La sperimentazione di una misura ancora sconosciuta alla legge

Anni Ottanta: il Centro ausiliario per i problemi minorili presso il Tribunale per i minorenni di Milano (ora, Cam, Centro ausiliario per i minori) affronta con risorse “fuori ordinanza” e con un’idea nuova il problema dell’inserimento nel tessuto produttivo di ragazzi “difficili”, reduci da condanne penali, esperienze di tossicodipendenza, ambienti socialmente degradati.

Le risorse sono costituite dall’opera prestata volontariamente e gratuitamente dalle persone che fanno vivere il Centro e dal fondo reso disponibile dalla generosità di alcuni benefattori. L’idea nuova è di proporre a questi ragazzi un’esperienza di lavoro vero, con vincolo di orario e di disciplina, in un’azienda vera e propria e con una pur modesta retribuzione. Per sei mesi il titolare di un’impresa di piccole o medie dimensioni si prende cura del ragazzo, si impegna a seguirlo in stretto contatto con un tutor esterno e a insegnargli il lavoro, accettando di correre i rischi inerenti alla sua totale inesperienza e inaffidabilità. Se l’impegno assunto viene adempiuto dal ragazzo, il Cam gli versa una “borsa-lavoro” che corrisponde all’incirca alla metà della retribuzione di un normale apprendista, finanziata con le donazioni dei benefattori.

Problema: all’epoca questo schema di inserimento in azienda finalizzato più all’educazione e formazione di un giovane in grave difficoltà che all’interesse produttivo dell’imprenditore, non era previsto dalla legge italiana. Il rischio di grane con l’Ispettorato o con i giudici del lavoro è molto elevato. Il Cam decide dunque di “mettere la testa nella bocca del leone”: presenta il progetto al direttore dell’Ispettorato regionale del lavoro, dott. Cipriani, con il modello della convenzione quadrilatera che ci si propone di stipulare con l’imprenditore disponibile per il programma di inserimento “protetto”, il giovane di cui viene certificata la situazione di grave difficoltà, il tutor che controllerà dall’esterno l’esatta attuazione del programma concordato, per lo più della durata di sei mesi, e il Cam stesso che erogherà la “paga”, a fronte del puntuale adempimento da parte del giovane. Il direttore dell’Ispettorato si convince della bontà dell’esperimento e – caso raro nelle amministrazioni pubbliche – si prende la responsabilità di dare la propria benedizione senza che la cosa sia prevista in una circolare ministeriale, né tanto meno da una legge. Con l’avvertenza, ovviamente, che gli ispettori potranno controllare l’esatta corrispondenza dello svolgimento del rapporto con il contenuto della convenzione. Un tipico caso di “rito ambrosiano”.

Un tasso di successo del 92 per cento

Parte così, in anticipo di una quindicina d’anni rispetto alla legge Treu del 1997 che riconoscerà e disciplinerà questo tipo di contratto, l’esperienza milanese delle borse-lavoro promosse dal Cam. Nell’arco di un trentennio ne beneficeranno diverse centinaia di giovani. Gli esiti delle 123 borse-lavoro attivate dal 2010 al 2021 sono stati registrati, studiati e vengono ora esposti in un rapporto dello stesso Cam, destinato a uscire in un libro fra qualche mese. Vale la pena di vederli più da vicino, perché il tasso di successo di questa vera e propria misura di politica attiva del lavoro è impressionante: a fronte dei risultati delle politiche attive praticate dal servizio nazionale del lavoro attraverso i suoi centri per l’impiego e dalle regioni con le loro attività di formazione, che in rari casi superano il 25 per cento di successi, qui i dati indicano che in oltre quattro casi su cinque la borsa-lavoro ha prodotto un soddisfacente inserimento stabile del giovane a rischio nel tessuto produttivo.

Il risultato può, certo, essere influenzato da un “bias di selezione”: non siamo in grado di escludere che su di esso abbia in qualche misura inciso il fatto che il Cam abbia scelto di volta in volta i ragazzi più adatti per disposizione personale e per attitudini oggettive a trarre il massimo vantaggio dalla misura di sostegno attivata. In altre parole, il dato sarebbe più significativo circa un nesso causale tra la misura di sostegno e l’esito di positivo inserimento della persona interessata nel tessuto produttivo se ci fosse evidenza che le borse siano state assegnate a tutti i possibili fruitori, oppure a seguito di scelta fra di essi del tutto casuale. Ciononostante, resta significativo perché la borsa-lavoro è stata per tutto il periodo considerato uno strumento di intervento ordinario, un “attrezzo” appartenente all’armamentario usato dal Cam normalmente per l’inserimento al lavoro del maggior numero possibile di minori in difficoltà.

Le 123 borse-lavoro attivate nel dodicennio sono state assegnate quasi tutte a maschi (117): squilibrio che si spiega agevolmente col fatto che sono in larghissima prevalenza maschi i giovani dei quali il Tribunale per i minorenni normalmente si occupa. Di queste borse, mediamente dieci ogni anno, 99 sono state seguite dall’assunzione stabile del giovane interessato presso la stessa azienda che lo aveva accolto mediante la convenzione con il Cam.

Figura 1 – Esiti delle 123 borse-lavoro in valore assoluto

La percentuale di successo risultante dalla ricerca è dell’80,4 per cento; ma aumenta al 92,5 per cento se si tolgono dal computo i 16 casi di “sospensioni” della borsa-lavoro: casi, cioè, nei quali il datore di lavoro per varie ragioni non ha potuto pervenire all’assunzione e si è proceduto quindi al collocamento del giovane presso altro datore di lavoro (ciò che, a ben vedere, non può considerarsi di per sé un esito negativo della misura).

Figura 2 – Esiti delle borse-lavoro in percentuale

La percentuale di successo è all’incirca la stessa per le sei borse-lavoro assegnate a ragazze: tra queste un solo caso di esito negativo.

Il segreto del successo di questa misura di “politica attiva del lavoro”

Un altro dato interessante è costituito dal rendiconto che il tutor esterno chiede mese per mese al beneficiario della borsa, circa il modo in cui è stato impiegato il denaro guadagnato nel mese precedente: l’intervento educativo si estende opportunamente anche a questo aspetto solo apparentemente secondario dell’esperienza di inserimento nel tessuto produttivo.

La ricerca evidenzia una percentuale di esiti positivi delle 108 borse di studio attivate dal Cam nello stesso periodo analoga a quella delle borse-lavoro; ma il dato relativo a queste ultime è particolarmente significativo perché le borse-lavoro si collocano a tutti gli effetti nell’ambito delle cosiddette “politiche attive del lavoro”, che in Italia – a differenza di quel che può dirsi della maggior parte dei grandi paesi europei – non sono mai decollate. I policy-makers del ministero del Lavoro dovrebbero studiare attentamente l’esperienza del Cam, per estenderla progressivamente su scala molto più ampia, rendendola utilizzabile anche per l’inserimento nel tessuto produttivo delle centinaia di migliaia di “occupabili” in situazione di povertà, i quali in molti casi non presentano handicap sociali più gravi di quelli che ostacolano l’inserimento dei giovani assistiti dal Tribunale per i minorenni.

Faranno bene a considerare che il segreto del successo di questa esperienza sta tutto nel modo in cui ciascun caso è stato seguito, con grande attenzione alle sue peculiarità: dal profilo del giovane assistito, col suo problema comportamentale specifico, alla scelta dell’azienda in cui inserirlo tra quelle disponibili, al monitoraggio costante dell’esperimento da parte del tutor aziendale e, soprattutto, di quello esterno attivato dal Cam. Anche le migliori esperienze dei paesi del Centro e Nord-Europa in questo campo confermano che il successo delle politiche attive del lavoro è direttamente proporzionale alla capacità di chi le gestisce di seguire passo passo le persone assistite, una per una. In questo campo gli automatismi tipici delle pratiche burocratiche devono essere radicalmente sostituiti dal know-howche consente al job advisor di essere, prima e più che un controllore, un consigliere e un educatore.

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