva impone, e neanche ciò che essa intende favorire.

E un rischio di aumento del contenzioso?
È quello che venne paventato già quando venne emanata la legge n. 125/1991, attuativa di un’altra direttiva europea contenente il divieto generale delle discriminazioni di genere, dirette o indirette. Ma a trent’anni di distanza ciò che si deve lamentare è semmai una eccessiva scarsità del contenzioso suscitato da quella legge, rispetto al contenzioso su altri temi che lo meriterebbero di meno.

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