NON CI SONO ABBASTANZA LIBERALI

IN ITALIA TUTTI I PARTITI SI DICONO LIBERALI; ED EFFETTIVAMENTE DI LIBERALISMO, QUELLO VERO, CI SAREBBE UN GRAN BISOGNO – MA I LIBERALI VERI SONO POCHI, TRA I NOSTRI POLITICI; E NESSUNO DEI PARTITI PRESENTI IN PARLAMENTO, TRANNE FORSE I RADICALI (CHE PERO’ PARTITO NON SONO), PUO’ DIRSI DAVVERO TALE

Editoriale di Luca Ricolfi pubblicato su La Stampa dell’8 settembre 2010

Mai dire mai. Chi lo sa, potrebbe anche succedere. E se succedesse sarei il primo a rallegrarmene. Parlo della nascita, in Italia, di un «partito liberale di massa». Un partito anti-assistenziale, fiducioso nel libero mercato, determinato a modernizzare il Paese. E che, nonostante la sua vocazione a cambiare l’Italia, avesse un seguito elettorale largo. Un partito, per intenderci, che non fosse la riedizione dei suoi progenitori liberali, repubblicani, radicali, i quali – anche considerati tutti assieme – non arrivarono mai al 10% dei consensi.
E tuttavia, ora che quel sogno viene disseppellito da più parti, ora che tutte le novità politiche si autodipingono come liberali, mi si permetta di esternare un po’ di scetticismo. Si autoproclamano liberali i centristi di Casini e di Rutelli, impegnati (con Montezemolo?) a costruire il «Partito della nazione». Si autoproclamano liberali gli uomini di Fini, che si accingono a costituire il nuovo partito Futuro e libertà. Ed è sostanzialmente un progetto liberale quello con cui Chiamparino ha lanciato la sua Opa, la sua «Offerta pubblica di acquisto» sul Partito democratico, accuratamente argomentata nel suo libro-intervista appena uscito (La sfida, Einaudi).
Ma sono credibili queste sfide? Siamo sicuri che gli osservatori e gli studiosi che danno tanto credito a questi progetti non confondano i propri sogni con la realtà? Siano sicuri che quello del «partito liberale di massa» non sia essenzialmente un mito degli intellettuali, una proiezione dei loro desideri più che una possibilità concreta?
Insomma io sono perplesso, pur facendo parte della schiera di quanti pensano che l’Italia avrebbe solo da guadagnare dalla nascita di una simile creatura politica. Sono perplesso, innanzitutto, dal lato dell’offerta politica. Non ho mai creduto, ad esempio, che da due partiti illiberali, come il Pci e la Dc, potesse nascere un partito che avesse il liberalismo nel suo Dna; o, se preferite, che da due chiese potesse nascere una non-chiesa. Per questo penso che l’Opa di Chiamparino non potrà funzionare: il corpaccione del Partito democratico è troppo intossicato dal passato ideologico dei suoi fondatori, post-comunisti e post-democristiani, per reggere l’urto laico del sindaco di Torino (dove per me laicità non significa anticlericalismo, bensì libertà mentale). Allo stesso modo non penso che un partito di ispirazione genuinamente liberale possa nascere dagli eredi centristi della Dc, o dagli eredi post-fascisti dell’Msi. Non perché gli esponenti di questi partiti non lo vogliano, ma perché a frapporsi al progetto sono la loro storia, il loro insediamento prevalente nelle regioni assistite, la rete delle loro clientele nel Centro-Sud.
Non per nulla tutte le componenti del nascente Terzo polo (Udc, Api, Fli, Mpa) sono risolutamente antifederaliste, una circostanza che dovrebbe suscitare qualche interrogativo visto che, al momento, il federalismo è l’unico progetto politico organico di razionalizzazione della spesa pubblica e di contenimento della pressione fiscale, i due capisaldi di qualsiasi politica economica liberale.
La mia impressione è che, in questi giorni, si stia consumando un grande equivoco: chi sogna una destra europea, rispettosa delle istituzioni, aperta al dissenso, conservatrice ma non populista, tende a vedere il nuovo partito di Fini come la possibile incarnazione di una tale destra, ma al tempo stesso vuol credere che una tale destra – che io definirei semplicemente normale – sia destinata a evolvere in partito liberale di massa, come se l’essenza del liberalismo fosse solo lo «Stato di diritto» e non anche la difesa della concorrenza e la lotta senza quartiere al parassitismo economico. Detto altrimenti: è possibile che Fini dia vita (finalmente) a una destra classica, diversissima da quella di Berlusconi, ma questo non implica né che tale destra sia destinata ad assumere tratti liberali, né che sia capace di diventare di massa.
E qui veniamo alla seconda perplessità, questa volta dal lato della domanda politica. Su questo terreno, chiunque ci voglia provare – Fini, Chiamparino, Rutelli, Casini, Montezemolo – dovrà fare i conti con i numeri. E i numeri, basati su un’infinità di sondaggi e analisi delle preferenze elettorali, dicono una cosa piuttosto chiara: finché esistono un polo di destra e un polo di sinistra, lo spazio di un eventuale Terzo polo non può andare molto al di là del 20%, di cui solo la metà (circa il 10%) occupato da una eventuale formazione liberal-democratica. Lo dicono i sondaggi di questi mesi, lo rivelava già tre anni fa un esperimento condotto dalla rivista «Polena» per misurare il potenziale elettorale del centro cattolico e di un eventuale «partito di Montezemolo», di ispirazione liberaldemocratica.
Piaccia o no, in Italia i partiti di massa tendono a essere illiberali, e i partiti di ispirazione liberale tendono a non essere di massa. Ma soprattutto il problema è che i diversi ingredienti del liberalismo si trovano per così dire sparpagliati nel sistema politico, anziché riuniti in un unico partito. Se parliamo di immigrazione, di carceri, di diritti individuali, i più liberali sono i radicali, i seguaci di Vendola e i comunisti. Se parliamo di Stato di diritto, di separazione dei poteri, di senso delle istituzioni, i più liberali sono il Pd e il nascente partito di Fini. Se parliamo di politica economica, i più liberali (o i meno illiberali) sono i leghisti e i riformisti «coraggiosi» del Pd e del Pdl, da Ichino a Brunetta.
Insomma, la mia impressione è che lo spazio per un partito liberale di massa non ci sia. Ci provò Berlusconi nel 1994, e in quasi vent’anni non c’è riuscito nemmeno lontanamente, come ormai riconoscono anche i suoi. Ci provarono a modo loro, da sinistra, le menti più aperte del Partito democratico: Arturo Parisi, Michele Salvati, Walter Veltroni. Anche lì, niente da fare. L’idea piace, seduce, ma non passa. Forse è giunto il tempo di prenderne atto e darsi obiettivi più limitati. Quel che non è riuscito al Pd e al Pdl, difficilmente potrà nascere dalle schegge partitiche che, per le ragioni più diverse, non hanno voluto lasciarsi inglobare nei due partiti maggiori.
La domanda politica per un partito liberaldemocratico in Italia non manca, specie nel Centro-Nord. E sono convinto che esso farebbe bene al sistema politico italiano, che di iniezioni di liberalismo ha un disperato bisogno. Dunque qualcuno lo faccia, questo benedetto partito. Quello di cui non sono convinto è che a riuscire nell’impresa possano essere le forze politiche che attualmente si proclamano liberali, e tanto meno che il suo seguito possa essere di massa. Realisticamente, oggi in Italia lo spazio elettorale di una formazione compiutamente liberaldemocratica è quello di un partito medio, del 10-15%. E il suo ruolo possibile è il medesimo che esso svolge nella maggior parte dei sistemi politici in cui un tale partito esiste: quello di una forza che, alleata con la destra o con la sinistra, prova ad accelerare la modernizzazione economica e civile del Paese.

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