TUTELIAMO IL REDDITO, NON IL POSTO FISSO

AI VANTAGGI DI UNA MAGGIORE STABILITA’ DEL RAPPORTO DI LAVORO CORRISPONDONO UNA RIDUZIONE DELLE RETRIBUZIONI (IL “PREMIO” PAGATO DAI LAVORATORI PER LA COPERTURA ASSICURATIVA ACCOLLATA ALL’IMPRESA) E UNA DURATA PIU’ LUNGA DEI PERIODI MEDI DI  DISOCCUPAZIONE – MEGLIO RIPENSARE L’INTERO MODELLO DI PROTEZIONE DEL LAVORO

Articolo di Marco Leonardi e Giovanni Pica (ricercatori di economia politica, rispettivamente nell’Università degli Studi di Milano e nell’Università di Salerno) pubblicato su Lavoce.info, 12 marzo 2010

Con il varo della legge che prevede il ricorso all’arbitrato secondo equità invece che al giudice ordinario in caso di licenziamento individuale, si è tornati a parlare di regimi di protezione del posto di lavoro.
Le parti contrattuali possono stabilire clausole compromissorie per demandare la soluzione delle controversie a un collegio arbitrale. Ciò deve essere previsto da contratti collettivi di lavoro subito in vigore. Si tratta di una “mini” riforma che forse non intacca i diritti fondamentali dei lavoratori in caso di licenziamento (come l’articolo 18) ma neanche risolve i problemi connessi ad un mondo del lavoro sempre più diseguale. È un’altra occasione mancata.
L’arbitrato si muove nella direzione giusta di cercare di ridurre il contenzioso nelle cause di lavoro, ma il problema del mercato del lavoro italiano non è nella tutela processuale del lavoratore ma in quella sostanziale. E per tutela sostanziale intendiamo una tutela che si estenda ai periodi di disoccupazione e ai moltissimi lavoratori che oggi non sono affatto tutelati dalle leggi sui licenziamenti.
Per tutela sostanziale non intendiamo alzare i costi di licenziamento alle imprese. Più di una volta nel passato si è intervenuti direttamente per aumentare i costi del licenziamento. Questo approccio, seguito dal legislatore italiano, tutela il lavoratore proteggendone il posto di lavoro, ma non il reddito in caso di disoccupazione. Quel che vogliamo sottolineare è che la protezione dal licenziamento non è gratis per i lavoratori.
Per stimare i costi delle leggi di protezione del lavoro abbiamo studiato un episodio del 1990, quando in Italia fu approvata una legge che aumentò i costi di licenziamento per le piccole imprese sotto i 15 dipendenti.

L’EVOLUZIONE DELLA LEGISLAZIONE ITALIANA
Secondo la legge il datore di lavoro può licenziare un lavoratore, senza incorrere in costi aggiuntivi, solo qualora ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo. La prima fa riferimento a eventi che incrinino il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il secondo a motivazioni di natura economica. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 prevede, in caso di licenziamento non giustificato, l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare (tutela reale) il lavoratore e corrispondergli una indennità a titolo di risarcimento del danno subito da un minimo di cinque a un massimo di dodici mensilità (tutela obbligatoria). La legge si applica solo ai datori di lavoro che occupino, nell’unità produttiva nella quale ha avuto luogo il licenziamento, più di quindici lavoratori.
La legge 108 del 1990, approvata in fretta e furia per evitare un referendum che avrebbe esteso l’articolo 18 a tutte le imprese, introduce la tutela obbligatoria per le piccole imprese sotto i quindici dipendenti fino ad allora esenti da costi di licenziamento. La riforma impone, in caso di licenziamento ingiustificato avvenuto in un’unità produttiva con meno di quindici lavoratori, l’obbligo di risarcimento con un’indennità pari a minimo 2,5 e massimo 6 mensilità. La legge del 1990 ha quindi alzato la protezione dei lavoratori, in effetti imponendo una tassa sui piccoli imprenditori sotto i quindici dipendenti. Ma chi ha pagato quella tassa? Come si sa in economia non sempre l’incidenza nominale della tassa corrisponde a quella reale.

EFFETTI ECONOMICI DEL PROTEZIONE DELL’IMPIEGO
La presenza di vincoli ai licenziamenti induce le imprese a ridurre quanto più possibile le variazioni della forza lavoro nel corso del ciclo economico, “appiattendone” il profilo nel tempo, allo scopo di minimizzare i costi di aggiustamento in cui incorrono. Se ciò da una parte rende più stabili i rapporti di lavoro, rende anche più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro da parte chi è in cerca di occupazione.
La maggiore stabilità tuttavia non è gratuita. Un aspetto spesso ignorato dei costi di licenziamento consiste nella possibilità che le imprese li aggirino facendoli pagare ai lavoratori attraverso minori salari. Un’analisi della riforma del 1990 mostra che la legge ha ottenuto gli effetti previsti: alzando i costi di licenziamento sulle piccole imprese ne ha ridotto i licenziamenti, ma anche le assunzioni. (1)
Tuttavia, parte dell’aumento dei costi di licenziamento è stato pagato non dalle imprese, ma dai lavoratori nella forma di minori salari. La riduzione dei salari dei lavoratori delle piccole imprese rispetto alle grandi dopo la riforma del 1990 è di circa il 3 per cento, il che corrisponde a un trasferimento del 40 per cento dei costi di licenziamento dalle imprese ai lavoratori. Il calo è possibile in quanto molto spesso i lavoratori delle piccole imprese non hanno potere contrattuale nella determinazione del salario.

PROTEZIONE DELL’IMPIEGO O DEL REDDITO?
Quale lezione trarre da questo episodio? Primo, nei roventi dibattiti che periodicamente si affacciano sulla scena italiana sarebbe opportuno considerare non solo i vantaggi che la legislazione offre ai lavoratori (maggiore stabilità dell’impiego) ma anche i costi (maggiore durata della disoccupazione e minori salari). Secondo, se è vero che l’arbitrato è un modo per aggirare la legislazione in materia di protezione dell’impiego, è anche vero che esistono tanti altri modi di aggirarlo, tra cui quello di ridurre i salari o di costringere i lavoratori ad aprirsi una partita Iva.
Ed è ingente la massa dei lavoratori oggi esposta alle fluttuazioni del mercato del lavoro, perché a tempo determinato o perché a partita Iva o altro. L’attuale crisi ha riproposto con drammaticità questo problema. A questo punto, non è meglio ripensare l’intero modello e puntare sulla protezione del reddito dei lavoratori piuttosto che sulla protezione del posto di lavoro?

(1) Leonardi, M. e Giovanni Pica, Employment Protection Legislation and Wages, IZA Discussion Paper 2680.

 
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