“LIBERAZIONE” CONTESTA IL PROGETTO NEROZZI

E’ VERO CHE IL DISEGNO DI LEGGE ISPIRATO AL PROGETTO BOERI-GARIBALDI RISCRIVE PARZIALMENTE LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO PER I NUOVI RAPPORTI DI LAVORO, RENDENDOLA PIU’ FLESSIBILE NEI PRIMI TRE ANNI DEL RAPPORTO; MA ESSO AL TEMPO STESSO NE ESTENDE L’APPLICAZIONE A TUTTA L’AREA DEL LAVORO IN POSIZIONE DI DIPENDENZA ECONOMICA

Articolo di Luigi Cavallaro, giudice del lavoro a Palermo, pubblicato su Liberazione del 13 maggio 2010. Pur non essendo io il primo firmatario del disegno di legge contestato (che ho firmato considerandolo soltanto come un second best rispetto al mio disegno di legge), d’accordo con Paolo Nerozzi, sullo stesso quotidiano il 16 maggio ho replicato io (perché l’articolo di Cavallaro si rivolge personalmente a me); e nello stesso giorno è comparsa la contro-replica di Cavallaro. Aggiungo pertanto qui una mia contro-contro-replica.

CONTRATTO UNICO PER LICENZIARE
Mi onoro dell’amicizia personale di Pietro Ichino e dunque nulla può essere più lontano dalle mie corde di un’avversione preconcetta a quel che scrive o propone. Sed magis amica veritas e dunque non posso convenire con l’interpretazione che Ichino continua a offrire della proposta di legge sul contratto unico d’ingresso che egli ha presentato recentemente al Senato unitamente a Paolo Nerozzi, Ignazio Marino, Felice Casson e altri senatori del Pd.
Qual è la materia del contendere? Molto semplicemente, Ichino sostiene che la proposta di legge non condurrebbe ad alcun «aggiramento» dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, mentre è vero il contrario. Attualmente, infatti, chi viene assunto a tempo indeterminato alle dipendenze di un’impresa che occupi più di quindici dipendenti nella medesima unità produttiva o comunque nel medesimo comune (ovvero più di sessanta sul territorio nazionale) è tutelato sin dall’assunzione contro il licenziamento illegittimo mediante la reintegrazione nel posto di lavoro: e ciò a prescindere dal motivo per cui è stato illegittimamente intimato il licenziamento, si tratti cioè di motivo disciplinare o economico.
Secondo il ddl proposto da Ichino, invece, coloro che venissero assunti con il contratto unico d’ingresso e venissero illegittimamente licenziati entro il triennio dall’assunzione potrebbero aspirare al reintegro solo se licenziati per motivi disciplinari o discriminatori; in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, invece, non si farebbe luogo ad alcun reintegro, ma soltanto alla corresponsione di un’indennità variabile in funzione della pregressa durata del rapporto (art. 4 ddl).
Non vale obiettare che, essendo assunti con contratti a termine o di somministrazione o in virtù di collaborazioni a progetto, i giovani d’oggi l’articolo 18 non lo vedono neanche da lontano: a parte il fatto che le stime più recenti indicano che solo il 50% delle nuove assunzioni viene effettuato con tipologie contrattuali del genere, è appena il caso di osservare che la proposta di Ichino non farebbe altro che elevare a norma quel che attualmente è solo un (deprecabile) fatto. Cioè si limiterebbe a razionalizzare l’esistente nella forma di un’universalizzazione del precariato!
Naturalmente si può discutere se codesta universalizzazione sia opportuna o no. Ichino pensa di sì e come lui il Partito democratico, che per bocca di Paolo Gentiloni si è spinto recentemente a dire che se proposte del genere non ci fossero bisognerebbe inventarle. Personalmente, invece, ritengo che si tratti di una proposta sbagliata fin dalle sue premesse teoriche, che derivano da un noto pamphlet degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi; e avendone già scritto altrove (Un contratto precario per tutti?, www.economiaepolitica.it, 9 dicembre 2008) e non avendo avuto ancora uno straccio d’obiezione né da Ichino né tampoco da Boeri e Garibaldi non reputo di dovermi ripetere. In ogni caso, la proposta di Ichino, Nerozzi e co. è questa e, come si capisce facilmente, implica una sostanziale modifica in senso peggiorativo dell’art. 18. Caro Pietro, perché negarlo?
Luigi Cavallaro

 

IL PROGETTO NEROZZI NON TOGLIE NULLA A CHI OGGI E’ PROTETTO, MA ESTENDE A TUTTI I NUOVI LAVORATORI UNA PROTEZIONE DALLA QUALE ALTRIMENTI PIU’ DI META’ RESTEREBBE ESCLUSA
Caro Direttore, rispondo a Luigi Cavallaro, che su Liberazione di giovedì mi interpella sul disegno di legge di Paolo Nerozzi, firmato anche da me e da numerosi altri senatori del Pd, ispirato al progetto di “contratto unico” di Tito Boeri e Pietro Garibaldi.
Lo stesso Luigi Cavallaro conclude il suo esame del progetto affermando che esso “implica una sostanziale modifica in senso peggiorativo dell’articolo 18” e me ne chiede conto. Ma poco prima riconosce che metà delle assunzioni oggi avvengono con contratti di lavoro a termine, “a progetto”, di somministrazione, comunque non stabili; e che “i giovani d’oggi l’articolo 18 non lo vedono neanche da lontano”. Questo è il punto: il progetto Nerozzi si propone di superare questo regime di apartheid fra protetti e non protetti, che oggi penalizza soprattutto i giovani.
Il progetto risponde a una rivendicazione che la Cgil ha fatto propria al congresso di Rimini di quattro anni fa: quella, cioè, di allargare il campo di applicazione del diritto del lavoro a tutta l’area della dipendenza economica dall’azienda, che è assai più ampia rispetto a quella del lavoro subordinato. E propone una definizione precisa di questa nozione: deve intendersi come “economicamente dipendente” il lavoro personale prestato continuativamente per un’unica azienda, quando il lavoratore ne trae complessivamente più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, e il reddito stesso non supera i 30.000 euro annui. Una definizione che ha il pregio di ricomprendere non solo tutte le collaborazioni autonome continuative e i “lavori a progetto”, ma anche tutte le posizioni di falso lavoro libero-professionale “con partita Iva”, consentendone l’individuazione diretta anche soltanto sulla base dei tabulati dell’Inps o dell’Erario, senza bisogno di sofisticate disquisizioni giuridiche.
Un altro punto di grande importanza è che il progetto non tocca alcuna posizione di lavoro stabile già costituita, ma soltanto i rapporti di lavoro che nasceranno d’ora in poi nell’area allargata della “dipendenza economica”. E a questi – tutti – applica la tutela forte (articolo 18) contro le discriminazioni e contro il licenziamento disciplinare non giustificato. Altro che aggiramento dell’articolo 18! Questa tutela, mentre non viene tolta a nessuno che oggi ne goda, per i rapporti destinati a nascere da qui in avanti vede aumentare drasticamente l’area di applicazione, fino a ricomprendere un’intera nuova generazione che ne è oggi esclusa. Quanto al licenziamento per motivi oggettivi, cioè economici od organizzativi, il progetto Nerozzi prevede per i primi tre anni un indennizzo per il lavoratore licenziato, in misura peraltro doppia rispetto a quella normalmente vigente negli altri Paesi europei; e dopo il triennio una estensione a tutti dell’articolo 18.
Se le cose stanno così, che senso ha continuare a rifiutare persino di aprire una discussione di merito su questo progetto e sugli altri analoghi che sono stati presentati da altri parlamentari del Pd, per il solo fatto che “toccano” l’articolo 18? I giovani, che – anche Luigi Cavallaro lo riconosce ‑ oggi l’articolo 18 non lo vedono neanche di lontano, chiedono un lavoro decente e la fine dell’attuale apartheid a loro danno. Non rende loro un buon servizio chi rifiuta addirittura di aprire il discorso sul come riprogettare e riscrivere un diritto del lavoro capace di applicarsi davvero anche a (tutti) loro.
Pietro Ichino

 

LA CONTRO-REPLICA DI LUIGI CAVALLARO
La replica di Pietro Ichino mi conferma che non avevo visto male. È infatti evidente che l’unico modo in cui egli può presentare la proposta sua e di Nerozzi come un miglioramento dello status quo consiste in un’indebita equiparazione tra una situazione di fatto e la sua regolamentazione prossima ventura. Ichino in sostanza ci dice: siccome la metà dei rapporti di lavoro che si costituiscono di questi tempi è tale da eludere l’applicazione dell’articolo 18, allora discipliniamoli in modo da garantirgli un po’ più di tutela.
Si tratta tuttavia di un ragionamento fallace. In primo luogo, e banalmente, perché trascura di considerare che dopo l’istituzione del contratto d’ingresso saranno tutti i giovani a non poter godere di un’integrale applicazione dell’art. 18, non più solo il 50%; e che questo sia un miglioramento dello status quo mi pare francamente insostenibile. In secondo luogo, perché l’applicabilità della disciplina ai soli nuovi rapporti di lavoro rischia di conseguire l’effetto opposto di stabilizzare il dualismo del nostro mercato del lavoro: quale imprenditore resisterà all’«incentivo» di licenziare il neoassunto per motivi economici entro il triennio dall’assunzione e assumerne un altro al suo posto? In terzo luogo, ma più sostanzialmente, perché suggerisce che la colpa originaria di questa situazione ricada proprio sull’art. 18: che cioè il deprecato dualismo affondi le sue ragioni nelle garanzie che esso appresta contro il licenziamento illegittimo.
Abbiamo più volte denunciato che quest’ultima è una tesi priva di fondamento scientifico e, di nuovo, non vogliamo ripeterci: il lettore che volesse approfondire, oltre al già citato Un contratto precario per tutti? (reperibile all’indirizzo www.economiaepolitica.it), potrà utilmente leggere un saggio che abbiamo pubblicato con Daniela Palma sul n. 4/2008 della Rivista italiana di diritto del lavoro, di cui proprio Ichino è stato per tanti anni apprezzato (e pluralista) direttore.
Prendiamo piuttosto atto, seppure a malincuore, che sulle ragioni che abbiamo portato per denunciare l’infondatezza degli addebiti usualmente mossi all’art. 18 né Tito Boeri né Pietro Garibaldi, che – insieme ad Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Nicola Rossi e tanti altri ancora – se ne sono fatti portatori, ci hanno mai degnato di una risposta. Evidentemente saranno molto occupati. Ma talvolta vien fatto di pensare che presentarsi nei salotti televisivi come «esperti» in totale assenza di contraddittorio è molto più comodo che misurarsi con chi, come noi, il dualismo del mercato del lavoro lo vorrebbe sì combattere, ma non da destra.

P.S. Caro Pietro, potresti suggerire a Nerozzi che la sua definizione aritmetica del concetto di «dipendenza economica» rischia paradossalmente di trasformare in potenziali lavoratori «autonomi» una larghissima fetta di lavoratori attualmente subordinati? Trentunomila euro di reddito annuo lordo equivalgono a circa 23-24.000 netti, ossia a circa 1.800 euro mensili per tredici mensilità…
Luigi Cavallaro

 

LA MIA CONTRO-CONTRO-REPLICA
Caro Luigi, mi sembra che tu guardi ai risultati della riforma proposta con il  progetto Nerozzi in modo molto parziale:
    a) non consideri che oggi più di metà dei nuovi rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente è stabilmente esclusa dal diritto del lavoro, e la strategia della vecchia sinistra fino a oggi non le ha fatto fare alcun passo avanti; il progetto Nerozzi, invece, allineandosi per questo aspetto con il mio progetto del nuovo Codice del lavoro (d.d.l. n. 1873/2009), consente di estendere l’applicazione di tutto il diritto del lavoro a quella metà dei nuovi rapporti di lavoro;
   b) non consideri, in particolare, che il progetto Nerozzi estende a tutti i nuovi rapporti di lavoro sostanzialmente “dipendente” (quelli che oggi si costituiscono in forma di collaborazione autonoma, di “lavoro in partecipazione”, o di  collaborazione autonoma continuativa o “a progetto”) contro il licenziamento disciplinare ingiustificato e il licenziamento discriminatorio la protezione forte dell’articolo 18; e, contro il licenziamento per motivo di natura economica, una protezione economica a un livello superiore a quello di qualsiasi altro Paese europeo (due mesi di indennizzo per anno di anzianità); poi, dopo il triennio, articolo 18 anche per questo tipo di licenziamento;
   c) quanto al rischio che tu paventi, che l’imprenditore licenzi il/la giovane poco prima della scadenza dei triennio dall’assunzione per assumerne un altro, non consideri che questo licenziamento gli costerebbe sei mensilità di retribuzione a titolo di indennità di licenziamento: perché mai egli dovrebbe accollarsi questo onere aggiuntivo, per dover ricominciare daccapo ad addestrare un nuovo dipendente?
   Mettiti nei panni di un ventenne che entra oggi nel mercato del lavoro: preferiresti la certezza di un rapporto regolato in questo modo, oppure l’alternativa tra un articolo 18 “tutto e subito”, ma sempre più improbabile, difficilissimo da raggiungere per la grande maggioranza dei giovani, e una assai più probabile lunghissima “anticamera” senza alcuna protezione?
   Quanto al limite di reddito annuo di 30.000 euro (che nel mio d.d.l. n. 1873 è posto invece a 40.000 euro), esso delimita il campo di applicazione del diritto del lavoro al di fuori dell’area della subordinazione, nell’area del lavoro continuativo in condizione di monocommittenza che oggi è qualificato come autonomo (e quindi escluso da qualsiasi protezione anche quando produce un reddito di mille euro). Quando invece il lavoro è qualificabile come subordinato, in entrambi i progetti la protezione si applica senza limiti di reddito.
Pietro Ichino

 

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