20 MAGGIO: I QUARANT’ANNI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

LO STATUTO DEI LAVORATORI È UNA DELLE POCHE GRANDI LEGGI ITALIANE IN MATERIA DI LAVORO CHE HANNO AVUTO UN ALTO TASSO DI EFFETTIVITÀ E UNIVERSALITÀ; MA LO HA PERDUTO NEL CORSO DEL QUARANTENNIO. E LA TECNICA PROTETTIVA ADOTTATA PER LA PROTEZIONE DELLA SICUREZZA E DELLA RISERVATEZZA DEL LAVORATORE È FORTEMENTE LEGATA AL TEMPO IN CUI QUELLA LEGGE È STATA EMANATA: UN AGGIORNAMENTO DELLA DISCIPLINA IN ENTRAMBI I CAMPI È INDISPENSABILE

Intervista a cura di Dario Ferrara, pubblicata sulla rivista Diritto e Giustizia, 19 maggio 2010

Lo Statuto dei lavoratori arriva all’età dei bilanci: splendido quarantenne, come dice di sé nel suo film Nanni Moretti, o residuato novecentesco?

Lo Statuto dei lavoratori è una delle poche grandi leggi italiane in materia di lavoro che hanno avuto un alto tasso di effettività. E lo conserva tuttora. Certo, per molti aspetti è una legge fortemente legata al tempo in cui è stata emanata e al modello di azienda dominante a quel tempo: la grande azienda di tipo fordista. Una legge legata anche al sistema di relazioni industriali che nel 1970 sembrava destinato a dominare nei decenni successivi.

Quale?
Un sistema caratterizzato dall’unione fra le tre confederazioni sindacali maggiori. Senonché il processo di unificazione si è presto interrotto.

 

Quale conseguenza ne trae?
Che anche la disciplina dei rapporti sindacali contenuta nel titolo III dello Statuto va riscritta.

 

Come?
Commisurando le dimensioni e le prerogative di ciascuna rappresentanza sindacale aziendale al numero dei consensi effettivi. Ho presentato, con altri 54 senatori, un disegno di legge che delinea una possibile riforma di questa materia, nel segno della democrazia sindacale (d.d.l. 11 novembre 2009 n. 1872).

 

E sul versante della disciplina dei rapporti individuali di lavoro?
Mi sembra che dovrebbe essere riscritta la parte relativa alla tutela della riservatezza del lavoratore, scritta quando ancora non esistevano i computer e internet, quando le grandi imprese non avevano ancora incominciato a utilizzare i test psicoreattivi e le indagini motivazionali; ma va riscritta anche la norma sul mutamento di mansioni, che rispecchia un tessuto produttivo molto più statico di quello attuale.

 

E l’articolo 18, in materia di licenziamenti, è da salvare o cambiare?
Anche quella è una norma scritta in riferimento a un contesto in cui il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate e delle strutture produttive era molto più lento di quello attuale. Lo manterrei per il licenziamento disciplinare e per quello discriminatorio; ma nella materia del licenziamento dettato da motivi economici od organizzativi, a mio avviso, oggi occorre adottare una tecnica di protezione della sicurezza del lavoratore molto diversa. La sicurezza del lavoratore non può più essere fondata su di un sistema di job property, né sull’ingessatura delle strutture produttive, ma deve essere fondata su di una garanzia di continuità del reddito del lavoratore e assistenza intensiva nei processi di aggiustamento industriale e di mobilità da azienda ad azienda.

 

Il modello della flexsecurity, insomma.
Sì: è quello che mi sono proposto di delineare nei disegni di legge rispettivamente n. 1481 e n. 1873 che ho presentato, anche questi con altri cinquantaquattro senatori, nel marzo e novembre 2009, . Il primo mira a rendere possibile una sperimentazione al livello aziendale anche prima di una riforma organica della materia, il secondo disegna compiutamente un nuovo diritto del lavoro adatto al nuovo contesto post-industriale in cui ci collochiamo oggi, e capace di applicarsi veramente a tutta l’area del lavoro in posizione di dipendenza economica: non soltanto a metà di quest’area, come accade oggi per l’articolo 18 dello Statuto.

 

E’ così: ci sono categorie iper-protette, ad esempio nel settore pubblico e nelle imprese di grandi dimensioni, mentre sono sempre più i non-garantiti rimasti fuori dal “fortino”. Come si può superare questo dualismo del sistema?
Lo si può superare, appunto, riscrivendo il diritto del lavoro per l’Italia del dopo-crisi e per le nuove generazioni, che sono attualmente di fatto escluse dal campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori del 1970.

 

Si parla insistentemente di “Statuto dei lavori”: poche regole comuni e il resto tutto affidato alla contrattazione decentrata. Che ne pensa, e in che cosa si differenzia la Sua proposta di flexsecurity?
Dello “Statuto dei lavori” abbiamo molte versioni ormai un po’ invecchiate: soprattutto quella di Marco Biagi del 1997 e la Amato-Treu del 1999. La nuova, preannunciata dal ministro Sacconi, non è ancora nota neppure in parte. E’ difficile dunque discuterne. Le due del 1997 e del 1999, a mio modo di vedere, avevano un grosso difetto: non cambiavano una virgola del vecchio diritto del lavoro per i lavoratori subordinati e si limitavano a disporre qualche protezione in più per i collaboratori autonomi continuativi e gli altri “atipici”. In questo modo non si supera l’attuale regime di apartheid  fra protetti e non protetti. La mia proposta è molto diversa.

 

In estrema sintesi?
Ridefinire l’area della “dipendenza economica” del lavoratore dall’azienda, che non coincide affatto con quella della “subordinazione” tradizionale, e dettare un diritto del lavoro di nuova concezione, semplificato e incisivo al tempo stesso, suscettibile davvero di applicarsi in tutta questa ampia area. Non un “contratto unico” di lavoro, ma un “diritto del lavoro unico”, capace di essere davvero universale. Questo appunto è l’oggetto del disegno di legge n. 1873: per il testo e i dettagli del progetto, oltre che per il dibattito in proposito devo rinviare al mio sito.

 

In un mondo di piccole aziende, la rinuncia a garanzie centrali non può risultare un salto nel buio?

Nel tessuto produttivo italiano attuale, più di un terzo dei lavoratori del settore privato dipende da aziende con meno di 16 dipendenti, nelle quali non si applicano né l’articolo 18 dello Statuto del 1970, né la parte di quella legge relativa ai diritti sindacali in azienda. Anche questo è un dualismo che può e deve essere superato: anche per questo occorre riscrivere un diritto del lavoro davvero suscettibile di applicazione universale.

 

 

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