INTERVISTA SULL’AUTONOMIA NEGOZIALE INDIVIDUALE

Le prime aperture del diritto del lavoro italiano all’autonomia negoziale individuale, negli anni ’80, il congresso del 1991 dell’Associazione dei giuslavoristi dedicato per la prima volta a questo tema e la dialettica sempre viva tra questa branca del diritto e quella civilistica

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Intervista a cura di Giovanni Piglialarmi, pubblicata sul Bollettino Adapt il 22 gennaio 2024 – 
L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dal mio intervento al Congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, svoltosi a Udine nel 1991, pubblicato in Rivista giuridica del lavoro, 1992, n. 1, I, pp. 81-86 sotto il titolo Chi ha paura dell’autonomia individuale? – Su questo sito sono disponibili anche le tre interviste precedenti della stessa serie, rispettivamente sul tema Il mercato del tempo di lavoro, La partecipazione dei lavoratori nell’azienda e Malattia e assenteismo nel rapporto di lavoro  .

Il ruolo dell’autonomia individuale è tornato più volte al centro del dibattito giuslavoristico e sindacale. Del resto, anche l’evoluzione del quadro normativo, a partire dal 2003, ha cominciato a mostrare una certa sensibilità verso l’autonomia negoziale della singola persona che vive del proprio lavoro, avendo questa recuperato spazi di competenza in precedenza ad essa preclusi. Quale credi che sia stato il motivo per cui, all’inizio degli anni Novanta, si è reso necessario un ripensamento del ruolo dell’autonomia individuale nella regolazione dei rapporti di lavoro? Cosa c’è di ancora attuale nella riflessione di quei giorni?
A ben vedere, la prima grande apertura all’autonomia individuale nel contratto di lavoro, sul piano legislativo, si è avuta nel 1984 con il riconoscimento del lavoro a tempo parziale. Vedremo a suo luogo, nel capitolo dedicato al tempo di lavoro, come in quell’occasione abbia prevalso per la prima volta, in Italia, il riconoscimento esplicito del potere negoziale del prestatore nella determinazione contrattuale dell’estensione e della collocazione temporale della prestazione, ovviamente entro il limite massimo fissato inderogabilmente per legge. Nella seconda metà degli anni ’80, poi, si era molto discusso del caso dei c.d. pony-express, ovvero dei moto-fattorini che svolgevano il servizio di recapito di plichi nelle aree urbane, collegati via radio con la centrale operativa: gli antesignani dei rider odierni.

Perché questo caso assumeva rilievo in tema di autonomia negoziale individuale?
Perché sulla questione della qualificazione del rapporto di lavoro dei pony-express si era registrato un contrasto giurisprudenziale, puntualmente accompagnato dal dibattito dottrinale, circa il rilievo che doveva attribuirsi alla definizione contrattuale della struttura della loro prestazione lavorativa e in particolare alla libertà che il contratto individuale riconosceva a ciascuno di loro di presentarsi o no al lavoro e di rispondere o no alla chiamata via radio. Alla tesi secondo cui questa clausola contrattuale doveva considerarsi del tutto irrilevante ai fini della qualificazione del contratto, dovendosi considerare soltanto il dato di fatto del loro inserimento organico nell’azienda mediante collegamento radio e della loro non libertà effettiva riguardo al presentarsi al lavoro e rispondere alle chiamate (in questo senso era orientata la prima sentenza sul punto: P. Milano 20 giugno 1986, in RIDL, 1987, II, p. 70; in seguito, tra le altre in questo senso, ancora P. Milano 27 aprile 1987, ivi, p. 688), si era contrapposta la tesi, che aveva finito col prevalere in giurisprudenza, secondo cui al tipo di vincolo contrattuale pattuito tra le parti doveva attribuirsi rilievo decisivo (T. Milano 10 ottobre 1987, ivi, p. 688; P. Milano 20 dicembre 1988, ivi, 1989, p. 207; T. Napoli 11 dicembre 1989, ivi, p. 365; Cass. 10 luglio 1991 n. 7608, ivi, 1992, p. 379). Negli anni successivi non sono certo mancate le sentenze ancora orientate nel senso della totale irrilevanza della volontà negoziale circa la struttura della prestazione e della relativa obbligazione contrattuale; ma l’emergere di un orientamento favorevole al riconoscimento dell’autonomia negoziale individuale, per di più su una materia cruciale come quella degli elementi essenziali per la qualificazione del contratto, segnava una svolta molto importante rispetto al mezzo secolo precedente, nel quale l’orientamento acontrattualista era stato nettamente predominante.

Nei decenni precedenti, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si erano rifiutate di attribuire qualsiasi peso alla “volontà cartolare” espressa dalle parti nel contratto di lavoro ai fini della qualificazione. A segnare la svolta è stata dunque la vicenda dei pony-express?
Sicuramente questo caso ha contribuito alla svolta giurisprudenziale. Però, attenzione! Qui a essere rivalutata non era la “volontà cartolare”, ovvero il nomen iuris che le parti decidono di attribuire al contratto, e neanche l’espressione di volontà circa la struttura delle reciproche obbligazioni dichiarata nel testo contrattuale. A essere rivalutata è la volontà negoziale effettiva, che si manifesta anche nel comportamento attuativo del contratto: quella cui fa riferimento l’articolo 1362 del Codice civile.

Torniamo al contesto in cui si colloca il tuo intervento all’inizio degli anni ’90.
L’idea di dedicare al tema dell’autonomia negoziale individuale il consueto incontro annuale dell’Associazione di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale del 1991, che quell’anno si svolse a Udine, nasceva anche dal dibattito suscitato dal caso giudiziale dei motofattorini. Ma nasceva soprattutto dalla constatazione che il tempo della negazione totale dell’autonomia negoziale individuale era ormai tramontato nei fatti: l’assetto dominante, nella struttura del mercato del lavoro italiano, non era più quello del monopsonio strutturale, tipico del mercato del lavoro all’indomani della prima rivoluzione industriale. I lavoratori erano sempre più capaci effettivamente di scegliere; non potevano più, dunque, essere considerati dei capite deminuti.

La storia si ripete: a trent’anni da allora i ciclofattorini costituiscono ancora una figura al confine tra lavoro subordinato e autonomo, sono di nuovo l’icona della precarietà e del bisogno di protezione e in riferimento ad essi si pone di nuovo la questione dei confini della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro.
Sì. In realtà la connotazione sociologica di questa categoria di lavoratori è cambiata: allora erano per lo più giovani di nazionalità italiana, in condizione abbastanza agiata da potersi permettere il motorino, che consentiva di effettuare consegne di plichi in un’area assai ampia; oggi sono per lo più immigrati, non necessariamente in età giovanile, i quali soltanto dopo qualche mese di lavoro svolto con una bicicletta tradizionale riescono per lo più a dotarsi di quella elettrica, operano soprattutto nel settore del food delivery e hanno un raggio d’azione più rionale che cittadino; quelli di oggi sono dunque una categoria più povera, più svantaggiata rispetto a quanto lo fossero i pony-express degli anni ’80. Però, a un quarto di secolo di distanza, la questione sociopolitica del loro bisogno di protezione nel rapporto di lavoro e la questione giuridica della qualificazione del rapporto stesso si sono ripresentate in termini molto simili. La novità è che questa volta sulla questione sono intervenuti i legislatori, sia sul piano nazionale (non solo in Italia) sia su quello europeo.

Qual è la tua valutazione di questi interventi, dal punto di vista dell’autonomia negoziale individuale?
Vedo in essi un difetto di fondo: sia l’ordinamento europeo sia quelli nazionali tendono ad affrontare il problema mediante un puro e semplice allargamento dell’area di applicazione dell’intera disciplina del lavoro subordinato tradizionale, così come la abbiamo ereditata dal secolo scorso. I legislatori non sembrano rendersi conto delle peculiarità strutturali del rapporto di lavoro organizzato mediante la piattaforma digitale, che per un verso azzerano o riducono notevolmente la rilevanza dell’estensione temporale della prestazione come misura del lavoro prestato, per altro verso presentano criticità in precedenza sconosciute sul piano del controllo della prestazione e della soggezione del prestatore nei confronti del creditore. A ben vedere, un problema in parte analogo si pone in riferimento al lavoro agile o smart working; con la differenza che questo si configura come una modalità di organizzazione della prestazione lavorativa che si attiva a intermittenza in determinati segmenti temporali, nell’ambito di un rapporto contrattuale che per il resto del tempo si svolge nel modo tradizionale. Nel caso del platform work svolto dai rider, invece, la prestazione lavorativa è caratterizzata per intero dalla nuova modalità tecnica di “inserimento” nell’organizzazione, rispetto alla quale sarebbe indispensabile una disciplina speciale sia del tempo della prestazione, sia della retribuzione. Disciplina speciale che deve necessariamente caratterizzarsi per lo spazio aperto alla negoziazione individuale di aspetti rilevanti della prestazione, circa la sua collocazione temporale nella giornata o nella settimana, la libertà o no di presentarsi ogni giorno al lavoro e poi di rispondere alle chiamate.

È significativo che anche la nuova disciplina del lavoro agile attribuisca esplicitamente un largo spazio alla negoziazione delle sue modalità sul piano individuale.
È molto significativo. In materia di lavoro agile, che si lasci uno spazio maggiore rispetto al passato per la negoziazione individuale di aspetti rilevanti della disciplina del rapporto è inevitabile. E il rischio che la libertà negoziale della persona interessata sia soltanto formale, cioè che essa subisca di fatto un’imposizione da parte del datore di lavoro, è limitato perché nella grande maggioranza dei casi è la persona stessa, già alle dipendenze dell’impresa, a chiedere di poter svolgere una parte della prestazione da remoto. Modalità di svolgimento che, viceversa, non può esserle imposta unilateralmente dall’imprenditore. Per questo aspetto il platform work dei rider presenta un rischio maggiore di squilibrio di forza contrattuale: perché la platea interessata è costituita per la maggior parte da persone di recente immigrazione, con scarsa conoscenza della lingua del luogo e scarsa o nulla forza contrattuale, per scarsità di alternative occupazionali effettivamente accessibili nel mercato del lavoro. Anche qui la negoziazione individuale di aspetti anche rilevanti del rapporto è necessaria, ma è anche necessaria una maggiore protezione, che può essere data, per esempio, nella forma di una disciplina applicabile per default, derogabile sul piano individuale mediante negoziazione assistita. Ma la protezione di gran lunga migliore – anche se di realizzazione più complessa – sarebbe un’altra: rafforzare la posizione di queste persone nel mercato del lavoro, per mezzo dei servizi di orientamento, formazione mirata agli sbocchi esistenti, assistenza alla mobilità professionale e geografica.

Nel tuo intervento del 1991 emergeva già chiaramente l’idea – che hai poi sviluppato in diversi tuoi scritti successivi e soprattutto nel libro L’intelligenza del lavoro – secondo la quale la condizione di debolezza contrattuale del lavoratore non è un dato intrinsecamente proprio della figura del lavoratore subordinato, trattandosi piuttosto di una condizione determinata dalla scarsità di alternative occupazionali, da un contesto socioeconomico che non consente a chi vive del proprio lavoro di autodeterminarsi. Credi che un’efficiente sistema di politiche attive possa contribuire a rafforzare il potere di negoziazione dei lavoratori?
È proprio così. Per restare al tema dei rider immigrati, la maggior parte di loro avrebbe, in realtà, numerosi sbocchi occupazionali diversi nell’industria; e sarebbe facile attivare percorsi brevi di formazione, o anche di mero addestramento, che consentirebbero loro di candidarsi a molte delle centinaia di migliaia di vacancies che nel nostro tessuto produttivo restano permanentemente scoperte per la difficoltà che le imprese incontrano nel reperimento della manodopera che cercano. La protezione più efficace che si possa dare loro consiste nel predisporre questi percorsi mirati agli sbocchi occupazionali esistenti, che è il compito – appunto – delle politiche attive del lavoro. Questo avrebbe l’effetto di rafforzare notevolmente il potere contrattuale individuale dei rider nei confronti delle rispettive piattaforme: perché offrirebbe loro la possibilità di andarsene altrove, mettendo meglio a frutto capacità professionali che molti di loro hanno e che nel lavoro del ciclofattorino vengono mortificate. Allargare gli spazi dell’autonomia negoziale individuale richiede che si rafforzi la capacità di ogni persona di “usare” il mercato del lavoro.

Tu vedi dunque un nesso stretto fra buon funzionamento dei servizi nel mercato del lavoro e ampliamento degli spazi dell’autonomia negoziale individuale delle persone che vivono del proprio lavoro.
Un nesso strettissimo. L’azzeramento o quasi dell’autonomia negoziale individuale, nel diritto del lavoro nato dalla prima rivoluzione industriale, quando nel mercato del lavoro dominava il modello del monopsonio strutturale, era la traduzione in termini giuridici dell’invettiva marxiana contro il “contratto-foglia di fico che copre la vergogna della dittatura del padrone sull’operaio”. Il mercato del lavoro attuale è profondamente diverso da quello: oggi predomina la figura del lavoratore capace di scegliere, di “usare” il mercato. L’ordinamento non soltanto non può non tenere conto di questo dato, ma deve considerarlo con grande favore, come il coronamento di un processo di emancipazione della persona che lavora; compito della Repubblica, a norma dell’articolo 3 della Costituzione, è promuovere le condizioni perché la capacità dei lavoratori di scegliere sia sempre più diffusa e più ampia.

A tuo avviso, la certificazione dei contratti di lavoro, introdotta – tra tanti dubbi e non poche critiche – dal d.lgs. n. 276 del 2003, in che misura e in che termini ha contribuito (se lo ho fatto) a rivalutare l’autonomia individuale nel diritto del lavoro?
L’istituto della certificazione del contratto di lavoro, come più in generale quello della negoziazione assistita nelle sue diverse forme e applicazioni, ha accompagnato positivamente il processo di cui abbiamo parlato: la trasformazione del lavoratore da soggetto deprivato della capacità di amministrare i propri interessi, bisognoso dunque di essere sempre sostituito da un tutore, a soggetto dotato dell’autonomia di cui godono tutti i cittadini. Salve – beninteso – alcune limitazioni di quell’autonomia, che però non costituiscono una peculiarità della posizione del lavoratore, poiché esse compaiono anche in numerosi altri rapporti di diritto civile e commerciale.

Se la limitazione dell’autonomia individuale non è più un tratto caratterizzante del diritto del lavoro, riscontrandola ora anche in altre branche del diritto, come possiamo giustificare la “specialità” di questo diritto rispetto al diritto comune? È possibile sostenere che la disciplina stia ritornando verso i principi del diritto comune dove l’autonomia contrattuale resta la regola e non l’eccezione?
Ciò che il diritto del lavoro disciplina è un rapporto contrattuale che presenta delle peculiarità rilevantissime non soltanto rispetto alla generalità dei rapporti contrattuali disciplinati dal diritto civile, ma anche rispetto alla più ristretta categoria di quelli di durata. Innanzitutto per il coinvolgimento diretto nella prestazione della persona del prestatore, che pone esigenze peculiari di tutela inderogabile della sua sicurezza e del suo benessere psico-fisico, della sua libertà morale, dei suoi diritti di riservatezza, del suo diritto a non essere discriminata per motivi di razza, nazionalità, genere, religione, orientamento politico o sessuale, ecc. In secondo luogo per la grande varietà delle sopravvenienze derivanti dal coinvolgimento diretto della persona, che possono determinarsi nell’arco di un periodo suscettibile di estendersi per molti anni, talvolta per l’intera vita lavorativa della persona medesima: nessuno – che non fosse un esperto di diritto del lavoro – sarebbe in grado di prevedere e negoziare la disciplina di tutte queste possibili sopravvenienze fin dalla stipulazione del contratto originario. Last but not least, questo contratto si caratterizza rispetto alla maggior parte degli altri contratti di durata disciplinati dal diritto civile per gli elementi “assicurativi” che esso deve – in forza di diverse norme costituzionali – necessariamente contenere. Le esigenze indicate per prime, si pensi per esempio a quelle di tutela antinfortunistica e dell’igiene dell’ambiente di lavoro, richiedono disposizioni assolutamente inderogabili. Ma l’economia del lavoro spiega perché anche la disciplina delle diverse possibili sopravvenienze e dell’accollo all’imprenditore del relativo rischio richieda per lo più disposizioni inderogabili: tra le parti di questo contratto vi è una ineliminabile asimmetria informativa che rende impossibile una negoziazione efficiente del contenuto assicurativo del contratto stesso al livello individuale, per esempio in materia di malattia, o di maternità, o di assunzione di cariche elettive da parte del prestatore; tutte materie sulle quali sarà dunque sempre necessaria una disciplina inderogabile dettata dal legislatore o dalla contrattazione collettiva; e quest’ultima richiede a sua volta una disciplina speciale per buona parte non desumibile dal diritto comune dei contratti. Tutto questo per dire che anche quando il diritto del lavoro avrà aperto tutti gli spazi possibili all’autonomia negoziale individuale, per esempio in materia di tempo e luogo di lavoro, di mansioni, di formazione continua, di lavoro da remoto, di premi e altri incentivi, di welfare aziendale, ecc., resterà pur sempre un voluminoso nucleo di disciplina inderogabile della materia, che costituirà una peculiarità ineliminabile del diritto del lavoro medesimo.

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