UNO SCIOPERO ANTICO

L’AZIONE DI LOTTA PROCLAMATA DALLA CGIL IN TUTTA ITALIA PER IL 12 DICEMBRE PROSSIMO RISCHIA DI RESTARE DI FATTO FOCALIZZATA SUGLI INTERESSI DEGLI INSIDERS PIU’ CHE SU QUELLI DEGLI OUTSIDERS

Articolo di Maurizio Ferrera  – politologo del Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università di Milano – pubblicato come fondo dal Corriere della Sera il 9 dicembre 2008

          Niente “svolta” da parte del governo, dunque sciopero confermato. Fortemente critica verso il decreto anticrisi, la CGIL non rinuncia alla piazza e rilancia le proprie rivendicazioni: un piano straordinario che mobiliti almeno un punto e mezzo di PIL fra trasferimenti e investimenti e l’apertura immediata di una tavolo fra governo e parti sociali sulla gestione della crisi. Detto in parole povere, più spesa pubblica e più concertazione. Ma vale davvero la pena fermare il paese per riproporre questo adagio? E anche a prescindere dallo sciopero, si tratta di una musica promettente per affrontare l’emergenza economica?

          L’esperienza degli ultimi decenni raccomanda estrema prudenza. Quando in altri periodi di crisi si sono aperti i rubinetti della spesa e si sono organizzati dei tavoli fra governo e parti sociali, investimenti e sussidi sono stati quasi sempre dirottati a vantaggio dei settori e delle categorie più organizzate o comunque già inserite nel sistema delle garanzie pubbliche. Le recessioni sono passate e l’economia ha ricominciato a tirare: è successo tre o quattro volte dagli shock petroliferi degli anni settanta in poi. Ma ad ogni giro il nostro modello sociale si è ritrovato con uno squilibrio in più, con una nuova distorsione. E con un numero sempre maggiore di outsiders.

          I lavoratori con contratti di durata prefissata hanno ormai superato i due milioni e mezzo. La maggioranza dei precari è priva di tutele o perché non ne ha diritto formalmente o perché non riesce di fatto a maturare i  requisiti previsti. Agli “atipici” vanno poi sommati tutti gli “irregolari”, ossia i lavoratori intrappolati nell’economia sommersa. La stime parlano di un altro milione e mezzo di occupati: se perdono il posto, questi lavoratori iniziano un percorso di vera e propria caduta libera dal punto di vista economico e sociale.

          Sarebbe sbagliato e ingeneroso attribuire ai sindacati la responsabilità  dei tanti “buchi neri” che caratterizzano il modello sociale italiano. Tutti gli attori politici  hanno dato il loro contribuito, a cominciare naturalmente dai partiti. Ma se ci ritroviamo oggi con l’unico welfare state europeo totalmente sprovvisto di rete a sostegno degli esclusi, qualcosa è sicuramente andato storto (molto storto, è il caso di dire) anche nel circuito della rappresentanza sociale. I sindacati hanno scelto di schierarsi dalla parte degli insider, hanno “conquistato” per  loro un sistema di tutele fra i più generosi d’Europa e, grazie ad esse (pensiamo alla Cassa integrazione), hanno consolidato ed espanso nel tempo le proprie risorse di potere. Così facendo essi hanno però anche perso contatto con tutti i gruppi situati nei settori più esterni e periferici del mercato del lavoro, rinunciando di fatto a leggere i loro bisogni, ad articolare  la loro voce. Nei  tanti “tavoli” istituiti nell’ultimo decennio i sindacati non si sono mai seriamente (sottolineo: seriamente) battuti a favore di giovani, donne, irregolari, inattivi scoraggiati, immigrati, disoccupati “senza rete”. L’ultima occasione sprecata è recentissima: il “Protocollo sul Welfare” dell’estate del 2007 ha avuto come piatto forte la costosissima abolizione dello scalone  pensionistico, una misura che interessava poche centinaia di migliaia di insiders. Per gli outsiders il Protocollo conteneva solo promesse (a tutt’oggi non mantenute) e qualche pannicello caldo.

          L’emergenza economica pone oggi il sindacato davanti a un bivio strategico. Da un lato c’è il classico percorso rivendicativo interno alla cittadella garantita, con un’agenda fatta di più spesa (per le voci tradizionali di protezione) e più concertazione “corporativa”  a favore dei settori e delle categorie che stanno dentro le mura perimetrali. Dall’altro lato c’è un nuovo percorso che conduce verso l’esterno, dove stanno i gruppi sociali con garanzie deboli e i vari “senza rete”. E’ la strada che riconnette il circuito della rappresentanza a quei lavoratori su cui la nostra economia e il nostro welfare dovranno fare affidamento nei prossimi decenni: pensiamo alle donne, agli immigrati e naturalmente ai giovani.

          Che strada vuole imboccare il sindacato? Difficilmente saremo in grado di capirlo venerdì prossimo, dagli slogan di piazza. Ma vorremmo poterlo sapere prima possibile. Data la gravità della crisi in atto, il modello sociale italiano ha davvero bisogno di una terapia d’urto: su questo Epifani ha ragione. Ma la responsabilità del cambiamento riguarda tutti. E la “svolta” forse più importante è oggi quella che devono fare i sindacati: senza eccezioni, CGIL compresa.

                                   Maurizio Ferrera

 

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